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Il Foglio Rassegna Stampa
05.08.2014 In difesa di Israele, contro la deriva antisionista e antisemita dell'Occidente
Editoriale di Giuliano Ferrara

Testata: Il Foglio
Data: 05 agosto 2014
Pagina: 1
Autore: Giuliano Ferrara
Titolo: «Difendere Israele dall'occidente»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 05/08/2014, a pag. 1, l'articolo di Giuliano Ferrara dal titolo "Difendere Israele dall'Occidente"


Giuliano Ferrara



L’altra sera a cena una persona che mi è cara ha sbuffato la sua opinione sulla guerra di Gaza e circonvicini: basta, qualcuno si deve trasferire, non c’è altra soluzione. Ho evitato di litigare perché sono invecchiato e la cena estiva non è teatro di eroismi e passioni, ho fatto finta di non aver sentito. Ma era chiaro chi avrebbe dovuto traslocare via mare. Un’altra persona, un accademico, ha detto che Israele non è più quello di una volta, la società intellettuale si è chiusa, è divenuta più rigida. Ho di nuovo fatto finta di niente, sempre per gli stessi motivi. Ma era chiaro che alle università ebraiche sotto boicottaggio europeo non veniva lasciato nemmeno lo spazio per un quantum di irritazione e di nervosismo, bisogna essere cool under pressure.
Il mondo è Judenmüde, è stanco degli ebrei. Lo ha scritto il titolare di una delle intelligenze più penetranti del pianeta, George Steiner, a Giulio Meotti. E’ vero.
E’ questo il vero elemento tragico che spiega la tragedia ulteriore della guerra inevitabile, delle vittime civili, dei bambini, fatti aberranti che vengono recepiti spesso da media e opinionisti, e spesso in modo subdolo o trasversale, come una responsabilità del carattere aggressivo e militarizzato di Israele. Questa stanchezza da psicologia del profondo spiega il progressivo isolamento ideologico e sentimentale di Israele e degli ebrei nell’opinione di massa in Europa, con forte pescaggio nelle acque limacciose dell’antisemitismo, nemmeno più travestito, almeno nei casi peggiori o più trasparenti, in antisionismo.
La gente comune fanatizzata dalle cose, la european street fattasi parte della famosa arab street, non ha voglia di pensare i fatti, e di valutarli. Non conta che Israele con Sharon abbia unilateralmente lasciato libero il popolo palestinese di Gaza di fare il suo comodo, ritirando soldati, legittimi insediamenti e grandi speranze quasi dieci anni fa. Non importa che in seguito siano state distrutte le fattorie e bruciate le sinagoghe. Che il potere sia stato preso, con l’aggravante della procedura elettorale mista a quella militare, da una organizzazione fondamentalista parte della Fratellanza musulmana, Hamas, che considera un dovere uccidere gli ebrei e annientare l’entità sionista, come la chiamano. Non importa che i padroni della Striscia abbiano impiccati come spie a derrate i palestinesi cosiddetti moderati, quelli che hanno cercato di seguire Fatah, di cui si dice sia un’organizzazione laica, e Abu Mazen.
Non importa che abbiano trafficato in armi e denaro e infrastrutture sotterranee, in combutta con l’Iran e altri esperti delle guerre per procura o proxy wars, allo scopo di colpire dalla terra e dall’aria, intimidire, terrorizzare i vicini, le famiglie, i bambini, e di prevalere nella lunga marcia verso l’estinzione di Israele. Non importa che di fronte alla risposta difensiva dura di Israele, a difesa del popolo che lo abita, i signori di guerra della Striscia non si facciano alcuno scrupolo di usare il loro, di popolo, per proteggere le loro armi come con uno scudo di carne umana in una sporca “guerra umanitaria” condotta con i bambini morti per conquistare l’opinione pubblica internazionale “stanca degli ebrei”. Perfino uno scrittore e direi un’anima meravigliosa come Amos Oz, che queste cose le sa benissimo e in sintesi chiara le ricorda a Wlodek Goldkorn dell’Espresso in una recentissima intervista, pensa che si possa e debba prendere un’altra strada, ed è responsabilità della destra israeliana al governo il non farlo, trattando con Abu Mazen la restituzione dei territori conquistati nel 1967 e la creazione di due stati confinanti. Una prospettiva che ebbe un suo senso e un suo valore storico ma che, nel mondo com’è oggi, è diventata, almeno pare a me e ad altri, poco più che una lagnosa tiritera.
La gara sul nucleare iraniano, incombente perché mal controllata dalla giustizia politica internazionale titolare dei problemi dell’ordine o della agostiniana tranquillitas ordinis, la demenziale e mortuaria progressione di morte in Siria, la destabilizzazione di tutti gli equilibri e l’avanzata militare, omerica, di eserciti califfali in Siria e in Iraq, la riluttanza strategica dell’Amministrazione americana, la deriva sabotatrice della vita e dell’identità israeliane nella bella coscienza degli europei, le follie dei turchi, la persistenza dei talebani: di tutto questo e di molto altro le menti analitiche del New York Times non si vogliono occupare o se ne occupano per arrivare sempre alle stesse conclusioni. Bisogna trattare, cedere territori, considerare Hamas un interlocutore di governo, smetterla con la fissazione dei tunnel e dei muri e procedere alla costruzione di ponti con i moderati; e non sono necessità astratte, sulle quali tutti concorderebbero, ma impellenze della politica alle quali si deve piegare il governo di Gerusalemme, alle quali va costretta l’opinione di schiacciante maggioranza che ancora regna nella democrazia israeliana.
Mi sembrano ingenerose futilità, bellurie prive di senso.
Oggi lo status quo, che qualcuno deve incaricarsi di mantenere e proteggere con l’unico mezzo, che è la forza, è il vero orizzonte possibile e visibile nella storia del conflitto generato dalla nascita e dalla storia nazionale di Israele. Guardare lontano, provvedere alla pace in senso provvidenziale, fidandosi e affidandosi, è impossibile. Troppe cose devono cambiare, e prima di tutto deve essere sconfitta la strategica avanzata dell’islam politico nel mondo, l’islamofilia delle classi colte e riflessive dell’establishment europeo, l’isolazionismo travestito da umanitarismo dialogante della diplomazia imbelle degli Stati Uniti. Devono nascere un’identità popolare pacifica e una classe dirigente che punti, in Palestina, sulla creazione di condizioni di vita decenti, sullo sviluppo e la coesistenza con il diverso da te, sulla libertà religiosa e il pluralismo dei credo, pagando i prezzi relativi, tutte cose che mancano disperatamente in quel panorama di rovine che è il lascito di decenni di guerra di liberazione cosiddetta e della rivoluzione politica jihadista in corso.
Non è vero che queste cose, cioè il giù-le-mani-da-Israele, la consapevolezza della realtà oltre il dramma della sua ricezione dissociata e inversa, non hanno spazio in Europa, come sostiene Roger Cohen. Qui una leader storica della sinistra che ammira Hamas, Luciana Castellina, si è doluta dell’assenza di manifestazioni pro-palestinesi e anti-israeliane. E del fatto che a Roma, in tre giorni e con un tweet e al prezzo di un paio di migliaia di euro, due-tremila persone hanno inscenato una veglia di riflessione e di unità tra ebrei e cristiani mediorientali perseguitati, con tutti i puntini sulle “i” e tutte le cose a posto. Si può, credendoci, dissolvere la nube tossica dell’antisionismo antisemita travestito da pacifismo umanitario e trattativismo, e rimettere alcune cose a posto perfino nella coscienza inquinata di questa parte debolissima d’occidente. E lo status quo armato e tutelato, la sua difesa fino a che non cambi il registro del jihadismo terrorista, non è affatto una parola cattiva, una mala intenzione.

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