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La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
10.07.2014 Così Israele risponde all'aggressione di Hamas
Cronache di Maurizio Molinari, Paolo Mastrolilli, Davide Frattini, Giampaolo Cadalanu

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Paolo Mastrolillli - Davide Frattini - Giampaolo Cadalanu
Titolo: «'Una telefonata, poi l'inferno' - Netanyahu: pronti anuove operazioni. Abu Mazen: genocidio - 'Nessun cessate il fuoco'- Washington teme l'escalation. - La Cupola di ferro - Addio armi fai da te»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/07/2014, a pagg. 2-3, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " 'Una telefonata, poi l'inferno'. Così Israele decapita Hamas", a pag. 3 l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Netanyahu: pronti a nuove operazioni. Abu Mazen: genocidio", a pag. 2 l'intervista di Maurizio Molinari al portavoce di Hamas  Mushir al-Masri, dal titolo " 'Nessun cessate il fuoco. Colpiremo tutti gli obbiettivi' ",  a pag 3 l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Washington teme l'escalation. 'Si rischia il caos nella regione." Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, riprendiamo l'articolo di Davide Frattini dal titolo "La Cupola di ferro (cui nessuno credeva) che intercetta il 90 per cento dei razzi". Da REPUBBLICA, a pag 3,  riprendiamo l'articolo di Giampaolo Cadalanu dal titolo "Addio armi fai da te, il nuovo arsenale viene da Iran e Libia"  

Riportiamo anche il video della condanna da parte degli Stati Uniti del lancio di razzi contro Israele, visibile al seguente link:

http://link.brightcove.com/services/player/bcpid1852112022001?bckey=AQ~~,AAABk9JMLWE~,0pl3uFLFPXsNLzaJagAtptvvs-PtgYlp&bclid=0&bctid=3665270939001


Bombardamenti israeliani contro Hamas a Gaza

Di seguito, gli articoli:

LA STAMPA - Maurizio Molinari: " 'Una telefonata, poi l'inferno'. Così Israele decapita Hamas "


Maurizio Molinari


Sono passate da poco le 9 del mattino quando una bomba da mezza tonnellata demolisce a Nord di Gaza City la casa di un comandante di Hamas. La terra trema forte.
Al suo posto resta una voragine di terra, decine di persone si avvicinano ai bordi, arriva l’ambulanza della Mezzaluna rossa qatariota e un secondo boato, poco distante, scuote l’aria. Questa volta l’esplosione è più contenuta. Un sibilo dal cielo, botto secco, poco fumo. L’obiettivo è Abdullah Dyfallah, colonnello della Jihad islamica. Sono i suoni che arrivano dal cielo a descrivere «Protective Edge», l’operazione militare di Israele contro Hamas.
Per comprendere il linguaggio della guerra aerea seguiamo le ambulanze che cercano ovunque morti e feriti. Quando l’esplosione scuote il terreno viene da un F-16 e l’obiettivo è un tunnel, un bunker, una rampa di lanciarazzi, un campo di addestramento, un deposito di armi o, come sta avvenendo sempre più spesso nelle ultime 12 ore, la casa di un comandante di Hamas. Edifici privati e strutture militari vengono polverizzate dalle esplosioni. Non resta nulla. La maggioranza degli oltre 560 raid compiuti - per un totale di 400 tonnellate di bombe - sono di questo tipo.
Per i residenti di Gaza costituiscono l’incubo più grande. Non si sente nulla, poi all’improvviso un terremoto di pochi secondi. Avviene verso le 10,30 sulla Nusairat Road, che unisce il Nord e il Sud della Striscia. Prima i jet colpiscono un terreno agricolo adoperato per lanciare razzi, poi una palazzina vicina. In entrambi i casi quando le nuvole nere si sollevano, non c’è più nulla. Come nel caso dell’abitazione di Rael al-Attar, il comandate che rapì il soldato Gilad Shalit. Le ambulanze accorrono ma spesso inutilmente. I miliziani di Hamas vivono da giorni sottoterra, in un cunicolo di tunnel e bunker che si estende per km e protegge i leader.
La roccaforte di Hamas è nel sottosuolo. In superficie sono rimasti i civili e qualche contingente di poliziotti. Più impegno per barellieri, dottori e infermieri in divisa arancione viene dalle bombe che sibilano: sono piccole e mirano a individui. È così che viene eliminato Dyfallah come il giorno prima era avvenuto per Mohamed Shaaban, capo dei commandos della Marina. I droni sono ovunque. Il ronzio dei motori accompagna ogni istante della giornata. Da Khan Yunis a Jabalya, da Gaza a Rafiah non c’è angolo della Striscia dove il rumore costante del drone non arrivi. È il suono della guerra. E quando diventa più vicino, anticipa la bomba che a volte uccide un miliziano ma altre investe i civili.
Taisir Aiash, 48 anni, ha visto il figlio Mohammed, 18 anni, bersagliato dalle schegge sprigionatesi dai missili lanciati contro due obiettivi che descrive così: «Il padre aveva 60 anni, il figlio 31, per spazzarli via hanno colpito quattro volte in pochi minuti, mio figlio era lì per caso ed ora è in fin di vita». A Khan Yunis ci sono le rovine della palazzina dove martedì sono stati uccisi 7 civili ed altri 25 sono rimasti feriti. Davanti alle pareti sventrate della sua casa Ahmad Kwara, 57 anni, racconta quanto avvenuto: «Gli israeliani hanno telefonato al cellulare di mio genero, gli hanno detto che entro due minuti avrebbero colpito, ci siamo precipitati fuori ma i vicini sono accorsi, si sono messi sul tetto convinti che gli aerei non avrebbero colpito, facendo l’errore più grande ed erano molti, poteva essere una carneficina».
In fondo alla strada sterrata le famiglie delle vittime ultimano la «tenda del lutto» per ricevere le visite di condoglianze. Sono episodi che si ripetono in più luoghi perché i morti si moltiplicano: l’ospedale di Gaza parla di 52 vittime civili (450 i feriti) a cui bisogna aggiungere il bilancio di Hamas, che tace sulle perdite avute. Passate le 12 i portavoce delle altre organizzazioni palestinesi si ritrovano nell’ospedale, considerato un luogo sicuro, ed è mentre parlano con le tv che sul cielo sfreccia una raffica di razzi. «Vanno verso Tel Aviv» grida d’istinto la gente in strada. I poliziotti di Hamas sollevano i kalashnikov verso l’alto: «Andate ad uccidere gli ebrei».
I razzi vengono posizionati in luoghi sempre diversi, protetti, e sono collegati a timer che li fanno partire senza esporre i miliziani al rischio di essere colpiti. Hanno code di fuoco e lasciano nel cielo scie bianche. Piovono a centinaia sulle città israeliane - 180 solo nella giornata di ieri - protette dal sistema anti-missile Iron Dome che finora ha intercettato il 90 per cento di quelli più pericolosi. Ma la sorpresa di Hamas è nella capacità di colpire a lunga distanza: fino a Cesarea e alla periferia di Haifa, a 120 km dalla Striscia. L’obiettivo è riuscire in qualcosa che neanche gli Hezbollah hanno saputo finora fare: portare la morte a Tel Aviv o colpire la centrale nucleare di Dimona, presa di mira già ieri.
In una Gaza deserta a causa di guerra e Ramadan la soglia del pomeriggio indica l’intensificazione del conflitto su entrambi i fronti, in un crescendo che raggiunge il picco nelle ore notturne. È il momento in cui la Marina israeliana prende il comando delle operazioni. I colpi si susseguono a ritmi rapidi e chi abita a Gaza riconosce che vengono dal mare perché a distinguerli è una doppia esplosione: il colpo di partenza in lontananza e, attimi dopo, il boato all’arrivo.
È la prima volta che Israele ricorre in maniera massiccia alla Marina - ha eseguito la metà dei raid - e ciò rientra nella strategia di «graduale intensificazione» ordinata dal premier Benjamin Netanyahu al capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Un altro tassello sono le bombe anti-bunker, mirano ai tunnel lungo il confine per scongiurare infiltrazioni. La zona di frontiera ad alto rischio: entrambi colpiscono a ripetizione. E poi, a ridosso della Striscia, ci sono i blindati e soldati che continuano ad affluire perché, come assicura il presidente Shimon Peres, «l’attacco di terra ci sarà se i razzi non cesseranno».

LA STAMPA
- Maurizio Molinari: "Netanyahu: pronti a nuove operazioni. Abu Mazen: genocidio "


Benjamyn Netanyahu


Benjamin Netanyahu assicura che «l’operazione militare sarà estesa» e Abu Mazen lo accusa di «genocidio dei palestinesi». Il premier israeliano si è recato a Beersheva, per una riunione sulla sicurezza delle città del Sud ed è in questa sede che ha promesso di «intensificare le attività contro Hamas» adoperando un linguaggio che avvalora lo scenario di un possibile intervento di terra. D’altra parte Yuval Steinitz, ministro dell’Intelligence, parla di una «temporanea rioccupazione della Striscia» per poter «smantellare l’organizzazione terroristica che vi opera». In concreto significa far entrare a Gaza contingenti di truppe scelte per dare la caccia ai leader di Hamas dentro bunker e tunnel. È uno scenario del quale il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha discusso a Ramallah con i più stretti collaboratori affermando che «Israele persegue il genocidio dei palestinesi». «Hanno iniziato a Hebron, continuato a Shuafat e ora colpiscono Gaza» ha aggiunto, leggendo la gestione israeliana del rapimento dei tre ragazzi ebrei e dell’adolescente palestinese come un unico piano che ora si concretizza con «la brutale aggressione a Gaza». Da qui la scelta di chiamare Ban Ki-moon per chiedere subito una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu in parallelo con la domanda di adesione palestinese «a tutti gli organismi internazionali». Scegliendo tale approccio, Abu Mazen punta a far comprendere all’amministrazione Obama che il sostegno alle operazioni di Israele potrebbe avere come conseguenza l’avvicinamento ulteriore di Fatah ad Hamas.
Ma in realtà nella sfida diplomatica fra Netanyahu e Abu Mazen ciò che più conta è la posizione dell’Egitto di Al Sisi. Il Cairo infatti è l’unico canale di comunicazione fra Israele ed Hamas e Al-Sisi ha interesse a sfruttare la crisi per cogliere il suo primo successo diplomatico dall’elezione a presidente. Per questo il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, chiede «moderazione e autocontrollo» allo Stato ebraico, recandosi ad Amman per coordinare le mosse con la Giordania. In realtà però la posizione dell’Egitto è più articolata perché Al Sisi considera Hamas un alleato dei Fratelli Musulmani – al bando in Egitto come organizzazione terroristica – e più volte negli ultimi mesi ha bersagliato con ogni sorta di misure, economiche e di sicurezza, la leadership fondamentalista di Gaza. Da qui l’ipotesi di un tacito avallo di Al-Sisi all’intervento di Israele, tantopiù che nel Sinai la cooperazione anti-terrorismo fra i due Paesi è ai livelli più alti dalla pace di Camp David nel 1979.

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Nessun cessate il fuoco. Colpiremo tutti gli obbiettivi' . "

Mushir al-Masri è il volto di Hamas nella guerra dei media che accompagna il conflitto militare con Israele. Eletto nei ranghi di Hamas nelle elezioni palestinesi del 2006, il 44enne al-Masri fu all’epoca il parlamentare più giovane di Gaza e viene da una delle famiglie più rispettate della Striscia.
Lo incontriamo nel cortile dell’ospedale, da dove concede interviste a raffica alle tv arabe, con l’intento di innescare un’ondata di solidarietà per Hamas capace di rompere l’attuale isolamento.
Quale è la situazione militare sul campo ?
«Il nemico sionista ha finito gli obiettivi da colpire, per questo si accanisce contro case e civili. Sono in evidente difficoltà. Mentre noi di obiettivi ne abbiamo davvero molti, possiamo colpirli tutti, e presto se ne accorgeranno».
Sta parlando di Hedera, una città a 120 chilometri dalla Striscia di Gaza, che avete raggiunto con i razzi?
«Hedera è solo una delle sorprese che abbiamo in serbo per il nemico. Pagheranno un alto prezzo di sangue per i crimini che stanno commettendo contro il popolo palestinese».
Temete un’invasione di terra?
«Hamas non teme nulla. Saranno loro a perdere molti soldati se oseranno entrare a Gaza».
Sono in corso trattative per il cessate il fuoco?
«No, questo è il momento di combattere il nemico non certo di trattare con lui la tregua».
Eppure l’Egitto dice sta tentando di riuscirci...
«All’Egitto chiediamo di riaprire i confini e i tunnel, di aiutare a far respirare la nostra economia alle prese con una vasta aggressione militare».
Quale è il vostro obiettivo in questo conflitto con Israele?
«Abbiamo visto con orgoglio le proteste dei palestinesi a Gerusalemme e degli arabo-israeliani dopo il brutale assassinio del ragazzo di 17 anni. Combattendo, chiediamo ai fratelli dell’intera Palestina di sollevarsi e battersi al nostro fianco, per aprire più fronti contro il nemico sionista».
Insomma, puntare ad innescare un’ampia rivolta contro Israele?
«Il momento per sollevarsi contro l’occupazione è ora».
Cosa vi aspettate dalla comunità internazionale?
«Americani ed europei, come al solito, stanno con Israele oppure tacciono sui suoi crimini dovrebbero aiutarci a bloccare questa aggressione. Invece parlano solo della sicurezza di Israele».
E dal mondo arabo?
«Ci aspettiamo aiuti, donazioni e armi. Siamo in lotta per la Palestina e per Gerusalemme, contiamo sul sostegno di quegli arabi che ci sostengono».
Il governo di unità nazionale con Abu Mazen può ancora decollare?
«Noi abbiamo scelto l’unità nazionale, sta ora ad Abu Mazen dimostrare di saper essere a fianco della popolazione palestinese di Gaza aggredita da una sanguinosa macchina da guerra che uccide civili».

LA STAMPA - Paolo Mastrolilli: " Washington teme l'escalation. 'Si rischia il caos nella regione "


Paolo Mastrolilli


Da una parte, secondo Robert Kaplan, «Israele sa che Hamas ha costruito missili in grado di colpire Tel Aviv, e vuole neutralizzare questa minaccia». Dall’altra, secondo Lawrence Korb, «Hamas è spaccata, e le sue frange più estremiste stanno sfruttando la crisi provocata dall’uccisione dei tre adolescenti israeliani, e quello palestinese, per far saltare il governo unitario con Fatah e qualunque possibilità di dialogo». In mezzo ci sono gli Usa, che «non possono dire a Israele di fermarsi mentre è sotto attacco dei razzi, ma lavorano dietro le quinte per evitare l’escalation di terra che aprirebbe un nuovo fronte in una regione già infuocata».
Kaplan, capo degli analisti della think tank Stratfor, vede i raid su Gaza come «il nuovo episodio di una serie che si ripete ormai a intervalli quasi regolari. Il rapimento dei ragazzi è stato una scusa usata da chi vuole il conflitto. Israele sa che Hamas ha potenziato le sue capacità militari e quindi vuole ridurle, colpendo obiettivi che probabilmente aveva nel mirino da tempo». Entrambe le parti hanno dei limiti nel loro raggio d’azione: «Israele non sa con esattezza quanti missili ha e dove li nasconde Hamas, mentre Hamas non sa quanto è determinato Israele a inviare truppe di terra a Gaza». Il rischio di un’escalation è sempre alto, ma questi due elementi frenano le parti e danno uno spiraglio agli Usa: «Sul piano ufficiale Washington si è limitata a invitare tutti alla ragionevolezza. Dietro le quinte sta mediando, perché i negoziati aiutano comunque a calmare la regione, anche quando falliscono».
Korb, ex vice capo del Pentagono e senior fellow del Center for American Progress, è convinto che «Hamas è spaccata, e le frange più estremiste hanno preso il sopravvento, sfruttando questa crisi per far saltare il governo di unità con Fatah e ogni ipotesi di dialogo con Israele. Probabilmente sono anche incitate in questo senso da Assad e da Hezbollah, che hanno interesse ad aprire un nuovo fronte, dopo la Siria e l’Iraq». La reazione di Israele «è giustificata dal fatto che si trova sotto la costante minaccia dei razzi, e il suo obiettivo è fermarli. La mobilitazione dei riservisti serve proprio a questo, lanciando un chiaro segnale ad Hamas. Se il segnale verrà raccolto, la crisi probabilmente rientrerà; se i lanci di missili continueranno, l’offensiva di terra potrebbe diventare una necessità».
Su questo sfondo, «Kerry ha invitato le parti a contenere le loro azioni, nella speranza di raffreddare gli animi, ma è chiaro che quando Israele è sotto attacco deve rispondere. Il vero lavoro diplomatico sta avvenendo dietro le quinte, dove Washington ha coinvolto i paesi della regione, a partire dall’Egitto, affinché facciano pressioni su Hamas. Il ragionamento è che l’escalation, nella situazione attuale di caos regionale, non conviene neppure a loro, e quindi bisogna fermare le azioni che renderebbero inevitabile l’offensiva di terra».

CORRIERE della SERA - Davide Frattini: "  La Cupola di ferro (cui nessuno credeva) che intercetta il 90 per cento dei razzi"


Davide Frattini        Il sistema difensivo Iron Dome


GERUSALEMME — Un fucile gigante tipo quelli per il tiro al piattello, un sistema laser. Gli israeliani hanno cominciato otto anni fa a immaginarsi come fermare i razzi sparati verso le città, dal fronte nord e il confine con il Libano, da sud come sta succedendo in questi giorni. Nei laboratori dentro la Kirya, il cubo bianco alla periferia di Tel Aviv dove siedono il ministro della Difesa e il capo di Stato maggiore, la squadra guidata dal generale Daniel Gold ha studiato il sistema che adesso tutti conoscono, quella Cupola di ferro da ieri dispiegata in tutto il Paese.
Le idee bizzarre e quasi fantascientifiche dei primi abbozzi sono state sostituite da un misto di algoritmi matematici, tecnologia radar, prontezza umana. Iron Dome è stato sviluppato dalla Rafael, industria di proprietà del governo, e all’inizio non ha convinto quelli che dovevano pagare la maggior parte del conto: gli specialisti del Pentagono erano scettici. Fino agli otto giorni di guerra del 2012, quando gli esperti israeliani hanno sostenuto che il sistema fosse stato efficace l’84 per cento delle volte in cui era stato attivato . Così il primo incontro ufficiale di Barack Obama, il presidente americano, nella sua visita di un anno e mezzo fa è stato con una batteria anti-missili: foto celebrative, sorrisi e la promessa che il Congresso avrebbe stanziato altri 680 milioni di dollari (circa 500 milioni di euro) per la produzione di nuove unità nel 2015 (gli americani hanno già elargito 300 milioni del miliardo pianificato dal governo israeliano). L’annuncio che l’intera Israele è protetta da Iron Dome fa pensare che già tutte e quindici le batterie siano state fabbricate, l’esercito ha sempre dichiarato di averne sette.
I perplessi restano (dopo il conflitto del 2012 l’esperto di armi Richard Lloyd aveva pubblicato un dossier critico), eppure gli israeliani proclamano una percentuale di successo accresciuta: da lunedì notte Iron Dome avrebbe centrato il 90 per cento dei bersagli contro cui è dovuto intervenire. Non significa che abbia intercettato la maggior parte dei quasi 200 missili sparati da Gaza: le batterie entrano in funzione solo quando i computer calcolano che il proiettile potrebbe cadere su un edificio.
La Cupola di ferro è stata studiata proprio per contrastare quei Qassam e Grad prodotti in casa da Hamas e dalla Jihad islamica, gittata da corta a media fino a 70 chilometri. I gruppi fondamentalisti hanno dimostrato nelle prime 72 ore di aver accumulato negli arsenali — l’intelligence israeliana stima 10 mila razzi — anche missili che possono raggiungere i 160 chilometri di distanza come quello caduto a Hadera, nord di Tel Aviv, e le bombe segnalate in alcune aree a sud di Haifa. Sarebbero gli M-302 progettati dai cinesi, prodotti in Siria e trafficati verso Gaza. Gli ingegneri di Hamas assicurano di averli messi insieme loro: la sigla scelta dai palestinesi, R-160, vuole celebrare Abdel Aziz al-Rantisi, il cofondatore del movimento ucciso dagli israeliani nel 2004 .
Yaakov Amidror, generale in pensione ed consigliere per la sicurezza nazionale del premier Benjamin Netanyahu fino al novembre dell’anno scorso, resta convinto che la maggior parte degli armamenti sia stata trasportata nella Striscia attraverso i tunnel clandestini scavati al confine con l’Egitto. «Durante il periodo in cui Mohammed Morsi e i Fratelli Musulmani avevano il potere al Cairo — commenta — quelle non erano gallerie ma vere e proprie autostrade dove poteva passare di tutto ».

LA REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu: "Addio armi fai da te, il nuovo arsenale viene da Iran e Libia "


Giampaolo Cadalanu     Il reattore nucleare di Dimona


Sono
finiti i tempi dei razzi artigianali Qassam, costruiti nelle cantine di Gaza con tubi di ferro ed esplosivo ricavato dai fertilizzanti. Adesso Hamas può contare su armi più sofisticate: prima di tutto gli M-302 Khaibar. Secondo Debkafile, sito “vicino” all’intelligence israeliana, sono gli stessi che i guerriglieri di Hezbollah hanno lanciato su Haifa nel 2006. Sono razzi derivati dal cinese WS-1, che può portare esplosivo per 175 chili fino a 45 chilometri: i tecnici di Hezbollah li avrebbero modificati, rendendoli in grado di raggiungere 150 chilometri, e di colpire quindi il nord di Israele. Ma l’aumento di portata non ne migliora la precisione. I razzi si distinguono dai missili perché sono privi di un sistema di guida: in altre parole, vengono orientati verso l’obiettivo, ma non sono teleguidati e non possono individuare autonomamente il punto di arrivo né correggere la rotta. Forse solo questo ha salvato il reattore nucleare di Dimona, contro cui Hamas ha lanciato diversi razzi. Secondo gli analisti israeliani, i razzi in possesso di Hamas vengono dall’Iran: un carico di 40 M-302, nascosti sulla nave Klos-C carica di cemento, era stato intercettato nel marzo scorso dai militari di Israele. Altro possibile fornitore di Hamas sono i ribelli libici: secondo altre fonti, sarebbero stati i combattenti delle brigate di Misurata, protagoniste della rivolta contro il regime di Gheddafi, a rifornire Hamas nei mesi scorsi. I razzi sarebbero entrati nella striscia di Gaza attraverso i tunnel del Sinai durante il periodo del governo dei Fratelli musulmani.

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