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Il Manifesto - Il Messaggero Rassegna Stampa
30.07.2014 Quelli che danno a Israele le colpe di Hamas
rassegna di critiche

Testata:Il Manifesto - Il Messaggero
Autore: Michele Giorgio - Luciana Castellina - Chiara Cruciati - Eric Salerno
Titolo: «Gaza, solo rovine e senza luce - Il silenzio dei pacifisti - Hamas: liberate i detenuti - Gaza, è il giorno più sanguinoso: oltre 1000 morti e 100mila sfollati»

Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 30/0772014, a pagg. 2-3 l'articolo di Michele Giorgio dal titolo "Gaza, solo rovine e senza luce", da pagg. 1-2-3 l'articolo di Luciana Castellina dal titolo " Il silenzio dei pacifisti" , da pag. 3 l'articolo di Chiara Cruciati dal titolo "Hamas: liberate i detenuti".
Dal MESSAGGERO, a pag 8, l'articolo di Eric Salerno dal titolo " Gaza, è il giorno più sanguinoso: oltre 1000 morti e 100mila sfollati"

Sul MANIFESTO Michele Giorgio attribusice a Israele anche ciò che ormai certamente è da attribuirsi ad Hamas, ovvero il razzo caduto per errore nei pressi dell'ospedale Shifa, Luciana Catellina lamenta che in Italia non ci siano abbastanza manifestazioni di odio antisraeliano. Per lei sarebbe necessario fare come a Parigi e Londra, Chiara Cruciati
sostiene che Hamas voglia la liberazione di "prigionieri politici", che in realtà sono terroristi con le mani sporche di sangue.
Eric Salerno sostiene che Israele sia alla ricerca di una "schiacciante vittoria diplomatica", non semplicemente della cessazione della continua aggressione di Hamas. E' invece quest'ultima, per Salerno, a resistere.
Segnaliamo anche sul MANIFESTO, a pag. 16, lappello di un gruppo di medici e ricercatori pubblicato originariamente sulla rivista "The Lancet", dal titolo "Salviamo il popolo di Gaza". Si tratta di un testo politico, non scientifico, che contiene accuse non provate a Israele e giustificazioni del terrorismo di Hamas.

  



Di seguito, gli articoli:

Il MANIFESTO - Michele Giorgio: "Gaza, solo rovine e senza luce "



Michele Giorgio

GAZA Quando i vigili del fuoco sono arrivati in zona, si sono fermati per un momento a  osservare da lontano quell'enorme rogo. Le fiamme e il denso fumo nero sprigionati dai serbatoi del gasolio erano troppo per loro. Per tutto il giorno hanno provato a spegnere l'incendio. Niente da fare. la centrale elettrica di Gaza è perduta e con essa il 30% di energia per la popolazione civile. Per ripararla occorrerà un anno. Quando l'altra sera, nel pieno del bombardamento più duro mai subito dalla Striscia di Gaza dall'inizio di «Margine Protettivo», i jet israeliani hanno centrato a cannonate  le turbine della power station, diversi centri abitati sono piombati nel buio totale. Per centinaia di migliaia ad illuminare l'oscurità sono stati solo i lampi delle esplosioni. E sarà così ancora nelle notti a venire perche in quelle zone solo chi possiede i generatori autonomi avrà la luce. Si rischia anche per il mancato funzionamento delle pompe idrauliche, dei depuratori. Lo stop della centrale aggrava i problemi per le strutture sanitarie che da oggi in poi, per continuare ad operare, dovranno garantirsi scorte adeguate di carburante per i generatori di energia. Al momento gli abitanti della Striscia, circa 1,8 milioni di persone, hanno a disposizione in media solo due ore di corrente elettrica al giorno. Quelle della notte sono le ore più difficili, per i palestinesi prima di tutto e anche per gli stranieri che lavorano a Gaza sotto attacco. L'altra notte l'Aviazione, la Marina e l'artiglieria hanno martellato senza sosta questo fazzoletto di terra palestinese, non risparmiando alcuna zona. Ad un certo punto i colpi di cannone e i missili dal mare cadevano ogni trenta secondi mentre le navi da guerra sparavano razzi illuminanti su tutta la fascia costiera. Israele ha colpito le case di esponenti di Hamas e Jihad, tra i quali l'ex premier Ismail Haniyeh, di autorità locali, come il sindaco di al Burej Anis Abu Shammaleh, la moschea Abbas, il ministero delle finanze, la sede di radio Al Aqsa (Harmas), i magazzini dei pescatori al porticciolo di Gaza city e cisterne di acqua Le bombe hanno anche centrato i capannoni di diverse fabbriche: nei giorni scorsi era toccato a quelli intorno di Beit Lahiya, Beit Hanun e Jabaliya, l'altra notte a quelli meridionali della zona di Khan Yunis. Il danno economico è enorme. «In un colpo solo abbiamo perduto 3-4 milioni di dollari., ci spiegava ieri Mahmud Abu Ghalion, un giovane imprenditore, proprietario con il padre e i fratelli di una fabbrica di piastrelle a Beit Hanun - i carri armati israeliani hanno abbattuto il capannone e distrutto i nostri autocarri e le ruspe. Il danno non è solo per la mia famiglia ma anche per i nostri 50 operai che hanno perduto il lavoro. Sappiamo che altre fabbriche sono state cancellate dall'offensiva israeliana.. Più di tutto l'altra notte sono state spaziate via altre decine di case nella fascia nord-orientale, di Shujayea e ad est di Khan Yunis. E la nuova «zona cuscinetto» o «no-go zone» larga fino a 3 km, che Israele sta creando a suon di cannonate. Le radio di Gaza, che solo grazie al coraggio dei loro redattori riescono ancora ad operare, lunedì hanno trasmesso in diretta gli appelli di tanti civili rimasti intrappolati a Maghazi, Abasan, Jabaliya e altri centri. «Siamo al buio, intorno a noi ci sono i carri armati, vi prego fate qualcosa, mandate un'automobile, un'ambulanza, salvateci«, urlava singhiozzando Mohammad di al Burej, aggiungendo di aver visto la palazzina del sindaco Abu Shammaleh ridotta in macerie dall'attacco aereo e diversi cadaveri. E telefonate arrivavano anche da Izbet Abdel Rabbo e Zaytun, rispettivamente a Beit Hanun e Gaza city, le ultime aree ad essere messe sotto pressione dai reparti corazzati israeliani. Da quei posti la gente è scappata subito. Dopo aver visto quanto è accaduto a Shujayea, i civili palestinesi ora si allontanano appena scorgono i mezzi blindati. La massa degli sfollati perciò aumenta di ora in ora, sotto l'onda della fuga dalle nuove zone minacciate: sono almeno 200mila. Quella tra lunedl e martedì è stata una notte da incubo costata la vita, secondo un bilancio ufficioso, ad un centinaio di palestinesi, e che non ha risparmiato niente e nessuno. Neppure i 29 bambini palestinesi disabili ospiti della casa delle Suore di madre Teresa a Zaytun e che sono scampati per miracolo ai bombardamenti aerei perchè in quel momento si trovavano all'interno della vicina chiesa cattolica della Sacra Famiglia. Per loro aveva lanciato un appello sui social padre Mario Cornioli, rilanciato da centinaia di persone. Il clero locale, cattolico e ortodosso, è impegnato a portare aiuto  agli sfollati e a denunciare l'offensiva israeliana."E' come la Seconda guerra mondiale, la distruzione totale. Colpiscono tutti: civili, donne, bambini e ospedali", ha detto padre Raed Abusahlia, direttore della Caritas in Terra Santa in una intervista Domenica scorsa. La casa della famiglia cristiana degli Ayyads è stata distrutta in un bombardamento e la madre sessantenne è morta sul colpo. Un suo figlio, trentenne, è in gravissime condizioni: gli sono state amputate le gambe, ha ustioni sul 70% del corpo e danni alla testa. Protesta anche Medici Senza Frontiere per l'attacco di due giorni fa contro l'ospedale Shifa dove lavora un'équipe chirurgica dell'organizzazione umanitaria. Nello staff di Msf a Gaza c'è anche un chirurgo italiano, Cosimo Le Quaglie, al quale abbiano chiesto informazioni sul tipo di ferite evidenziano i colpiti nei bombardamenti e se, come si dice tra i palestinesi, gli israeliani hanno fatto uso di armi non ancora note. «La maggior parte dei feriti sono giovani, spesso bambini, arrivano allo Shifa con traumi del torace - ci spiega Le Quaglie - non sono uno specialista di armi ma mi è stato spiegato dai colleghi che esistono granate che scoppiano e liberano una gran quantità di schegge che possono conficcarsi nelle articolazioni, nell'intestino, nei vasi con conseguenze molto gravi». Anche ieri si sono diffuse voci di accordi di cessate il fuoco imminenti che poi sono state smentite dalle parti coinvolte. E' certo però che al Cairo andrà una delegazione dell'Olp con esponenti di Hamas, tra i quali Musa Abu Marzouk, numero due del movimento islamico. Gli egiziani si sarebbero detti disposti ad apportare qualche "cambiamento" (minimo) alla proposta di cessate il fuoco che hanno presentato due settimane e che piace a Israele ma è stata respinta da Hamas. Un accordo non c'è ancora. Tuttavia si sono o sarebbero allargati i margini di manovra politica e si parla di un possibile compromesso già nelle prossime ore. Sono voci. La sola cosa concreta ieri sera era la paura dei civili palestinesi che si preparavano a vivere una nuova notte di bombardamenti intensi. I morti palestinesi sono ormai circa 1200 e anche le ultime ore sono state segnate da nuove stragi. A Jabaliya, dove 13 persone sono state uccise da due cannonate israeliane. Non cessano, ma sono diminuiti i lanci di razzi da Gaza. Un commando di Hamas, uscito da una galleria sotterranea, è stato bloccato subito da una pattuglia israeliana. Uccisi i cinque membri.

Il MANIFESTO - Luciana Castellina:  "Il silenzio dei pacifisti "


Luciana Castellina

Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perche provo troppo dolore a dover per l'ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, cosl vilmente attaccata - poveretta - dai terroristi. (I palestinesi non sono mai "militari" come gli israeliani, loro sono sempre e comunque terroristi, gli altri mai). Ieri ho sentito a radio Tre, che ricordavo meglio delle altre emittenti, una trasmissione cui partecipavano commentatori davvero indecenti, un giornalista (Meucci o Meotti, non ricordo) che conteggiava le vittime palestinesi che mascalzonata le menzogne degli antistraeliani, tutti dimentichi dell'Olocausto - protestava. Perchè non è vero che i civili morti ammazzati siano due terzi, tutt'al più un terzo. E poi il «Foglio» che promuove una manifestazione di solidarietà con le vere vittime: gli israeliani, per l'appunto. Si può non essere d'accordo con la linea politica di Hamas - e io lo sono - ma chi la critica dovrebbe poi spiegare perché allora né Netanyahu, né alcuno dei suoi predecessori, si sia accordato con l'Olp ( e anzi abbia sempre insidiato ogni tentativo di intesa fra llamas e Abu Mazen, per mandarla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo profughi della Palestina, dopo quasi settant'anni di soprusi, di mortificazioni, di violazione di diritti umani e delle decisioni dell'Onu, dopo decine di accordi regolarmente infranti dall'avanzare dei coloni, a fronte della pretesa di rendere la Palestina tutt'al più un bantustan a macchia di leopardo dove milioni di coloro che vi sono nati non possono tornare, i tanti cui sono state rubate le case dove avevano per secoli vissuto le loro famiglie, dopo tutto questo: che cosa penserei e farei? lo temo che avrei finito per diventare terrorista. Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perche è cose insopportabile ormai la condizione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l'ingiustizia storica di cui sono vittime; cosi filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l'oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso. Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l'altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri. Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobilitare centinaia di migliaia di persone? E forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Perché noi - il più forte movimento pacifista d'Europa - non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l'idea che i patti si fanno con l'avversario e non con l'alleato perché l'obiettivo non è prevalere ma intendersi? o perché - piuttosto - non c'è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell'autorevolezza necessaria ad una mobilitazione adeguata? O perché c'è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza? Un silenzio agghiacciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui. a differenza dei vecchi politici, è umano e naturale? Privo di emozioni, di capacità di indignazione, almeno quel tanto per farsi sfuggire una frase, un moto di commozione per quei bambini di Gaza massacrati, nei suoi tanti accattivanti virtuali colloqui con il pubblico? E perché non prova niente, o perché pensa che le sorti dell'Italia e del mondo dipendano dal fatto che la muta Mogherini assurga al posto di ministro degli esteri dell'Unione Europea? E se sì, per far che? Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c'è più niente da fare. lo non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall'estero, sento dire: «O dio mio l'Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c'è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell'iniziativa locale, nell'associazionismo, nel volontariato. Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell'umanita, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia generazione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla bellissima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall'Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un'iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfruttamento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall'est, l'appoggio umano sociale e politico necessario. Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio. E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c'è capacità di incidere, di contare? Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza delta politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell'impotenza, per non abituarsi alla rassegnazione, per aiutarci l'un l'altro «a cercare ancora».

Il MANIFESTO - Chiara Cruciati: " Gaza, è il giorno più sanguinoso: oltre 1000 morti e 100mila sfollati"

GERUSALEMME Lo sciopero della fame, durato 63 giorni e lanciato ad aprile da 200 prigionieri politici palestinesi, si è concluso prima del mese sacro di Ramadan, il 24 giugno. Gaza non era ancora sotto le bombe, ma la campagna militare contro la Cisgiordania ha tolto visibilità alla battaglia dei detenuti. Eppure, la questione dei prigionieri politici resta centrale per il movimento di liberazione della Palestina, nonostante non occupi mai i tavoli negoziali tra Tel Aviv e Ramallah. A rimetterci l'accento è llamas che - tra i dieci punti di un eventuale accordo di cessate il fuoco con Israele - chiede la liberazione dei 56 ex detenuti scarcerati con l'accordo Shalit dell'autunno 2011 e arrestati di nuovo durante le operazioni di ricerca dei tre coloni scomparsi vicino Hebron. «Un'operazione durissima quella compiuta in Cisgiordania dal 12 al 30 giugno - spiega al manifesto Murad ladallah, avvocato e ricercatore di Addameer, organizzazione che tutela i prigionieri politici palestinesi - Con l'accordo Shalit furono liberati 1.027 detenuti. Moltissimi sono stati nuovamente arrestati nei tre anni successivi, 56 quelli catturati nel mese di giugno. In quelle tre settimane sono stati spiccati 77 ordini di detenzione amministrativa, una misura cautelare che viola il diritto internazionale e prevede l'arresto senza accuse formali né processi». Degli attuali 5271 prigionieri palestinesi dietro le sbarre di un carcere israeliano, 377 arrivano da Gaza. Costretti a seguire la sanguinosa offensiva militare dalle loro celle, molti di loro hanno ricevuto la più dolorosa delle notizie dagli schermi di una tv o dalla voce della radio: la perdita di un familiare, in alcuni casi dell'intera famiglia, sotto le bombe sganciate da Israele. Salah 1lamas, Rami Zweidi, Ahmad al-Sufi e tanti altri hanno pianto da soli, impotenti, lontano dalle loro case ridotte in macerie. Gli avvocati che hanno avuto il permesso di far loro visita nella prigione di Nafha hanno raccontato di uomini in stato di choc, altri che tentavano di riconoscere un parente in tv, mentre le telecamere riprendevano rapidamente i corpi portati via dalle ambulanze. Ai 377 gazawi prigionieri, nei giorni scorsi se ne sono aggiunti 180, letteralmente rapiti dalle forze militari israeliane penetrate dentro Gaza durante l'offensiva via terra a Rafah e Khan Younis, al confine sud. Secondo Israele si tratta di miliziani di Ha-mas e Jihad Islamica. Diversa l'opiMane palestinese: «L'esercito israeliano ha arrestato circa 180 persone - riprende Murad - Alcuni di loro sono stati catturati mentre erano dentro le ambulanze, feriti. Sono civili, non miliziani, che Israele vuole utilinare per ottenere informazioni sulle attività della resistenza o la presenza di tunnel, una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Sembra che alcuni siano stati rilasciati, ma non riusciamo ad avere informazioni certe o ad entrare in contatto con loro a causa della situazione a Gaza. Anche le associazioni per i diritti umani della Striscia hanno difficoltà a contattarli o anche solo a sapere i nomi di tutti quelli ancora prigionieri». La lotta che viene combattuta dietro le sbarre è da decenni una delle colonne del movimento di liberazione nazionale, seppur spesso messa in un angolo dall'attuale leadership palestinese, vuoi per non irritare la controparte israeliana durante i negoziati, vuoi perché in carcere sono rinchiuse figure politiche di grande carisma - Marwan Barghouti e Ahmad Sa'adat su tutti - che potrebbero mettere a rischio la posizione del presidente Abbas. Hamas, puntando ancora sui prigionieri politici, si garantisce una volta di più il rispetto della popolazione occupata «La società civile palestinese, di cui Addameer è parte, sostiene la resistenza palestinese e la richiesta di liberazione dei prigionieri. Secondo il diritto internazionale, questi prigionieri vanno protetti in quanto detenuti politici. Ogni accordo possibile di tregua deve prevedere il rilascio di tutti, in particolare dei 56 liberati con l'accordo Shalit e poi catturati di nuovo». Quell'accordo, che portò alla liberazione del soldato Gilad Shalit dopo 5 anni in mano ad Hamas in cambio di oltre mille palestinesi, è stato violato da Israele. Un anno dopo Tel Aviv ha violato l'accordo di cessate d fuoco che metteva fine all'operazione Colonna di Difesa. Se llamas dovesse ottenere il rilascio dei 56, c'è già chi scommette su quanto impiegherà l'esercito per riportarli dietro le sbarre, insieme ad una consistente fetta delle leadership del movimento di resistenza

Il MESSAGGERO - Eric Salerno:  " Gaza, è il giorno più sanguinoso: oltre 1000 morti e 100mila sfollati"


Eric Salerno


 LA GUERRA Qualcuno, speranzoso, sentendo il boato e osservando la nuvola nera, soffocante, che si alzava ieri mattina dalla centrale elettrica di Gaza, colpita in pieno dalle bombe israeliane, l'ha paragonato al gran botto finale di un'esibizione di fuochi d'artificio. Non è stato così. Hamas non si arrende e Israele, alla ricerca di una vittoria diplomatica schiacciante, continua a martellare la Striscia mentre le sue truppe cercano tunnel, la diplomazia rincorre un cessate il fuoco sempre più sfuggente, la gente muore e la crisi umanitaria raggiunge proporzioni non più gestibili. Un quadro, a oltre tre settimane dall'inizio del conflitto, dovuto anche ai contrasti nel governo israeliano e a quelli mai cosi palesi, tra Israele e gli Stati Uniti. Una notte infernale quella vissuta ieri da Gaza con «almeno 100 morti» secondo le fonti palestinesi. PROSEGUIRE 0 FERMARSI «La missione è quasi completa. Non c'è alcun bisogno di rioccupare la striscia di Gaza». Nitzan Nuriel è un generale della riserva. E' stato intervistato da una televisione israeliana per confermare la dichiarazione di un ufficiale di Tel Aviv per il quale «quasi tutti i tunnel sono stati distrutti o individuati» e ora «sta ai politici» decidere se mettere fine alle operazioni militari. Netanyahu fa sapere che è in difficoltà di fronte alla maggioranza dei suoi ministri. Naftali Bennett, responsabile dell'economia e leader di Focolare ebraico, partito vicino ai coloni, insiste per «una vittoria decisiva» capace di prevenire «la prossima guerra». Nel suo mirino sono i capi di Hamas e della Jihad contro i quali, finora, Israele ha fatto poco proprio (la casa di uno dei leader in esilio è stata colpita ieri) perché l'Intelligence ritiene che nell'eventuale vuoto creato dalla scomparsa del movimento islamico si potrebbero insinuare forze islamiche più estremiste. LA PROPOSTA DI TREGUA Una riunione del gabinetto di sicurezza prevista per ieri a Tel Aviv è stata rinviata a oggi. Sull'agenda la proposta di tregua che si sta negoziando al Cairo e che sembrava aver raggiunto un compromesso accettabile a Israele. A complicare le cose per Netanyahu, una dichiarazione del segretario di Stato americano per il quale era stato il premier, nei giorni scorsi, a chiedere al presidente Obama di trovargli una via d'uscita. Immediata la smentita. «E' stata Washington a spingere per la tregua. Andremo avanti il necessario per raggiungere i nostri obiettivi». L'ala militare di Hamas vuole andare avanti. Mohamed Deif, uno dei capi delle milizie ha detto che «non ci sarà un cessate il fuoco se non sarà tolto il blocco alla Striscia di Gaza». Contabili, propagandisti e operatori umanitari continuano a fornire cifre. Quasi 1200 morti palestinesi (compresi o meno centinaia di militanti, non è chiaro), migliaia di feriti, duecentomila profughi dalle case alle quali molti non potranno più tornare perché distrutte; più di cinquanta soldati israeliani uccisi in combattimento, tre civili morti, milioni di dollari di danni. Cris Gunness, responsabile dell'Unwra, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati, non nasconde le sue critiche per il comportamento di Hamas che, più di una volta, ha usato scuole abbandonate come depositi di armi ma la sua preoccupazione sono i profughi. «Sono duecentomila ai quali potrebbero aggiungersi, nelle prossime ore, altri duecentomila». Gli abitanti di interi quartieri e villaggi sono stati "invitati" dall'esercito israeliano ad abbandonare le loro case mentre i soldati avanzavano e l'artiglieria e il fuoco dei carri armati faceva loro strada. «Non sappiamo più dove ospitarli e ne stanno arrivando altri duecentomila». Mancano medicinali, cibo, coperte per quelli costretti a dormire per strada. Gunness intervistato da una televisione di Tel Aviv è stato perentorio: «E' venuto il momento per Israele di prendersi cura di loro come vuole la legge internazionale». Mentre sembra delinearsi una strategia concordata per uscire da questo ennesimo scontro militare, manca un tracciato per avviare un negoziato di pace. Non verrà dai due popoli, sempre più arrabbiati e in preda a un odio reciproco. E' sempre più evidente che l'unità del popolo palestinese (voluto dal suo presidente Abbas e osteggiato da Netanyahu) e la fine della separazione tra Gaza e la Cisgiordania sono indispensabili. L'argomento è stato affrontato dall'uomo considerato il possibile Mandela dei palestinesi. Marwan Barghouti dal 2002 sta scontando cinque ergastoli (complicità in azioni terroristiche) in Israele. In una lettera diffusa dai suoi legali ha detto che da Ramallah in Cisgiordania, «la sede del governo di unità nazionale e la leadership dell'Olp, compreso il presidente, devono spostarsi nella Striscia di Gaza». Barghouti, esponente del Comitato centrale di Fatah, ha invitato la popolazione a «sostenere, rafforzare e proteggere» il governo di riconciliazione tra Fatah e Hamas, al fine di «dare nuova vita al sistema politico palestinese, liberandolo dalle paralisi e dai fallimenti».

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