L' età del Califfato, il fiasco di Obama in Medio Oriente Analisi di Bat Ye'or, Wall Street Journal, Bernard Henry Lévy, Bret Stephens
Testata: Il Foglio Data: 31 luglio 2014 Pagina: 1 Autore: Massimo Matteuzzi - Wall Street Journal - Bernard Henry Lévy - Bret Stephens Titolo: «L’èra del califfo - Se Kerry e Obama danno a entrambe le parti un motivo per continuare a combattere - La 'generazione di Gaza' europea si preoccupa delle vittime arabe soltanto quando sono coinvolti gli ebrei - La Palestina vi rende stupidi»
Riprendiamo, dal FOGLIO di oggi, 31/07/2014, a pag. 1, l'intervista di Maurizio Matteuzzi a Bat Yeor, dal titolo "L'era del califfo", a pag. 1 dell'inserto, l'editoriale del WALL STREET JOURNAL dal titolo "Se Kerry e Obama danno a entrambe le parti un motivo per continuare a combattere", e, ripresi anch'essi dal JOURNAL, l'articolo di Bernard Henry Lévy dal titolo "La 'generazione di Gaza' europea si preoccupa delle vittime arabe soltanto quando sono coinvolti gli ebrei " e l'articolo di Bret stephens dal titolo "La Palestina vi rende stupidi. Come e perché a ogni guerra scatta il mistificatorio 'Effetto Palestina' ".
Di seguito, gli articoli:
Barack Obama
Il FOGLIO - Bat Ye'or: " L'era del califfo"
Bat Ye'Or
Roma. “E’ una catastrofe, una tragedia colossale sul piano umano, storico e della civilizzazione”. Bat Ye’or, in ebraico “Figlia del Nilo”, fuggita dall’Egitto nel 1955, è autrice di bestseller come “Eurabia” (Lindau, 2006) e “Verso il califfato universale” (2008). Con il Foglio commenta l’esodo dei cristiani da Mosul, città caduta in mano alle milizie del califfo al Baghdadi: “Questi fatti ci dimostrano che ormai viviamo nel tempo del Corano. Un tempo diverso dal nostro. Il tempo del Corano non cambia, rimane sempre arroccato sulla parola del Profeta, sui suoi gesti e comportamenti. Leggendo le dichiarazioni del nuovo Califfato, riconosco gli stessi discorsi fatti nel Settimo secolo durante le guerre contro gli infedeli. E’ la stessa mentalità, la stessa rigidità. Nulla è cambiato: ciò che vediamo oggi spiega gli eventi del passato”. A cosa si riferisca, Bat Ye’or lo spiega subito: “Parlo dei massacri per le conquiste, del terrore che faceva fuggire interi popoli, dei saccheggi, della legge della dhimmitudine e di tutti quei processi di islamizzazione che ho esaminato nel mio libro ‘Il declino della cristianità sotto l’Islam’ (Lindau, 2009)”. La nostra interlocutrice è stata la prima a porre il tema della dhimmitudine, condizione teologica, politica e giuridica legata inesorabilmente all’oppressione e alla persecuzione degli infedeli: “Sono stata attaccata in modo feroce per aver forgiato questa espressione, volta a spiegare la relazione fra musulmani e non musulmani. Ho mostrato che non vi era tutta quella tolleranza che andavano sbandierando i poteri politici europei, obbedienti all’Organizzazione della cooperazione islamica (Oci). Sono molti i motivi – aggiunge – che spiegano il senso di sottomissione delle comunità cristiane. C’è naturalmente il senso di paura, di vulnerabilità. C’è il trauma di tredici secoli di massacri e terrore. Ma non si deve dimenticare che queste comunità sono state abbandonate dai paesi europei nel corso del Ventesimo secolo. Paesi che non hanno protetto gli armeni, che all’Armenia indipendente hanno preferito la Turchia. E lo stesso vale per i greci massacrati dai turchi. I paesi europei non volevano proteggere i cristiani, volevano usarli. Vedevano in loro uno strumento per modernizzare e occidentalizzare la mentalità musulmana, la società, l’islam”. Si pensi solo a quanto accadde tra il 1950 e il 1980, quando “l’Europa voleva costruire con i cristiani del Levante un ponte verso i paesi musulmani e arabi, e lottava contro i nazionalismi dei cristiani dhimmi. L’Europa andava dicendo che che la buona integrazione dei cristiani nella società musulmana era la prova della correttezza della sua politica di fusione con il mondo arabo. Era nient’altro che il fondamento di Eurabia, dell’immigrazione massiccia. Nonché un argomento permanente della sua lotta contro Israele”. Vi era una disposizione precisa, spiega la saggista, data ai cristiani dei paesi musulmani da parte dei poteri europei, delle loro chiese, dei notabili: “Integrarsi nelle società musulmane, essere più arabi degli arabi, odiare Israele e allearsi con i palestinesi. Questa scelta rappresentava la loro unica garanzia di sopravvivenza nei paesi musulmani. Sapevano molto bene che i paesi cristiani non li avrebbero protetti, che sarebbero stati sacrificati sul banco degli interessi dei musulmani”. Eppure, di questo fenomeno, prima dell’esodo da Mosul, non se ne parlava. I motivi sono semplici, a giudizio di Bat Ye’or: “Tutta la politica mediterranea della Comunità europea, fin dal 1973, s’è fondata sulla tolleranza, l’amore per la pace e i princìpi umanitari dell’islam. La storia è stata reinterpretata e scritta per provare questa nuova dottrina. Tutti gli scrittori e gli storici che proponevano un’interpretazione diversa venivano attaccati. Nei miei libri mostravo che la scelta dell’Ue di unire la cultura alla politica sulla scia della suggestione di Javier Solana rappresentava un ritorno al fascismo”. L’Europa, nota, “ha rigettato il cristianesimo per avvicinarsi sempre di più all’islam, e in questo rigetto rientrano anche l’odio verso Israele e l’alleanza con i suoi nemici”. Le ragioni, però, sono anche altre, a cominciare dalla “distruzione dello stato nazionale, con le sue radici culturali, storiche e religiose; con le sue istituzioni democratiche”. E poi, il silenzio fa comodo: “Perché parlare dei cristiani? Loro rappresentano la prova del fallimento della politica europea. Cosa che si deve celare. Dove sono gli eserciti dell’Europa che aiutino i cristiani e proteggano gli europei dal terrorismo? I nostri governanti ci hanno trasformato in mercenari del jihad”. Sopra ogni altra cosa, però, osserva la nostra interlocutrice, “difendere i cristiani vittime del jihad significherebbe riconoscere che la lotta di Israele è giusta. Israele, popolo che l’Europa odia. Preferisce che muoiano i cristiani e l’Europa stessa piuttosto che vi sia un riavvicinamento a Israele. E più l’Europa respinge Israele, più non sarà in grado di combattare per la sopravvivenza, dal momento che Israele è la sua stessa anima e forza”.
Il FOGLIO - WALL STREET JOURNAL: "Se Kerry e Obama danno a entrambe le parti un motivo per continuare a combattere "
La domanda che in questi giorni emerge regolarmente parlando della politica estera statunitense è questa: a cosa diavolo stavano pensando gli americani? L’ultima perplessità in ordine di tempo è il fiasco del weekend, nel quale sia il presidente Obama sia John Kerry hanno fatto pressioni per un cessate il fuoco che molto probabilmente non farà altro che allargare la guerra fra Hamas e Israele. Mentre l’operazione di Gaza via terra da parte di Israele entra nella sua terza settimana, l’obiettivo del principale alleato dell’America in quella regione appare chiaro. Bisogna degradare il più possibile Hamas come forza politica e militare. Ciò significa distruggere i razzi che il gruppo terroristico ancora non ha lanciato contro Israele, nonché annientare la rete di tunnel usata per contrabbandare armi e infiltrarsi illegalmente in Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu deve essere ben consapevole delle vittime civili palestinesi, e deve riuscire a mantenere il sostegno locale e internazionale, ma una vittoria richiede che vengano raggiunti tali obiettivi strategici. L’ironia è che i più prossimi vicini arabi di Israele, nel privato, vorrebbero che ciò accadesse. La Giordania non vuole che alcuna parte dello stato palestinese sia gestita da Hamas, e lo stesso vale per i governi militari sauditi o egiziani. Anche la fazione palestinese di Fatah, che governa la Cisgiordania, vorrebbe che Hamas emergesse più debole da questo scontro. E la Casa Bianca ne è sicuramente consapevole. Eppure, nel weekend il segretario di stato Kerry si è mosso a tentoni in questo conflitto, promuovendo un cessate il fuoco ventilato dalla Turchia e dal Qatar e che era vicino alle clausole richieste da Hamas. Gli Usa non hanno rilasciato i dettagli, ma la stampa israeliana ha pubblicato ciò che conteneva in un sommario lungo circa una pagina. Il documento chiedeva a Israele di negoziare “con le fazioni palestinesi”, intendendo un colloquio diretto con Hamas, così come di mettere fine alla campagna militare israeliana, e allo stesso tempo dava a Hamas concessioni sull’attraversamento dei confini e i pagamenti dall’esterno. In breve, avrebbe messo fine alla guerra lasciando Hamas in una posizione che le avrebbe permesso di ricostruire la sua economia basata sul terrore. Obama non ha approvato il piano di Kerry in sé. Ma in una trascrizione di un suo colloquio telefonico con Netanyahu, la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione: “Basandosi sugli sforzi del segretario Kerry, il presidente Obama ha reso chiaro l’imperativo strategico di istituire un immediato e incondizionato cessate il fuoco che ponga ora fine alle ostilità” e che porti a un accordo basato sul cessate il fuoco del novembre 2012. Quello che aveva consentito a Hamas di riarmarsi. La reazione di Israele è stata di una contrarietà sfociata quasi nel disprezzo. Ari Shavit, un editorialista di centrosinistra che scrive per Haaretz, ha scritto che la decisione di Kerry “di andare mano nella mano con il Qatar e la Turchia e di formulare una cornice incredibilmente simile a quella fornita da Hamas, è stata catastrofica. Ha soffiato vento nelle vele del leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, ha permesso agli estremisti di Hamas di prevalere sui moderati di Hamas, e ha dato nuova vita all’indebolita alleanza regionale dei Fratelli musulmani”. Ha aggiunto che “l’Amministrazione Obama ha dimostrato ancora una volta di essere la migliore amica dei suoi nemici, e il peggior nemico dei suoi amici”. E dovreste ascoltare ciò che dicono i falchi in Israele. Ci dicono che Kerry sia rimasto scioccato da simili critiche pubbliche provenienti da un alleato, ma Israele è una società libera e gli Stati Uniti non riusciranno a imporle un ordine di silenzio. L’esito del piano Kerry-Obama è che Hamas sente di avere ancor meno ragioni per dare il suo assenso a un cessate il fuoco, perché presto o tardi gli americani costringeranno Israele a ritirarsi. E Israele ha tutte le regioni per continuare la sua offensiva in modo ancora più aggressivo, perché sa di non potersi fidare dell’Amministrazione Obama. La diplomazia statunitense è riuscita a raggiungere lo scopo opposto rispetto a quello che si suppone avesse inizialmente. Diciamo “si suppone” perché è difficile capire cosa questa Amministrazione stia cercando di ottenere oltre alla sua perenne richiesta di porre fine alla violenza. Dall’Iran alla Siria all’Iraq e ora a Gaza, questa Amministrazione sembra credere che il mero enunciare le sue buone intenzioni porti a buoni risultati. Nessuna sorpresa dunque che invece ottenga più guerra. La vera leva diplomatica si ottiene invece attraverso fiducia e credibilità. La fiducia viene dall’essere un partner affidabile, specialmente nei confronti dei propri alleati più vicini. Questa Amministrazione ha passato cinque anni a esprimere la sua sfiducia in Israele, pubblicamente e privatamente, e Israele l’ha ripagata in modo non sorprendente. La credibilità viene dal mantenere promesse e minacce, come quelle “linee rosse” in Siria o le affermazioni che questo o quel leader “devono andarsene”. Questa Amministrazione ha passato cinque anni a disegnare linee nella sabbia del medio oriente, che sono spazzate poi via dal successivo ciclo di notizie. Se il presidente e Kerry vogliono davvero riavvolgere la spirale della guerra, ecco un suggerimento: dimenticate le chiacchiere sul cessate il fuoco, dimenticate che entrambe le parti abbiano lo stesso dovere di interrompere le ostilità. Rilasciate una dichiarazione che sostenga il diritto di Israele di difendere se stesso, e fate capire che il modo di fermare le incursioni di Israele per Hamas è quello di smettere le azioni terroristiche contro i civili a Gaza e in Israele. Questo potrebbe essere anche l’inizio – ma solo l’inizio – del processo per ristabilire l’influenza statunitense in medio oriente. Wall Street Journal (editoriale)
IL FOGLIO - Bernard-Henry Lévy : " La 'generazione di Gaza' europea si preoccupa delle vittime arabe soltanto quando sono coinvolti gli ebrei "
Bernard Henry Lévy
Dov’erano i manifestanti che venerdì a Parigi urlavano slogan come “la Palestina vincerà” e “Israele assassino” alcuni giorni prima, quando si è diffusa la notizia che il fine settimana precedente la guerra civile in Siria aveva provocato la morte di 720 persone, che si aggiungono alle altre 150 mila vittime che non sono state onorate dalle dimostrazioni francesi? Perché i dimostranti non si sono riversati nelle strade quando, qualche giorno prima, la beninformata rete siriana per i diritti umani aveva rivelato che finora, quest’anno, l’esercito di Damasco – che avrebbe dovuto distruggere le proprie scorte di armi chimiche – ha effettuato almeno diciassette attacchi con il gas nella zona di Kafr Zita, Talmanas, Atshan e altrove? Queste persone, “indignate” per un giorno, sosterranno che non lo sapevano, che non avevano visto le immagini delle altre vittime, che solo oggi le fotografie hanno avuto il potere di indurle all’azione? Non è plausibile, perché loro hanno visto quello che stava accadendo in Siria. Come alcuni reporter hanno scoperto successivamente, quelle stesse immagini agghiaccianti, o una versione precedente delle stesse, sono state confiscate, manipolate e ritwittate da organizzatori delle dimostrazioni anti Israele sotto l’iniquo hashtag di #GazaUnderAttack. I dimostranti sosterranno che stavano manifestando contro il presidente francese François Hollande e la sua politica di sostegno unilaterale a Israele che non volevano fosse condotta “in loro nome”? Forse. Ma condurre una politica estera per ragioni interne – convertendo una grande causa in un piccolo strumento per pulirsi la coscienza a basso costo – non rispecchia una sincera preoccupazione per il destino delle vittime. O, ancor più palesemente, le medesime motivazioni non avrebbero dovuto indurre a scendere nelle stesse strade altre dieci o cento volte per protestare contro la decisione di quello stesso presidente, sempre presa in loro nome, di non intervenire in Siria? Sosterranno che è la sproporzione di forze di Israele a essere scioccante? Lo squilibrio tra un esercito onnipotente e civili inermi? Anche se l’argomentazione ha una parte di verità, comunque non regge, perché se fosse quello il motivo delle proteste – la preoccupazione precipua per i bambini palestinesi la cui morte è davvero un abominio – bisognerebbe allora chiedere agli operativi di Hamas di lasciare gli scantinati degli ospedali dove nascondono i loro centri di comando, di rimuovere i lanciarazzi che hanno installato all’ingresso delle scuole delle Nazioni Unite e di smettere di minacciare i genitori che vogliono evacuare le proprie abitazioni quando un volantino israeliano li informa che è imminente un blitz. Inoltre, se la preoccupazione per la sproporzione e lo squilibrio fosse la vera causa della rabbia dei manifestanti, non dovrebbero avere almeno una fuggevole considerazione per un’altra incongruità che, non lontano da Gaza, ora affligge i più miserabili dei miserabili, i più inermi di tutti, i cristiani di Mosul, quegli iracheni cui i “fratelli” di Hamas stanno imponendo il seguente ultimatum: abbracciare l’islam o pagare con la vita? La verità è che questi dimostranti – per la maggior parte giovani membri della sedicente “generazione di Gaza”, per i quali l’ultima tendenza di moda è indossare una kefiah “Made in Palestina” – considerano normale che gli arabi uccidano altri arabi. Rimangono altresì impassibili di fronte alla notizia, proclamata dalla stessa leadership di Hamas (Giornale di studi palestinesi, vol. 41, n° 4), che solo nel 2012 la costruzione dei famigerati tunnel di Gaza è costata la vita a 160 bambini palestinesi, che sono stati usati come schiavi e sono rimasti sepolti sotto le macerie. I più vecchi di questi dimostranti hanno anche perso l’occasione di mobilitarsi in favore dei 300 mila darfuriani massacrati in Sudan, dei 200 mila ceceni che Vladimir Putin – per usare le sue stesse eleganti parole – ha stanato “fin dentro il cesso” non tanto tempo fa, e dei bosniaci che sono stati assediati e bombardati, di fronte all’indifferenza generale, per tre anni. La verità è che per questi obiettori dalla coscienza selettiva l’indignazione scatta soltanto quando si ha l’occasione di condannare una Forza armata composta prevalentemente da ebrei. La politica dei due pesi e due misure, per quanto riprovevole, nel mese scorso si è diffusa in modo sempre più evidente in tutta Europa. Slogan spudoratamente antisemiti hanno inquinato molte dimostrazioni europee “in sostegno del popolo di Gaza”. Gli abitanti di Francoforte e Dortmund sono rimasti atterriti, a metà luglio, nel vedere gruppi neonazisti andare a braccetto con islamisti di sinistra scandendo l’agghiacciante slogan “Hamas, Hamas, ebrei al gas”. Il 19 luglio il centro di Londra è stato bloccato da migliaia di persone radunatesi di fronte all’ambasciata israeliana a Kensington per urlare il proprio odio nei confronti degli ebrei. Per non parlare di Amsterdam – la città di Spinoza, la capitale europea della tolleranza – dove in certi quartieri è diventato praticamente impossibile indossare pubblicamente una kippah senza correre il rischio di essere insultati o assaliti. Per uno che, come me, ha propugnato per quasi mezzo secolo la creazione di uno stato palestinese a fianco di uno stato di Israele pienamente riconosciuto, questa situazione è davvero avvilente. Non dubito che tra i dimostranti ci siano persone sincere, ma le esorterei a pensarci due volte prima di lasciarsi manipolare da coloro la cui motivazione non è la solidarietà ma l’odio, e il cui vero obiettivo non è la pace in Palestina ma la morte di Israele e – nella maggior parte dei casi, purtroppo – degli ebrei.
Il FOGLIO - Bret Stephens: "La Palestina vi rende stupidi. Come e perché a ogni guerra scatta il mistificatorio 'Effetto Palestina' "
Bret Stephens
Di tutte le cose stupide che sono state dette sulla guerra fra Israele e Hamas, la menzione del disonore va di certo ai commenti fatti nel weekend da Benjamin J. Rhodes, viceconsigliere della Sicurezza nazionale per le comunicazioni strategiche. Intervistato da Candy Crowley della Cnn, Rhodes ha sostenuto l’ormai linea standard di condotta dell’Amministrazione, cioè che Israele ha il diritto di difendersi ma che deve fare di più per evitare vittime fra i civili. Crowley lo ha interrotto dicendo che, secondo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, lo stato ebraico sta già facendo tutto quanto è in suo potere per evitare tali vittime. “Penso che si possa sempre fare qualcosa in più,” ha risposto Rhodes. “L’esercito americano lo sta facendo in Afghanistan”. Quanto è inappropriato un paragone del genere? La lista dei civili afghani uccisi accidentalmente dagli attacchi statunitensi o della Nato non è breve. Pochi dei combattimenti tenutisi in Afghanistan hanno avuto luogo nel tipo di ambiente densamente urbano caratteristico di Gaza, che rende il conflitto nella zona così difficile. L’ultima volta che gli Stati Uniti hanno combattuto una guerra simile a quella di Gaza – a Falluja nel 2004 – sono morti qualcosa come 800 civili, e almeno 9.000 case sono state distrutte. Questa non è una messa in stato d’accusa della condotta statunitense a Fallujah, ma il riconoscimento della lugubre realtà dei combattimenti in territorio cittadino. Oh, fra parentesi, le città e le cittadine americane non sono mai state colpite da razzi dal cielo, né attraversate da tunnel nella terra, mentre la campagna di Falluja era in corso. Forse Rhodes sa tutto questo, e semplicemente è stato colto in fallo nel ripetere quelle banalità che sono considerate di rigore, diplomaticamente parlando, quando si parla dei palestinesi. O forse è solo un’altra vittima di quello che io chiamo “Effetto Palestina”: il subitaneo e spesso totale collasso del ragionamento logico, dell’intelligenza raziocinante e dell’ordinario giudizio morale ogniqualvolta emerga il soggetto delle sofferenze palestinesi. Pensiamo all’ossessione dei media per il conteggio dei morti. Secondo una conta giornaliera nel New York Times, al 27 luglio la guerra in Gaza aveva tolto la vita a 1.023 palestinesi contro 46 israeliani. Come fa il Times a fare un conteggio così accurato delle morti palestinesi? Una nota a piè di pagina rivela: “Il conteggio dei morti palestinesi è fornito dal ministero della Salute palestinese e dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli Affari umanitari”. Ok. Quindi, chi è a capo del ministero della Salute a Gaza? Hamas. E per quanto riguarda le Nazioni Unite? Prendono i loro i dati da due ong agitprop, una delle quali, il Centro palestinese per i diritti umani, offre l’incredibilmente precisa statistica che, al 27 luglio, esattamente l’82 per cento delle morti a Gaza è rappresentato da vittime civili. Curiosamente, durante la guerra di Gaza del 2008-2009, il centro ha riportato un tasso di morti civili pari anche quella volta all’82 per cento. Quanto statistiche così minuziosamente esatte vengono fornite in circostanze così caotiche, allora tali statistiche sono probabilmente spazzatura. Quando un’organizzazione di news fa affidamento – senza chiarimento alcuno – a dati forniti da un organo burocratico di un’organizzazione terroristica, beh anche lì c’è qualcosa di terribilmente sbagliato. Eppure, facciamo per un attimo finta che i numeri forniti siano accurati. Questo significa forse che i palestinesi siano le vittime principali, e gli israeliani i principali persecutori, in questo conflitto? Seguendo questa logica assurda, potremmo rivedere tutte le equazioni morali della Seconda guerra mondiale, nella quale morirono oltre un milione di tedeschi per mano degli Alleati, in confronto a “solo” 67 mila civili britannici e 12 mila americani. La vera utilità della conta dei morti è che offre ai reporter e ai commentatori che la citano la possibilità di ascriverne l’implicita colpa a Israele, lasciando senza risposta le domande riguardanti la responsabilità ultima di tali morti. Domande come: perché Hamas nasconde razzi nelle scuole gestite dalle Nazioni Unite, come riconosciuto dall’organizzazione stessa? Cosa significa che Hamas abbia trasformato l’ospedale centrale di Gaza in un “quartier generale de facto,” come riportato dal Washington Post? E perché Hamas continua a respingere, o a violare, ogni cessate il fuoco concordato con Israele? Una persona ragionevole potrebbe concludere da ciò che Hamas, che ha iniziato la guerra, voglia che la stessa continui, e che si affida agli scrupoli morali di Israele di non distruggere siti civili che in realtà sono usati cinicamente per scopi militari. Eppure, ecco che interviene l’Effetto Palestina. Da questo ragionamento, si evince che Hamas ha iniziato la battaglia solo perché Israele ha rifiutato il suo permesso alla creazione di una coalizione palestinese che includesse Hamas, e perché Israele ha ulteriormente posto obiezioni all’aiutare a pagare i salari degli impiegati statali di Hamas a Gaza. Facciamo chiarezza su questa cosa. Israele è colpevole perché (a) non accetterà un governo palestinese che includa un’organizzazione terroristica che ha giurato di distruggere lo stato ebraico; (b) non aiuterà tale organizzazione con le sue risorse economiche; e (c) non faciliterà il blocco quasi totale – imposto congiuntamente con l’Egitto – su un territorio la cui attività economica principale sembra essere costruire fabbriche di razzi e riversare calcestruzzo importato in tunnel per scopi terroristici. Questa è sfacciata idiozia morale – o intolleranza lievemente velata. Scambia l’effetto per la causa, tratta il rispetto di sé come arroganza e autodifesa come aggressione, e fa richieste allo stato ebraico che sarebbero rifiutate sommariamente in qualsiasi altro luogo. In questa guerra, difendere la parte palestinese significa perorare la causa della barbarie. Significa cancellare, nel nome dell’umanitarismo, le distinzioni morali dalle quali emerge il concetto stesso di umanità. Come al solito, l’Amministrazione Obama sta diversificando le sue scommesse. E l’Effetto Palestina fa un’altra vittima
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