Continua la scelta di opinioni a senso unico tutte critiche verso il governo israeliano
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica Autore: Anshel Pfeffer - Assaf Gavron Titolo: «Un'altra generazione di giovani in guerra. La nostra colpa di padri - Noi minoranza crediamo nella pace, ma il nostro paese non ci ascolta»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi 02/08/2014 , a pagg. 2-3, l'articolo di Anshel Pfeffer dal titolo "Un'altra generazione di giovani in guerra. La nostra colpa di padri " e dalla REPUBBLICA a pag. 13 l'articolo di Assaf Gavron dal titolo "Noi minoranza crediamo nella pace, ma il nostro paese non ci ascolta " Rileviamo che la scelta dei commentatori israeliani da parte di CORRIERE e REPUBBLICA continua a essere a senso unico. Se non sono critici verso il governo, pur con alcune sfumature, non interessano ai nostri giornaloni. E dire che vi sono voci di ottimo livello che invece sostengono il governo e non sono per nulla assimilabili a quelle che la nostra vulgata italiana definirebbe "di destra". Raramente hanno spazio nel nostro paese.
Di seguito, gli articoli: CORRIERE della SERA - Anshel Pfeffer: "Un'altra generazione di giovani in guerra. La nostra colpa di padri "
Anshel Pfeffer
Martedì sono andato verso iI sud, in compagnia di un collega giornalista, con la scusa di un reportage, ma per entrambi non si trattava di un incarico come un altro: volevamo essere vicini ai nostri figli. Senza dire una parola, sapevamo di attraversare il peggior periodo della nostra vita, i giorni della preoccupazione e della vergogna. Se sei cresciuto in Israele, porti sempre davanti agli occhi l'immagine del primo soldato caduto. Qualcuno che conosci, un parente, un vecchio amico. Quando avevo 10 anni, quel destino toccò a un ragazzo della mia scuola ucciso in Libano. Commemorato nelle esequie, nelle foto appese ai muri della scuola, il primo che riuscivo a immaginare con chiarezza: abitava nella mia stessa strada, fantasticava nelle stesse aule e giocava a basketball come me. Man mano che diventi grande queste figure si moltiplicano, ed ecco che cominci a salire sul monte Herzl per partecipare ai funerali di ragazzi che conoscevi bene. Di colpo ti ritrovi nella seconda fase della vita di un israeliano, quando tocca a te. Per i successivi vent'anni, i tuoi amici, colleghi e conoscenti vengono spediti su tutti i fronti. ll fardello della guerra ricade sulle spalle della tua generazione, poi all'improvviso compi 40 anni e ti arriva la lettera di ringraziamento per gli anni di servizio. Cominci a pensare se non sia il caso di spostare lo zaino zeppo di uniformi, cinture, per far spazio nell'armadio, ma non lo fai. Potrebbe servire a qualcun altro. Nulla ti prepara a quel momento, quando la guerra successiva si profila all'orizzonte, e tu sei padre. In ebraico moderno la parola horim ha un significato speciale quando si riferisce ai genitori dei soldati, che si intensifica quando si è genitori di soldati feriti per salire in un crescendo emotivo e approdare a horim shakulim — i genitori affranti dei soldati caduti. E non parlo soltanto del terrore indicibile di quel colpo alla porta e la vista degli ufficiali sulla soglia di casa che ti presentano la chiamata alla leva, no, è la consapevolezza di una profonda e tremenda responsabilità: andare in guerra e uccidere in tuo nome. Per quanto ti senta invadere da sgomento, orgoglio o senso di protezione, sai bene che hai fallito nel tuo compito di genitore. Anche tu fai parte dell'ennesima generazione di israeliani che non è riuscita a consegnare a quella successiva un Paese in pace con i vicini. Quando mi sono arruolato, nutrivo ancora idee romantiche sul mio ruolo nel gigantesco rovesciamento della storia ebraica, che dopo duemila anni di morte e persecuzione era approdata alla generazione redenta, capace di combattere per la propria sopravvivenza anziché lasciarsi sterminare in qualche pogrom in Bielorussia. Toccò a mio nonno, scampato all'Olocausto e mai trasferitosi in Israele, a rovinare le mie fantasie quando, alla prima visita, fece un passo indietro vedendomi apparire in uniforme. Mi ci vollero anni per capire che la sua era stata una reazione «normale», che un nonno normale non si esalta alla vista del nipote con le armi in pugno. Anche a me ci sono voluti anni, come giornalista, come padre e riservista, per comprendere fino a che punto la vista di un soldato in assetto di guerra possa riempire la stragrande maggioranza di ebrei israeliani di fiducioso orgoglio, mentre in tanti altri scatena sentimenti opposti. Oggi, guardando i nostri figli, ci aggrappiamo a quell'orgoglio e cerchiamo di nascondere la paura, per mettere a tacere i sensi di colpa. Israele ha vinto questa guerra contro Hamas. L'ha vinta ancor prima che l'operazione «Margine protettivo» avesse inizio, perché per quanto Hamas inciti i suoi alla distruzione dello Stato di Israele, è chiaro che non sarà mai in grado di portarla a compimento. Anzi, sono state le prime due generazioni di israeliani a riportare la vittoria definitiva, nel 1967 e nel 1973, dimostrando che i nostri vicini non avrebbero mai potuto farci sloggiare. Non c'entra la politica, non si tratta di decidere se il miglior modo per tutelare la sicurezza di Israele sia quella di fare concessioni ai palestinesi, o di colpirli così duramente che non si azzarderanno mai più a sparare razzi o a scatenare una nuova Intifada. Si tratta di riconoscere un'amara sconfitta, abbiamo tradito i nostri figli. Possiamo gettare la colpa addosso ai palestinesi, agli arabi e a tutta la comunità internazionale finché vogliamo, resta il fatto che era nostra responsabilità evitare che andassero ad ammazzare e a farsi ammazzare. E questa colpa è solo nostra. (traduzione di Rita Baldassarre) Haaretz
LA REPUBBLICA - Assaf Gavron: "Noi minoranza crediamo nella pace, ma il nostro paese non ci ascolta "
Assaf Gavron
La settimana scorsa sono stato invitato dai residenti di Tekoa, un insediamento in Cisgiordania, a parlare del mio romanzo Hagiva ( La Collina, ndr ), la storia immaginaria di un insediamento ebraico no n diverso dal loro. Alcuni hanno espresso critiche su ciò che hanno visto come una rappresentazione stereotipata dei "coloni di destra" da parte di un "autore della sinistra di Tel Aviv", ma la maggior parte ha trovato il romanzo onesto. L'ospite mi ha chiesto la mia opinione sugli insediamenti. . Credo che siano un problema., ho detto. «Aspetta ancora qualche razzo su Tel Aviv., ha detto qualcuno tra il pubblico, e tutti saranno convinti. Il problema è proprio questo, ho risposto. «Nessuno si convince mai. Qualunque cosa accada, ognunocredeancora di più in ciò che già pensava. Voi dite: "Non possiamo fidarci dei palestinesi, vogliono ucciderci, non possiamo lasciare che si gestiscano da soli perché non fanno altro che accumularearmie preparare degli attacchi". E noi diciamo: "Siamo noi i responsabili, perché siamo la parte più forte, quella che occupa. Continuiamo a togliere ogni speranza ai palestinesi e non gli diamo altra scelta se non quella di usare la violenza. Dobbiamo raggiungere un accordo perché la guerra non è mai la soluzione". Non so che cosa sia più deprimente, se la situazione attuale con questo orribile spettacolo di morte e distruzione e di morti che si accumulano, o il fatto che non sembra esserci un modo per spezzare questo cerchio senza fine. Se osservo la mia società, vedo solo una ripetizione senza fine delle stesse opinioni, un autoconvincimento infinito senza che si intraveda una svolta. Ero un soldato a Gaza 25 anni fa, nella prima Intifada. Ci trovavamo davanti ad adolescenti arrabbiati che ci lanciavano sassi. Rispondevamo con gas lacrimogeni e sparando in aria proiettili di gomma. Ora quei giorni sembrano bei vecchi tempi innocenti. Le pietre sono state sostituite da pistole e da bombe suicide, e ora da razzi Per me è facile da spiegare: Israele non si è sforzata di raggiungere un accordo equo e ha trovato una resistenza sempre più intensa. La cosa ancor più deprimente della situazione attuale è la natura che stavolta ha assunto la discussione interna nella società israeliana. È la più intollerante e intransigente che abbia mai visto. Ho notato questa tendenza già nel 2008, ma diventa sempre più forte: sembra che ci sia una sola voce, orchestrata dal governo e dall' esercito, e questa voce riecheggia in tutti gli angoli del Paese. I tentativi di rappresentare una posizione diversa da quella del consenso generale sono ridicolizzati e trattati con sufficienza nei migliori dei casi, altre volte sono denigrati e attaccati. Chi non sostiene le nostre truppe è visto come un traditore. Forse ciò che rende tutto molto più aggressivo è la prevalenza di Facebook. Qui non ci sono più limiti: qualsiasi sentimento di sinistra che non sia allineato con il presunto consenso ( per esempio, chiedere un accordo diplomatico o esprimere compassione per le vittime civili a Gaza), viene accolto da una raffica di risposte razziste e piene di odio. Tutto cid sta avendo conseguenze. Conosco gente che ha paura di andare alle manifestazioni. I politici all'opposizione si allineano dietro al governo e raramente contraddicono le sue iniziative. La sinistra sta diventando più debole, più piccola e inefficace. Non mi sono ancora arreso, però, perché c'è ancora un altro gradino nell'escalation della depressione ed è qui che voi entrate in gioco. Perché quando ci rivolgiamo al mondo — noi, questa minoranza di sinistra che crede nei diritti umani, nel mutuo accordo, nella pace — non otteniamo appoggio. Siamo messi insieme alla maggioranza; facciamo tutti parte del male. Siamo boicottati. Stiamo cercando di presentare una voce sana, diversa, ma la nostra voce non è ascoltata. Vediamo che la simpatia è rivolta a una sola parte e abbiamo poca simpatia per coloro che sono ciechi per le sofferenze degli altri. Sono inorridito dal migliaio e oltre di morti palestinesie dai tanti israeliani che non sono disposti a riflettere su questo. Ma sono anche profondamente rattristato dalle decine di bambini israeliani che perdono la vita e da tutti quelli nel mondo che non riconoscono la tragedia che si vive anche dalla nostra parte. Siamo tra l'incudine e il martello. La settimana prossima partirò con la mia famiglia per andare a vivere e insegnare negli Stati Uniti, per un anno, o forse due. Non è una fuga, era in programma da molto tempo. Tuttavia, mia moglie ed io programmiamo spesso queste pause. Abbiamo bisogno di respirare aria fresca per un po' ogni tot anni, ma poi torniamo sempre, perché questa è casa nostra, la nostra lingua, la nostra gente. Spero di tornare dopo questo viaggio, in un posto dove sia più tollerabile vivere, con meno minacce da fuori e da dentro. Ma non ci conto. (Traduzione di Luis E. Moriones)
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