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La Repubblica Rassegna Stampa
05.08.2014 Gli stereotipi antisraeliani di Adriano Sofri e Zygmunt Bauman
ciechi di fronte all'aggressione di Hamas

Testata: La Repubblica
Data: 05 agosto 2014
Pagina: 1
Autore: Adriano Sofri - Antonello Guerrera
Titolo: «Uomini e animali tra le macerie - 'Gaza è diventata un ghetto Israele con l’apartheid non costruirà mai la pace'»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 05/08/2014, a pagg. 1-14, l'articolo di Adriano Sofri dal titolo "Uomini e animali tra le macerie" e a pag. 13 l'intervista di Antonello Guerrera a Zygmunt Bauman dal titolo " 'Gaza è diventata un ghetto Israele con l’apartheid non costruirà mai la pace' "

L'articolo di Adriano Sofri descrive le distruzioni a Gaza senza indicarne la causa, ovvero la politica di Hamas. Insiste sulla "sproporzione" di forze tra Tsahal e Hamas, minimizza la minaccia rappresentata da quest'ultimo per i civili israeliani, che sono tutti, indistintamente, suoi obbiettivi.
Emerge così l'immagine di un Israele dalla parte del torto perché si difende efficacemente, perché protegge i suoi civili, perché alla cultura della morte di Hamas oppone una cultura della vita, anche quando è sotto attacco.
Scompare la distinzione etica fondamentale, l'unica che conti davvero per distinguere torti e ragioni in una guerra: quella tra aggrediti e aggressori.

L'intervista a Zygmunt Bauman è un perfetto esempio di demonizzazione antisraeliana: Gaza come il Ghetto di Varsavia, la violenza sempre e per definzione "sproporzionata" delle risposte militari al terrorismo, l'apartheid, l'insensibilità israeliana alle vittime palestinesi...


Israeliani in un rifugio

Di seguito, l'articolo di Adriano Sofri:


Adriano Sofri

GAZA
Non comincerò dai bambini: troppo facile, direste. Comincerò da dove comincerebbero i bambini, forse, dallo zoo di Gaza. Si trova in un sobborgo tra la città e il valico di Erez, pesantemente bombardato e svuotato dei suoi abitanti. C’era un parco giochi: le giostre sbrindellate, il terreno disseminato di proiettili d’artiglieria, una voragine delle mille aperte per distruggere la bocca dei tunnel. Scendiamo fino alle gabbie, aspettandoci di non trovarle più in piedi, e di non trovare vivi gli animali. Da giorni nessuno viene fin qui. Invece le gabbie, sgangherate, ci sono.
INFIME del resto: anche in tempi normali c’era poco spazio per gli animali prigionieri. Qualcuno ha drizzato alla buona delle lamiere lungo le sbarre, coperto gli strappi con irrisorie reti di fil di ferro. E ci sono gli animali. Un gibbone, nella prima: si muove lentamente di qua e di là, incerto fra accoglienza e offesa. C’è un odore tremendo di putrefazione, che guida lo sguardo sui cadaveri decomposti di due cuccioli. Le gabbie successive sono dei leoni: una coppia in una, un grosso maschio nell’altra. Erano celebri: perché lo zoo si è formato, pochi anni fa, importando le sue fiere dall’Egitto attraverso i famigerati tunnel, come ogni altra mercanzia.
Portare leoni o tigri nei tunnel — e come fare con una giraffa? — fu un’impresa dubbia e favolosa, un passaggio di elefanti sulle Alpi alla rovescia. Due anni fa nacquero due leoncini, i bambini di Gaza furono felici, i custodi dello zoo non riuscirono a tenerli in vita. Ora i leoni devono essere affamati e assetati a morte, e però non hanno un atteggiamento aggressivo: al contrario, si drizzano contro la rete come aspettandosi ristoro, o almeno una complicità all’evasione. Nella prossima gabbia c’è una piccola disgraziata arca di Noé, un sovraffollamento — uso l’apposito termine carcerario — di animali alla rinfusa non so se da sempre o per l’emergenza: anatre, un imponente pellicano, che spinge verso di me il magnifico becco, un coccodrillo morto, lui, con la testa infilata dentro un tubo, e i resti spiaccicati di una cicogna. In un recinto accanto due struzzi mi vengono incontro con dignitosa fiducia. C’è una coppia di aquile avvilite, una gabbia di volpi che corrono in cerchio e si scavalcano frenetiche, una di lupi. Era diventato famoso, questo zoo raccogliticcio, anche perché un veterinario si era arrangiato a esaudire la passione dei bambini per le zebre dipingendo a strisce nere un paio di asinelli bianchi. (All’indomani della guerra dal famigerato nome di Piombo fuso lo zoo safari di Tel Aviv offrì di regalare due zebre vere: idea lodevole, non se ne fece niente). Di queste zebre d’emergenza non trovo traccia. L’ultima gabbia davanti a cui mi fermo, mentre il nostro accompagnatore ammonisce che questa è zona di guerra, contiene una coppia di macachi, e solo quando la femmina si muove mi accorgo che ha un piccolo aggrappato alla pancia. E’ quello che vi guarda dalla fotografia su questa pagina. Incredibile come somigli a un bambino, eh?
Non ho cominciato dai bambini, era troppo facile. I cuccioli umani non hanno chiesto di venire al mondo, e perciò sono innocenti: strada facendo si persuadono di poter essere via via più padroni del proprio destino, della propria destinazione, e smettono di essere innocenti. Gli altri animali molto meno, benché un vecchio scimpanzé di Gaza debba essersi fatto un’idea di come va il mondo, e i suoi colleghi abbiano imparato come i bambini a terrorizzarsi per le bombe, e a non distinguere tra quelle che vengono dal nostro lato e quelle che arrivano dall’altro. Gli occhi dei bambini di Gaza sono sospetti, ti fissano dagli appelli dell’Unicef o dai manifesti di Hamas. Troppo facile, si dice. Dipende da chi guarda, e l’occhio spalancato di uno struzzo basta a dire a che punto è la storia. Che cosa succede dei prigionieri quando una catastrofe li lascia soli e senza scampo nelle loro gabbie? Gaza, si dice, è una galera a cielo aperto, e ora persino il cielo le si chiude addosso. Intervistato su Israele, un abitante di Gaza, senza avere in mente gli animali in carne e ossa, ha detto: «Se tieni un animale in uno zoo sei obbligato a prendertene cura. Non puoi lasciarlo a morire di fame». Ora perfino il cielo le si chiude addosso. La legge morale a ramengo, il cielo delle bombe sopra di lei. Le ore di tregua concesse (e violate) ieri da Israele ci hanno permesso di attraversare la Striscia, tranne la zona di Rafah. In alcuni quartieri di Gaza City la distruzione è enorme, a Shajaya, a Jabalya. Così nei villaggi di frontiera di Beit Hanoun e Beit Lahya. Ma nel villaggio di Khuza’a ho visto macerie che so paragonare solo a quelle che vidi in Cecenia. Khuza’a è nel sud della Striscia, a 500 metri dal confine con Israele, vicino a Khan Yunis. Aveva 8000 abitanti, tutti sfollati: ieri, fidando — e diffidando — della sospensione, alcuni di loro sono venuti a vedere che cosa rimane delle loro case, a frugare con le mani alla ricerca delle loro cose, a riprendersi un cuscino, una gallina superstite. Sono venuti a piedi, in moto o in auto, su strade squartate, e soprattutto sui carretti tirati dagli asini, eroi rassegnati della vita quotidiana e del disastro della guerra. C’erano quasi altrettanti giornalisti, e magari avete visto in televisione la rovina, o la grande insegna metallica contorta sulla quale si legge ancora: “Bon voyage”, in francese, chissà perché, e in arabo. Avrete visto, potete leggere, ma non sentirete l’odore soffocante di morti, umani e altri animali, ancora seppelliti sotto l’immane mole di macerie. Dalla moschea maggiore, crollata su se stessa come un castello di carte, erano stati estratti, in un breve cessate il fuoco precedente, quaranta corpi umani. Nell’ultima casa prima della “zona cuscinetto”, dei ragazzi con la bocca e il naso coperti dalle magliette vi portano a vedere lo stanzino nauseabondo in cui sei miliziani di Hamas sono stati giustiziati, e i militari israeliani, per la fretta o la distrazione, non si sono curati di ripulire. Voglio dire, senza rinunziare al mio pregiudizio in favore dell’esistenza dello Stato di Israele — in realtà il postgiudizio di uno che è nato nei giorni in cui si davano gli ultimi ritocchi alla soluzione finale — che nessuna considerazione può far credere che una simile, metodica, totalitaria devastazione abbia a che fare con obiettivi circoscritti come la neutralizzazione dei tunnel o dei lanci di razzi da parte dei miliziani islamisti di Gaza. È così per Khuza’a, per la centrale elettrica sventrata, e per altri luoghi che abbiamo visto e filmato.
Per me, che non ero mai venuto a Gaza, scriverne è come compilare il necrologio di qualcuno che non si è mai incontrato da vivo. Gaza non è affatto morta, naturalmente, benché sia stata tanto colpita, ma mi manca il confronto continuo che le persone che la abitano o quelle che l’hanno a lungo frequentata fanno con le cose di prima: questa strada deserta e spenta che prima era brulicante di negozi e gente, questa distesa di macerie che era un villaggio dei più prosperi. O anche con le guerre di prima: vengo dal 2006, dice Mauro Della Torre, il chirurgo di guerra italiano arrivato in fretta dal Sud Sudan all’ospedale Shifa di Gaza City, ma non avevo ancora visto un simile strazio di corpi. Ignaro sia delle guerre di prima che della pace di prima, io posso solo raccontare quello che ho visto finora in due giorni appena. Sono più lunghi i giorni e le notti scandite da colpi di artiglieria e di bombardamenti aerei e navali — e di missili e razzi di Hamas e di Jihad: ogni volta bisogna reimparare se il rimbombo proviene da un ordigno collocato dal lato in cui ti trovi in quel momento, e allora devi restare indifferente, o è un colpo in arrivo, e allora puoi avere un sussulto d’ordinanza. Per non sfigurare. E soprattutto la striscia di Gaza è piccolissima, e in un giorno la si percorrerebbe per intero chissà quante volte. Gaza è grande come la provincia di Prato, che è la più piccola delle province toscane. Sicché quella che si chiama pomposamente Quarta Guerra di Gaza è una specie di bega di vicinato, un feroce scontro di pianerottolo. Gaza non è morta, e non è com’era prima: è come uno dei feriti che fanno disperare il chirurgo di guerra, che si tengono fra le mani le viscere dilagate. Si abusa del nome di guerra — lo si fa in tutto il mondo. Le guerre erano mostruose, ma fingevano un loro codice. Questa la si chiama guerra per alludere a un conflitto che si crede irriducibile, o si vuole irriducibile. Non è vero. La pace potrebbe sempre venire e mostrare una sua ragionevolezza e naturalezza. Intanto, non è solo la disparità colossale di mezzi militari a far escludere la nozione di guerra, pur con la variante dell’asimmetria — da conservare solo per il suo faticoso corollario, i crimini di guerra e la loro sanzione morale e giudiziaria. La vita rispettiva nelle retrovie è troppo diversa: più di quanto sia lontano un asinello bianco che trascina il carro di masserizie da un’auto lustra di grossa cilindrata. La Striscia di Gaza non ha retrovie: è tutta una prima linea. Israele è tutta una retrovia, con i suoi figli ragazzi e i suoi fedeli riservisti lungo la prima linea. A Tel Aviv, a Gerusalemme, la guerra è impercettibile se non per la penuria di turisti, per l’apprensione delle famiglie, per una tensione a fior di pelle che qua e là rompe e avverte della tragedia. Ieri a Gerusalemme, nel cuore della retrovia, la tensione è esplosa in un modo sanguinoso e allarmante. L’odio sa come nutrirsi e farsi spazio. Hamas non era amato, nella Striscia. I suoi 20 mila miliziani si nascondono sottoterra, i suoi tesserati erano ridotti a 10 mila persone. La sua manomissione delle cose che rendono preziosa la vita — la libertà delle donne, della scelta sessuale, il ripudio del corteggiamento della morte altrui e propria, della superstizione religiosa — pesa sulle persone di Gaza quanto e più che su quelle del resto della terra. Se i responsabili di Israele si sono fatti prendere ancora una volta la mano dal desiderio di una punizione collettiva concedendosi l’illusione che servisse a renderne Hamas colpevole e invisa agli occhi della gente di Gaza, ha sbagliato due volte.

Di seguito, l'intervista di Antonello Guerrera a  Zygmunt Bauman


Antonello Guerrera             Zygmunt Bauman

«Ciò a cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto ». A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all’Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939. Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l’aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell’abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest’intervista a Repubblica .
Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all’offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili?
«Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell’apartheid — nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi — che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l’ 8 luglio, prima dell’invasione di Gaza, Israele pratica l’apartheid ricorrendo a “due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi ‘fuorilegge’. Del resto, quando l’esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell’omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi”. E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri».
Come anche lei sottolinea, tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C’è chi, come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma necessaria. Chi la giudica eccessiva e “sproporzionata”. Lei che ne pensa?
«E come sarebbe una reazione violenta “proporzionata”? La violenza frena la violenza come la benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide l’impegno di non spegnere l’incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è accecata dalle passioni) ci ricorda: “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione. Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le parti del conflitto fa comodo la violenza dell’avversario per rinvigorire le proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano, avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero avere entrambi ragione».
Cosa pensa, nello specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo?
Ha commesso errori?
«Netanyahu e i suoi sodali, e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché temono che l’odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non sono “errori”. I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l’arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. L’insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull’odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire».
Lei in passato è stato critico nei confronti del sionismo e dell’uso che Israele fa della tragedia dell’Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
«Raramente la vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso, invece, provoca un’unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele, nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un’eccezione. Quello a cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni). Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro».
A questo proposito, cosa pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso a Gaza?
«Innanzitutto, non esiste la “comunità internazionale” di cui parlano americani ed europei. In gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il centenario dell’inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente che “un’eccessiva” reazione come quella all’omicidio di Francesco Ferdinando ha portato alla catastrofe “che nessuno voleva o si aspettava”».
Lei ha scritto in passato che la società moderna non ha imparato l’agghiacciante lezione dell’Olocausto. Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
«Le lezioni dell’Olocausto sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in considerazione. E ancor meno sono state apprese — per non parlare di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è: l’Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad altri umani in nome dei propri interessi. Un’altra lezione è: non mettere un freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali. Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente multicentrico, ricopre ancora un’importanza universale, applicabile a ogni antagonismo locale. Ma non c’è una soluzione a breve termine per lo stallo attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che dietro alle due categorie di “aggressori” e “vittime” della violenza c’è un’umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz, l’ultima ondata di violenza nell’area “ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica».

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