Israeliani, credete a chi vi calunnia: l'ingiunzione di Fabio Chiusi in un articolo che cancella il confine tra informazione e propaganda
Testata: Wired Data: 08 agosto 2014 Pagina: 1 Autore: Fabio Chiusi Titolo: «Gaza, i social media e la propaganda personalizzata»
Riportiamo dall'edizione on-line di WIRED, l'articolo di Fabio Chiusi, datato 05/08/2014, dal titolo " Gaza, i social media e la propaganda personalizzata".
Il tema dell'articolo -l 'ipotesi che i social media producano un'informazione che conferma sistematicamente i pregiudizi degli utenti e che ciò generi comunità chiuse, che non comunicano fra di loro - si presenta falsamente come neutrale . E' evidente, tuttavia, che per Chiusi sono gli israeliani e i sostenitori di Israele a essere prigionieri della propria stessa propaganda. Purtroppo per lui, il suo articolo rivela invece il suo livello di condizionamento alla propaganda di Hamas per il mondo occidentale, incentrata sulla tesi dei "crimini di guerra" israeliani. Contrariamente a quanto scrive, per esempio, l'esercito israeliano non ha attaccato una scuola dell'Onu, ma dei terroristi che operavano nei pressi di una scuola dell'Onu. E che operavano lì al preciso scopo di far scrivere ai media occidentali che Israele attacca le scuole. Chiusi mostra poi di ignorare come, usciti da Gaza, gli stessi giornalisti che secondo lui gli israeliani avrebbero dovuto ascoltare compunti per apprendere presunte verità sui propri crimini, abbiano iniziato a denunciare i crimini di Hamas, in primo luogo la tattica degli scudi umani, di cui non potevano parlare finché erano nella Striscia, per paura di rappresaglie. E proprio questa è l'omissione più clamorosa nel ragionamento proposto nell'articolo: anche solo l'equivalenza tra la "propaganda" israeliana e filo-israeliana e quella di Hamas e dei suoi sostenitori ( e Chiusi va oltre, suggerendo che la prima sia propaganda e la seconda informazione) può essere sostenuta solo ignorando il fatto che Israele è una società libera, dove completamente libere sono le informazioni e le opinioni, mentre a Gaza Hamas ha instaurato un regime totalitario, che controlla l'informazione, intimidisce e minaccia i suoi operatori, reprime ogni dissenso.
Di seguito, l'articolo:
Fabio Chiusi
“Stiamo costruendo motori di propaganda personalizzata che forniscono agli utenti contenuti che li rassicurano e cancellano le parti scomode“, scrive il data scientist di Betaworks, Gilad Lotan, su Medium. L’intuizione è quella, oramai celebre, delle echo chamber di Cass Sunstein e del ‘Filtro’ di cui ha scritto Eli Pariser, ma nella sua analisi Lotan mostra come l’effetto della filter bubble sia concretamente percepibile nel racconto mediatico del conflitto a Gaza. In sostanza, i filoisraeliani parlano con filoisraeliani e si abbeverano a fonti congruenti con la visione filoisraeliana; i filopalestinesi, l’opposto. Capiamoci: qui non è in questione il merito delle due posizioni, chi abbia maggiori ragioni o torti. Qui è in discussione l’idea – non nuova, come detto, ma ancora bisognosa di verifiche sperimentali (per chi, come Seth Flaxman e colleghi la conferma, c’è chi invece la smentisce vigorosamente) – che l’ecosistema della rete sociale promuova l’incontro con opinioni difformi alla propria, piuttosto che alimentare e rinforzare unicamente le proprie convinzioni. Nel contesto di una questione che divide così tanto, non stupisce che si scorgano nettamente – per esempio nell’elaborazione di Lotan delle interazioni su Twitter – due campi distinti, due fazioni (i social network aumentano o rispecchiano la polarizzazione già esistente?). Il punto è che le due fazioni non comunicano tra loro; abitano realtà informative diverse, si potrebbe dire. Questo è il grafico ottenuto da Lotan per la notizia dell’attacco israeliano a una scuola dell’ente per i rifugiati dell’Onu nel nord di Gaza – 15 palestinesi morti, e 200 feriti: E del resto, se le fonti israeliane non riportano o quasi la notizia – come scrive Lotan – non stupisce manchino interazioni tra i media filoisraeliani e una parte consistente dell’opinione pubblica (il che sembra suggerire che il problema non è unicamente attribuibile alle caratteristiche del web sociale, ma anche a più complesse considerazioni sul rapporto tra media e potere). A questo modo, si intensificano le relazioni tra ‘filopalestinesi’ e tutta una serie di testate – BBC, Channel 4, New York Times – che invece riportano la notizia. Con la conseguenza indesiderata, nota l’autore, di rinforzare il pregiudizio israeliano (infondato) di media tutti sbilanciati verso la causa palestinese. Lo stesso si verifica su Facebook e Instagram, prosegue l’autore: “stiamo parlando solo a persone come noi“. Ed è il lato forse più preoccupante delle manipolazioni invisibili degli algoritmi di selezione dei contenuti dei colossi della rete sociale, finite sul banco degli imputati con gli esempi degli interventi di Facebook sulle emozioni di 700 mila utenti, e degli esperimenti di OkCupid sull’affinità delle possibili coppie che lo frequentano. Sono infatti i “motori di raccomandazioni” a base algoritmica a “contribuire a rinforzare i nostri valori“, nutrendo in sostanza una macchina da conformismo dalle dimensioni e soprattutto dalla capacità di infingimento inedite: il messaggio non è chiaramente pubblicitario come in una réclame, non è lo stesso per tutti come una pubblicità televisiva e il factchecking della bontà dei contenuti a cui siamo esposti (si prenda il caso di #GazaUnderFire) diventa sempre più un’esigenza complessa di verifica istantanea e su molteplici fonti – ciò che deriva insomma da quella che David Carr chiama “democratizzazione” della testimonianza di guerra. Soprattutto, non basta cambiare canale o spegnere il computer per liberarsi di quel conformismo: come scrive giustamente il CPJ, sempre più la nostra libertà di stampa dipende dalla libertà di Internet, e la libertà di Internet – ricorda Mashable – è a sua volta sempre più legata alla sua fruizione in mobilità, e in particolare all’incubo della fine della net neutrality: “la libertà“, si legge, “potrebbe diventare una costosa caratteristica aggiuntiva dei piani tariffari per gli smartphone“. Difficile dunque iniziative come #hummuselfie, l’idea di “fungere da ponte tra israeliani e palestinesi online” e “promuovere il dialogo pacifico sui social media invece dell’hate speech” – scrive Quartz – mostrando un autoscatto con la pietanza che piace a entrambi i contendenti, possa davvero contribuire a invertire una rotta che sembra puntare strutturalmente alla divisione; una rotta, è bene ricordarlo, che ha prodotto un dibattito sull’opportunità o meno di utilizzare le terribili immagini dei bambini uccisi come strumento di diffusione della coscienza sociale del problema, sollevando interrogativi di natura morale e perfino antropologica sul significato di una simile esposizione (ripetuta, continua, in tempo reale, a volte decontestualizzata) dei loro cadaveri. Se nemmeno quei corpi hanno vinto la bolla del ‘filtro’, viene da pensare, l’unico effetto che potrebbero aver sortito è radicalizzare i convincimenti e lo sdegno (sacrosanto) di chi già era al corrente di quelle morti ingiustificabili (o peggio, normalizzare l’esposizione a quei cadaveri); non, questo è il punto, intaccare le convinzioni di chi invece le dovesse giustificare: semplicemente, quelle immagini potrebbero non aver nemmeno raggiunto quei soggetti. La questione fondamentale sollevata da Lotan è tuttavia, a mio avviso, ancora un’altra: che oggi la disinformazione siamo noi. È un’idea tagliata con l’accetta, certo, ma letta come un monito ha perfettamente senso: “Eravamo abituati a essere in grado di rendere i media i responsabili della disinformazione“, scrive. “Ora non abbiamo che noi stessi da biasimare“. Potremmo vincere il conformismo con pochi click di sforzo: è che non lo facciamo. Qualche nota in chiusura per provare a guardare al futuro con un briciolo di ottimismo: Haaretz sembra fare eccezione allo schema marcatamente bipolare, segno che raggiungere entrambi i pubblici è possibile (anche se difficile e non necessariamente redditizio). E, per la sua esperienza, Lotan sostiene che l’anonimato su Secret abbia consentito discussioni meno polarizzate; degno di nota, quando l’idea dominante è che l’anonimato conduca, inevitabilmente e all’opposto, a odio e minacce. Di nuovo, pare che il problema non sia unicamente tecnologico – anche se implementare social network per la serendipity, come immagina Ethan Zuckerman in ‘Rewire’, non potrebbe che giovare alla effettiva globalità della conversazione globale: la questione centrale, in questo come in molti altri casi, sembra essere la comprensione effettiva del potere manipolatorio degli algoritmi e di come sia utilizzato per costruire propaganda personalizzata date le condizioni socio-culturali e il contesto di riferimento del caso che si voglia esaminare. Se i social media sono sempre più importanti nel costruire una percezione condivisa degli eventi anche a Gaza, svelarne le dinamiche e tecniche di indirizzo del consenso è il compito che dovrebbe prefiggersi chiunque abbia a cuore la possibilità di un uso dei social media per il dialogo, piuttosto che per il conflitto.
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