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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.07.2014 L' 'Hamas delle carceri' dietro il rapimento di Eyal, Gilad e Naftali, la visita di 400 israeliani alla famiglia del ragazzo arabo ucciso
Cronache di Maurizio Molinari, Davide Frattini

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Davide Frattini
Titolo: «'Il fronte delle carceri' dietro il rapimento dei giovani israeliani - Gli ospiti con la kippah a casa di Mohammed. 'Proviamo vergogna'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/07/2014, a pag. 11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " 'Il fronte delle carceri' dietro il rapimento dei giovani israeliani " e dal CORRIERE della SERA,  a pag. 3, l'articolo di Davide Frattini dal titolo  "Gli ospiti con la kippah a casa di Mohammed. 'Proviamo vergogna' ".

Di seguito, gli articoli.


Il simbolo di Hamas


Il padre di Mohammed Abu Khdeir

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "'Il fronte delle carceri' dietro il rapimento dei giovani israeliani"


Maurizio Molinari


Quanto avvenuto dal 12 giugno, giorno del rapimento dei tre ragazzi ebrei in Cisgiordaia, descrive come sono quattro i fronti della sfida fra Benjamin Netanyahu e Hamas. Il primo, e più evidente, è il conflitto con la leadership a Gaza: guidata da Ismail Haniyeh e con Mahmud al-Zahar nel ruolo di leader della linea dura, può contare sulle brigate Al-Qassem e un arsenale di migliaia di razzi, costituendo per Israele una minaccia militare diretta.
Poi c’è Hamas in Cisgiordania, ovvero il gruppo politico cresciuto in opposizione all’Autorità nazionale palestinese che le forze di sicurezza israeliane hanno decimato con oltre 400 arresti. In questo caso i leader di Hamas costituiscono per Israele soprattutto una minaccia politica perché sono loro ad aver tessuto il negoziato con Abu Mazen che ha portato all’intesa in maggio sulla nascita di un governo di unità nazionale. Non a caso Sheikh Hassan Yousef, con l’ufficio a Ramallah, in aprile fu il primo leader di Hamas a dirsi a favore dell’«accettazione di Israele in caso di pace».
Ma né Haniyeh né Hassan Yousef hanno rivendicato il rapimento dei ragazzi israeliani e quando Netanyahu ha puntato l’indice contro Hamas ha fatto i nomi di Marwan Qawasmeh e Amer Abu Aisha ovvero due militanti dell’ala militare con in comune l'appartenere a famiglie di Hebron con molti parenti in carcere. Si arriva così all’ipotesi che il sequestro di Eyal, Gilad e Naftali possa essere stato ordinato dai leader di Hamas che si trovano nelle prigioni di Israele, dove hanno intrapreso diverse forme di protesta - incluso lo sciopero della fame - guidati da personaggi come Ibrahim Hamed, condannato nel 2010 a ergastoli multipli per attacchi terroristici.
Non si può escludere che Qawasmeh e Abu Aisha abbiano agito su mandato della «Hamas delle carceri» nell’intento di ottenere la liberazione di un importate numero di detenuti, inclusi propri famigliari. Il tentativo è fallito per la somma fra scarsa preparazione dei sequestratori e l’imprevisto della telefonata di un rapito alla polizia, ma colpisce che l’unico a parlare a favore dei rapitori sia stato Khaled Mashaal ovvero il leader di Hamas all’estero, oggi in Qatar dopo essere stato sotto la protezione dei Fratelli Musulmani egiziani. È questa frammentazione di leader e strategie che prospetta il rischio di un’implosione interna di Hamas simile a quella avvenuta nei gruppi jihadisti in Iraq e Siria: dando vita ad una galassia di cellule destinata a moltiplicare i pericoli per la sicurezza di Israele

CORRIERE della SERA - Davide Frattini: "Gli ospiti con la kippah a casa di Mohammed. 'Proviamo vergogna' "


Davide Frattini


GERUSALEMME — Il necrologio sta adesso appeso vicino al sorriso di Mohammed. Moshe Samhovitch lo ha portato con sé e consegnato al padre. È venuto qui per ripetere di persona le parole che ha voluto pubblicare su Al Quds , il quotidiano palestinese: «Mi inchino davanti alla famiglia, agli abitanti di Shuafat e a tutto il vostro popolo. Provo vergogna per il terribile assassinio commesso da criminali senza cuore».
La visita non è inaspettata e all’inizio neppure benvenuta. Walid, cugino del padre, panettiere diventato in questi giorni di dolore il portavoce dei parenti, ha cercato di convincere i quattrocento israeliani a non presentarsi, a non stringere la mano di Hussein uno alla volta, a non abbracciarlo per sussurrargli frasi di conforto. Invece è successo. Prima un piccolo gruppo, seguito da una lunga fila. Scendono dall’autobus sulla strada che la notte è ancora il campo di battaglia per gli scontri con la polizia. Indossano la kippah di velluto degli ortodossi, quella all’uncinetto dei sionisti religiosi, coppie di giovani laici, anziani pacifisti che ancora sperano anche se hanno visto più guerre di tutti.
Scendono e nessuno li ferma. Quando dalla casa degli Abu Khudair una delle zie esce urlando «cacciateli via», Walid la zittisce «adesso sono nostri ospiti». Il primo contatto è stato teso: il palestinese ripete «i politici israeliani sono venuti senza chiedercelo, vogliono sfruttare l’occasione per farsi pubblicità, siamo contro il vostro governo», l’attivista ebrea lo rassicura «anche noi». Sotto la tenda del lutto si riunisce quella sinistra che si sente in colpa perché teme di non aver alzato abbastanza la voce: a sovrastare i cori da stadio dei tifosi del Beitar Gerusalemme («morte agli arabi»), a contrastare l’incitamento all’odio dei rabbini che insegnano nelle colonie, a smontare la propaganda antinegoziato della destra.
Le donne arrivate dall’altro mondo aprono il piccolo cancello di ferro verde, le foglie della vite fanno ombra alle signore velate che in questa settimana sono uscite solo per il funerale, quando il cadavere carbonizzato di Mohammed è stato restituito alla famiglia dopo l’autopsia: il ragazzino, 16 anni, è stato rapito dall’altra parte della strada, davanti al negozio di elettricista del padre, picchiato e bruciato vivo nella foresta attorno a Gerusalemme. Per l’omicidio — tra esecutori e complici — sono stati arrestati sei estremisti ebrei, tre di loro minorenni, che volevano vendicare la morte di tre ragazzi sequestrati e uccisi in Cisgiordania. «Gli israeliani venivano dalle colonie che ci circondano a fare la spesa, credevamo di poter convivere, adesso resta solo la paura», dice Ansam, 27 anni, cugina di Mohammed. Porta la keffiah bianca e nera che Yasser Arafat non toglieva mai ai tempi della seconda intifada. «Non so come reagire a questa visita, sento emozioni diverse, all’inizio li avrei mandati via, capisco che sono sinceri e vogliono compiere un gesto positivo».
Il padre di Mohammed resta con il sorriso smarrito che gli ha bloccato il volto, Moshe gli siede vicino. Il vecchio anarchico israeliano che ogni venerdì manifesta a fianco dei palestinesi contro il muro di separazione e il palestinese che di politica non si è mai occupato, i primi scontri li ha visti in questa settimana davanti a casa. Shuafat è quartiere borghese, l’ex premier Salam Fayad aveva scelto di abitare da queste parti, andava avanti e indietro dall’ufficio di Ramallah.
Il treno leggero non passa più. Le rotaie sono state mozzate dai manifestanti palestinesi con le seghe circolari, le pietre delle banchine trasformate in armi, le mappe con le fermate sbriciolate, la città dall’altra parte è un luogo senza nomi. Gadi Gvaryahu, portavoce dell’organizzazione antirazzista Tag Meir, è venuto per provare a dimostrare che quel tragitto comune è ancora possibile: «Bruciare un ragazzino è inaccettabile», dice ai parenti e agli uomini di Shuafat appena usciti dalla moschea dopo la preghiera del pomeriggio. «Siamo la generazione sopravvissuta all’Olocausto, dobbiamo urlare: mai più».

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