Tsahal ha raggiunto i suoi obbiettivi, si tratta per prolungare la tregua, ma continua la guerra dell' informazione Cronache e analisi di Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Davide Frattini e Rolla Scolari
Testata:Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Davide Frattini - Rolla Scolari Titolo: «Israele: si a una tregua duratura ma Hamas vuole un processo - La tregua appesa al disarmo di Hamas - Via i soldati, Gaza prova a ripartire - Chi è lo spione egiziano che tiene i contatti tra Israele e Hamas»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 07/08/2014, a pag. 12, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "Israele: si a una tregua duratura ma Hamas vuole un processo", dalla STAMPA, a pag. 14, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La tregua appesa al disarmo di Hamas ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, l'articolo di Davide Frattini dal titolo "Via i soldati, Gaza prova a ripartire " , dal FOGLIO a pag. 3, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Chi è lo spione egiziano che tiene i contatti tra Israele e Hamas"
Di seguito, gli articoli:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "Israele: si a una tregua duratura ma Hamas vuole un processo "
Fiamma Nirenstein
(Gerusalemme) Finita una guerra, se ne fa un'altra. Stavolta è quella dell'opinione pubblica internazionale, che quando si tratta di Israele sfodera i suoi più acuminati canini: ieri si è riunita l'Assemblea Generale dell'ONU e molti dei delegati non si sono occupati delle migliaia di morti in Siria, ma solo di coprire Israele di accuse. Il Consiglio per i Diritti umani dell'ONU ha già chiesto una commissione d'indagine per verificare eventuali crimini di guerra. Si prevede anche una riunione del Consiglio di Sicurezza. Sullo sfondo, il tribunale dell'Aya. L'informazione è al centro di questa guerra: la sua incapacità di raccontare quello che è veramente accaduto a Gaza sembra il punto focale del biasimo che si addensa su Israele. Al Cairo gli incontri sono per ora cerimoniosi, in stanze diverse gli egiziani parlano con le delegazioni, gli israeliani pongono il problema del disarmo di Hamas, Hamas quello dell'apertura dei confini e del flusso del denaro. Probabilmente il primo risultato dei colloqui sarà solo il prolungamento della tregua, ma nell'ombra si intravede Abu Mazen, il candidato dell'Egitto, di Israele e degli USA per un cambiamento che metta all'angolo Hamas e disegni un cambio di mano a Gaza. Ma se Abu Mazen si dichiara avverso alla violenza e da qui ottiene l'appoggio dei moderati, dall'altro lato tiene alta la sua egemonia presso tutti i palestinesi con l'accusa di crimini di guerra a Israele, che rende i suoi leader e i soldati passibili di arresto in mezzo mondo e Netanyahu una specie di Milosevich. Il suo ministro degli esteri Ryad al Maliki martedì all'Aya ha chiesto l'ammissione al tribunale. Abu Mazen ha accusato Israele di "genocidio". L'eco molto negativa per lo Stato Ebraico si basa sulle immagini dalla Striscia. Israele sostiene che delle 1.800 persone uccise (numeri dati da Hamas) il 50 per cento sono miliziani, che i civili nonostante gli avvertimenti con volantini, telefonate, un bum preventivo senza danni, sono stati trattenuti come scudi umani nelle case, negli ospedali e nelle scuole. I missili sono stati lanciati da finestre, cortili, i miliziani si sono coperti di donne e bambini, molti edifici sono stati distrutti dal fuoco di Hamas mal mirato o volontariamente diretto per la solidarietà internazionale. Ci sono le prove? Ora che i giornalisti sono usciti, cominciano a venire alla superficie. Si sa che fotografi e cameraman sono stati minacciati ed espulsi se hanno fotografato militanti armati. Solo i poveri civili dovevano apparire nelle cronache. Nell'ospedale Shifa nei sotterranei c'è la centrale di Hamas, ma i giornalisti sono tenuti a fotografare solo i feriti e i morti. Il giornalista italiano Gabriele Barbati, del TG5, una volta uscito ha twittato "lontano da Gaza e dalla vendetta di Hamas" e "i bambini di Shati sono stati uccisi da un lancio sbagliato, i miliziani sono corsi a ripulire". E' uno dei casi per cui Israele è stato accusato. Gallaghen Fenwick di France 24 ha mostrato una rampa di lancio in mezzo alle case e a cento metri da una sede dell'ONU. Israele è stata accusata di mirare all'ONU e alle sue scuole. La giornalista dell'Helsingin Sanomat ha testimoniato che Hamas spara dall'ospedale Shifa; e cinque minuti prima della tregua Sreenivasan Jain, dell'indiana NDTV, ha mostrato, sotto l'albergo dei giornalisti, tre uomini che sparano un missile e poi nascondono l'armamentario. Sreenivasan dichiara nel video che sarà trasmesso solo quando lui sarà fuori "perchè Hamas non tratta gentilmente chi li filma" e spiega che senza la tregua fra un minuto, tutti sarebbero stati in pericolo. Dunque, chi è il criminale di guerra dato che l'uso di scudi umani è vietato da ogni convenzione internazionale? Un'indagine seria esporrebbe Hamas, chissà se Fatah vuole andare fino in fondo.
LA STAMPA - Maurizio Molinari: " La tregua appesa al disarmo di Hamas"
Maurizio Molinari
La tregua a Gaza entra nel terzo giorno e al Cairo i mediatori egiziani tentano di avvicinare quanto possibile le posizioni di Hamas e Israele per riuscire a prolungarla. Mussa Abu Marzuk, rappresentante di Hamas nella delegazione inter-palestinese formalizza le richieste della «resistenza»: «Apertura di porto e aeroporto, libertà di transito ai valichi con Israele ed Egitto, corridoio terrestre fra Gaza e Cisgiordania» oltre a ripristino dei diritti di pesca entro 12 miglia dalla costa e la liberazione di detenuti nelle carceri israeliane. Sul fronte opposto la delegazione di Gerusalemme, composta da tre alti funzionari militari, chiede il «disarmo di Hamas» a cominciare dalla «consegna dell’arsenale di tremila razzi» ancora a disposizione. La scelta di Israele di puntare sul disarmo trova il sostegno del Segretario di Stato Usa John Kerry che, alla «Bbc», dice: «Se Hamas vuole la fine del blocco economico deve accettare di cedere gli armamenti». La sintonia fra Washington e Gerusalemme su questo punto viene confermata dal premier Benjamin Netanyahu: «Hamas è come Isis e Boko Haram, deve essere disarmata». Nel tentativo di individuare un sentiero fra le posizioni divergenti, il presidente egiziano Adel Fattah Al Sisi mette in campo il capo dell’intelligence Mohamed Farid El-Tohamy che in un incontro con il capo delegazione palestinese Azzam Al-Ahmed, stretto collaboratore di Abu Mazen, parla schietto: «Porto, aeroporto e corridoio non sono ipotizzabili» mentre l’Egitto è disposto a prendere in considerazione la riapertura del valico di Rafah «se sul lato opposto del confine vi saranno le forze dell’Autorità nazionale palestinese (Anp)». Attorno a questo passo si sviluppa la mediazione egiziana che suggerisce un prolungamento di «120 ore» del cessate il fuoco per arrivare ad un «accordo più solido». Hamas non si oppone alle forze di Abu Mazen lungo i valichi ma chiede «risultati più visibili» in termini di «fine del blocco» economico e qui la trattativa con gli israeliani investe i beni che potranno transitare, a cominciare dal cemento. Poiché è la materia prima con cui Hamas ha costruito i tunnel, Israele può accettare che transiti solo in presenza di «rigidi controlli ai confini». Da qui le indiscrezioni sull’iniziativa di Berlino di riattivare al confine di Rafah la missione dell’Unione europea per monitorare i traffici. Si tratta di un’unità anglo-franco-tedesca creata nel 2005, d’intesa con Israele ed Anp, che cessò di operare dopo il colpo di mano con cui Hamas nel 2007 si impossessò della Striscia. Israele è a favore di una presenza internazionale, fino al punto da suggerire con il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman un «mandato Onu come quelli che hanno avuto successo in Kosovo e Timor Est». Ma in serata arriva la doccia fredda. Tocca a Ismail Radwan dire che Hamas non è soddisfatta, che «alle nostre domande non ci sono state risposte» e che «al termine di questa tregua, venerdì riprenderanno gli attacchi». Intanto Israele ha un altro fronte da coprire: quello apertosi con l’Onu che la accusa di aver «violato il diritto internazionale» con gli attacchi alle scuole a Gaza: l’Anp prepara una denuncia all’Aja per «crimini di guerra». La contromossa di Netanyahu è rendere pubblici filmati e documenti che provano il sistematico uso di scudi umani da parte di Hamas.
CORRIERE della SERA - Davide Frattini: "Via i soldati, Gaza prova a ripartire. E' già lotta tra Hamas e Abu Mazen "
Davide Frattini
RAFAH — Ashouka, la Spina, è orti che provano a nascondere il deserto, baracche che non possono nascondere la povertà. Questo villaggio sta a un paio di chilometri dal confine con Israele. Case basse, poche sono costruite in muratura, qui Rafah ritorna nomade, perde le pretese di città. Il palazzotto di Ali Al-Shur è stato trasformato in trincea temporanea dalle truppe, per arrivare alla porta d’ingresso al primo piano non c’è bisogno di prendere le scale, basta salire la montagnola di sabbia innalzata dalle ruspe per proteggere i soldati israeliani dietro le finestre. Hanno lasciato indietro scatolette di tonno, fagioli, olive della Galilea e altro metallo svuotato: bossoli di mitragliatrice, proiettili da 402 mm. Una settimana fa Tsahal ha temuto che uno dei suoi fosse stato catturato tra i vicoli della Spina. Il sottotenente Hadar Goldin, 23 anni, è morto in una delle gallerie scavate sotto a questi campicelli ormai arati dai cingolati dei carrarmati. La ricostruzione dell’esercito racconta che i miliziani sono sbucati da una galleria, uno di loro si è fatto esplodere, ha ucciso due soldati, gli altri hanno cercato di trascinare nel buco Goldin o quel che ne restava. I comandanti hanno dato l’ordine di applicare la «dottrina Annibale», colpire con ogni mezzo il commando in fuga anche a rischio di uccidere l’ostaggio. La casa dell’agguato non è raggiungibile. Ali indica le macerie attraverso la voragine nella parete del soggiorno. «Non possiamo avvicinarci, due agenti dell’intelligence di Hamas mandano via chiunque provi a raggiungere quella galleria» spiega. E’ tornato a quel che resta della sua villetta solo ieri, temeva che la tregua non reggesse, troppe volte era stata annunciata per poi durare poche ore, durante i ventinove giorni di guerra si è rifugiato in una delle scuole delle Nazioni Unite. Con i figli recupera quel che non è stato distrutto dall’ultimo tiro di artiglieria: «Quando i soldati sono andati via l’hanno demolita». La bandiera gialla di Fatah e la foto di Abu Mazen assieme a Yasser Arafat stanno appese come una provocazione sulla tenda funebre di Abdel Al Baset Abu Helal. Non le esibiva da sette anni, da quando i fondamentalisti di Hamas gli hanno imposto di non indossare più la divisa delle forze palestinesi e lo hanno relegato a una vita da pensionato più o meno agli arresti domiciliari (anche se continua a ricevere lo stipendio da Ramallah). La morte del figlio toglie speranza, ridà coraggio. Lavorava come volontario nella scuola dell’Unrwa, l’organizzazione Onu per i rifugiati palestinesi, è stato ammazzato cinque giorni fa dall’esplosione di un missile israeliano sparato per eliminare tre miliziani della Jihad Islamica. «Speriamo che questa guerra almeno riporti Abu Mazen a Gaza: deve ritornare a essere il presidente di tutti i palestinesi, non solo in Cisgiordania». Mukhaimer Abu Saada insegna Politologia all’università Al Azhar, fondata da Fatah. Ammette che Hamas abbia riconquistato popolarità con le operazioni attraverso i tunnel, gli attacchi dentro a Israele, i 64 caduti tra i soldati. «La gente però sta già chiedendo se ne sia valsa la pena. La distruzione, i quasi 1.900 morti... Per ottenere quale risultato?». Hani Basous è uno studioso dell’ateneo islamico, finanziato da Hamas. «Le sanzioni economiche e la chiusura dei valichi avevano messo in difficoltà il movimento, gli abitanti erano al limite della sopportazione. La scelta di rinunciare al governo, di tornare agli interventi sociali e infine lo scontro militare hanno ridato sostegno al movimento. D’ora in avanti Hamas resterà fuori da ogni coalizione politica, hanno preso la strada esclusiva della resistenza». La scuola dell’Unrwa sulla strada tra Khan Yunis e la città di Gaza ha accolto tremila palestinesi in fuga dalle aree dei combattimenti, dopo la tregua sono andati via quasi tutti, in 700 non hanno dove tornare. «I tre piani dove vivevamo tutti insieme sono stati distrutti» dice Abed Al Samad Masri». Fa da portavoce al clan, gli uomini lavoravano in Israele prima della chiusura dei valichi, sono disoccupati, abitano sul confine. «Nessuno è venuto a rassicurarci, non sappiamo se ci saranno i soldi per risarcirci. In queste settimane le autorità palestinesi non si sono fatte vedere». Al Cairo le delegazioni stanno negoziando un’intesa che permetta di riportare la calma. I mediatori egiziani sembravano aver ottenuto un’estensione della tregua fino a lunedì, ma Hamas non ha accettato. L’annuncio su un tweet di Moussa Abu Marzuk, il numero due del movimento. A Gerusalemme il premier Benjamin Netanyahu convoca i giornalisti stranieri per quella che sembra una conferenza stampa di fine guerra. Ribadisce: «La comunità internazionale deve legare la ricostruzione al disarmo di Hamas, che sfrutta i morti tra la popolazione come strumento di pubbliche relazioni. Siamo dispiaciuti per ogni singola vittima civile e pronti ad accettare un ruolo di Abu Mazen a Gaza».
Il FOGLIO - Rolla Scolari: " Chi è lo spione egiziano che tiene i contatti tra Israele e Hamas"
Rolla Scolari Mohamed Farid al Tohamy
Milano. Ora che a Gaza le armi hanno lasciato il posto alla diplomazia e Israele annuncia il cessate il fuoco a tempo indeterminato, il palazzo dei generali al Cairo si riempie. In Egitto, ci sono la delegazione palestinese – composta da diverse fazioni politiche – i negoziatori israeliani, ma anche l’inviato internazionale per il medio oriente Tony Blair, il coordinatore delle Nazioni Unite per il processo di pace Robert Serry, e un mediatore americano. I colloqui tra chi ha fatto la guerra sono indiretti perché la leadership di Hamas e quella israeliana non accettano di sedere allo stesso tavolo. Così, sono i mediatori dell’intelligence egiziana a fare avanti e indietro tra le delegazioni, ad ascoltare proposte e rifiuti. L’uomo dietro la trattativa, la persona cui il rais Abdel Fattah al Sisi ha affidato il delicato compito, è il capo dei potenti mukhabarat – i servizi segreti egiziani – il generale Mohamed Farid al Tohamy. E’ a lui che la delegazione palestinese ha consegnato lunedì le proprie condizioni per un cessate il fuoco permanente: l’avvenuto ritiro dei soldati israeliani da Gaza, l’apertura dei valichi di confine, l’annullamento del blocco imposto da Israele sulla Striscia dal 2007, anno in cui Hamas ne conquistò il controllo, e la liberazione di prigionieri. Le trattative rischiano d’essere complicate, visto che difficilmente Israele acconsentirà alla completa apertura delle frontiere e considerata la richiesta del governo di Benjamin Netanyahu: il disarmo di Gaza. Il premier israeliano ieri ha detto che Israele si rammarica per le vittime civili – quasi 1.900 a Gaza, il 75 per cento civili secondo l’Onu – ma ha dato la colpa a Hamas per aver rifiutato diverse tregue. A innervosire la trattativa è arrivata anche la notizia dell’arresto da parte delle autorità israeliane di un uomo considerato il mandante del rapimento e dell’uccisione a giugno di tre adolescenti israeliani. Secondo gli inquirenti, la sua cellula sarebbe legata a Hamas, anche se il gruppo non ha mai rivendicato l’azione. La tregua di 72 ore scadrà venerdì mattina, ma già si parla della possibilità di un rinnovo del cessate il fuoco, per far continuare i negoziati. Mohamed Tohamy è un ex ufficiale dell’intelligence militare egiziana, conosce bene i dossier israeliano e palestinese e sa che potrebbero servire giorni per trovare un accordo. Si potrebbe dire che il generale è per il presidente Sisi quello che l’enigmatico ex capo dei servizi Omar Suleiman era per Hosni Mubarak. In molti hanno definito Tohamy – 66 anni – il “mentore” del più giovane Sisi, 58. Come il presidente, per un’intera generazione di egiziani è un uomo che con la sua presenza ai vertici del paese cancella le spinte al cambiamento della rivoluzione del 2011. Prima di essere alleato di Sisi, infatti, era fedele collaboratore di Hosni Mubarak, a capo di quell’Autorità per il controllo amministrativo che aveva l’obiettivo di lottare contro la corruzione ma che secondo i detrattori del regime ne copriva gli abusi finanziari. Licenziato frettolosamente nel settembre 2012, dopo l’elezione del leader dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi, è stato subito nominato capo dei servizi con l’avvento di Sisi. Fonti diplomatiche occidentali hanno raccontato al New York Times come Tohamy non sia soltanto un guardiano dell’ordine passato, ma uno dei militari che dettò la linea dell’esclusione dei Fratelli musulmani dalla politica e un sostenitore di quella repressione che ha causato centinaia di morti nell’estate del 2013. Tohamy, descritto da David Ignatius che lo ha intervistato sul Washington Post come “un uomo scarno, con un principio di calvizie, occhi profondi e l’intenso e riservato modo di fare di chi vive nell’ombra”, è stato tra i sostenitori più robusti dell’allontanamento dal potere della Fratellanza, di cui Hamas, proprio oltre il confine, non è che una costola. Con la sua prossimità geografica alla Striscia, l’Egitto è mediatore ma anche parte della trattativa e non è dunque una sorpresa che ieri sia riemerso il suo scetticismo nei confronti della richiesta palestinese di una completa apertura del confine con Gaza.
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