Roman Polanski porta al cinema il caso Dreyfus che rivelò l'antisemitismo della Francia di fine Ottocento
Testata: La Repubblica Data: 06 luglio 2014 Pagina: 33 Autore: Nicolas Weill Titolo: «Il mio caso Dreyfus»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi 06/07/2014, la traduzione di Fabio Galimberti dell'articolo di Nicolas Weill dal titolo "Polanski. Il mio caso Dreyfus". Nella prima riga del testo si legge che "la ricerca storica tende a riabilitare la figura di Alfred Dreyfus". In realtà, come noto, Dreyfus è stato da tempo pienamente riabilitato, non solo dalla ricerca storica, ma anche dalla giustizia francese.
Roman PolanskiAlfred Dreyfus
Mentre la ricerca storica tende a riabilitare la figura di Alfred Dreyfus, Roman Polanski ha scelto di raccontare l’ affaire dal punto di vista di Georges Picquart, l’uomo che appurò la colpevolezza di Esterházy e l’innocenza del capitano. Perché privilegiare questa figura? Forse la risposta sta nel fatto che Picquart non fosse né ebreo (era anzi vagamente antisemita) né politicamente impegnato (se si eccettua il suo anticlericalismo)? «C’è un’espressione usata in inglese, whistle blower, che indica le persone che lanciano l’allarme, per intederci gente come Edward Snowden. È un argomento questo che mi interessa da molto tempo. Sono almeno dieci anni che cerco di fare un film su questo tema, ma non riuscivo a vedere un modo per adattarlo efficacemente su Dreyfus. Per diverse ragioni. La prima è che come eroe Dreyfus non è molto interessante. Non era né particolarmente seducente né particolarmente simpatico, anche secondo il giudizio delle stesse persone che lo sostenevano. La seconda ragione, ed è la più importante, è che trascorse il grosso del periodo che ci interessa su un’isola deserta, l’Isola del Diavolo, e che per molto tempo veniva incatenato al letto quando dormiva. Insomma, non riuscivo a trovare un modo per affrontare degnamente il soggetto. Poi Robert Harris ha avuto l’idea geniale di adottare il punto di vista dell’uomo che, come sappiamo, è stato quello che lo ha scagionato. Miracolosamente il libro di Robert ( L’ufficiale e la spia, in Italia pubblicato quest’anno da Mondadori, ndt) offre tutta la struttura di un film. Attraverso Picquart, il nostro racconto poteva prendere le tinte di un film giallo, addirittura di un thriller. Con lui, con Picquart, c’è quello che a Hollywood chiamano l’ arch of development , ovvero l’arco narrativo, la curva che ogni trama deve seguire. A Hollywood Picquart sarebbe diventato naturalmente un filosemita. Mentre la realtà è più sfumata. Nella realtà Picquart non cambiò granché, ma era un uomo dotato di un grande senso morale, posseduto dal dovere, dall’onore, e questo lo ha reso interessante ai nostri occhi. Era una figura complessa, non necessariamente molto simpatica, ma davvero notevole. Cambiò veramente opinione sugli ebrei ? Secondo me riteneva che l’errore giudiziario fosse qualcosa di assai più grave di un crimine. E valutava molto semplicemente che il suo onore era assolutamente incompatibile con il fatto di lasciare un colpevole in libertà mentre un innocente veniva punito al suo posto. Per l’esercito francese sarebbe stato un disastro. La dimensione politica dello scandalo venne solo dopo. In prima battuta la storia di Dreyfus era una storia di spionaggio; in seconda battuta un fallimento della giustizia; solo in terza battuta diventò una questione politica. Per creare qualcosa sei obbligato a scegliere». «Lavorando a questo progetto mi sono reso conto che quando cominci a chiedere alle persone che cosa conoscono dell’ affaire Dreyfus, scopri che ne sanno davvero poco o nulla, anche quelle istruite. Quando dico che farò un film sull’affare Dreyfus mi dicono che è una cosa fantastica, che sarà interessantissimo, e basta… La gente ignora che i francesi bruciavano per strada i libri di Zola insieme a L’Aurore ( il giornale che aveva pubblicato il famoso J’accuse dello scrittore, ndt). In buona sostanza non sa che quello scandalo ha letteralmente cambiato la storia della Francia. Non ricorda che all’epoca in cui Zola scrisse il J’accuse, gran parte dell’opinione pubblica gli era ostile». «Il caso Dreyfus ha largamente ispirato la letteratura, sia quella “alta” che il romanzo popolare. Personalmente per documentarmi mi sono letto Proust e parecchio Zola, ma non tutti gli altri. E ciò che più mi ha affascinato nell’ affaire sono gli elementi legati a una modernità ancora in embrione. Ogni giorno venivano spediti a New York telegrammi da seicento parole per informare il pubblico americano degli ultimi sviluppi. Il fatto che fosse stato possibile riprodurre la lettera (il principale documento a carico di Dreyfus, pubblicato da Le Matin nel 1896, ndt) sulla prima pagina di altri giornali, grazie a nuove tecniche di facsimile, è uno degli elementi che spiegano come avesse fatto lo scandalo ad assumere queste dimensioni. Vent’anni prima non sarebbe stato possibile. Si può dire che sia stato il primo evento mediatico globale. La regina Vittoria inviò il presidente della Corte suprema inglese ad assistere al processo. Beh, affascinante». «Io non ricordo esattamente cosa sia stato a far scattare in me l’interesse per questa storia. Penso di essere stato molto influenzato anche dal film di Carol Reed, Fuggiasco ( 1947, racconta di una caccia all’uomo contro un nazionalista irlandese per le strade di Belfast, ndt ). Sono questi i tipi di personaggi che mi interessano. E una volta individuati amo raccontare la loro storia dal loro reale punto di vista, con tutto il rigore che ciò possa richiedere: spesso, quando si comincia a lavorare a questo genere di storie, si è tentati di far dire al vostro eroe qualcosa di interessante anche se non fa parte della sua storia. Beh, bisogna invece essere capaci di mantenere una certa disciplina. Comunque, tornando a noi, la molla che mi ha spinto verso Dreyfus dev’essere scattata in me una decina d’anni fa, poco dopo Il pianista. Volevo che il mio prossimo film avesse un senso al di là del puro divertissement. Quanto al modo in cui mi sono documentato mi piacerebbe rispondere come Billy Wilder fece con Volker Schlöndorff in un documentario che quest’ultimo aveva girato su di lui. «Signor Wilder », gli chiede Schlöndorff, «lei si scrive da solo tutte le sceneggiature. Ritiene che un regi- sta debba saper scrivere?». E Billy Wilder risponde: «No, no, ma deve almeno saper leggere ». Sul caso Dreyfus ho letto una quantità di libri incredibile, solo che alla fine non trovavo la maniera di raccontare la storia. Almeno fino a che non è arrivato Robert con la sua idea di Picquart. Come tutti i registi ricevo molte sceneggiature. Ma non mi è mai capitato di leggere un copione che mi facesse dire: «Voglio assolutamente farlo». Solo con Chinatown è successo. Le sceneggiature, in realtà, sono soltanto delle “istruzioni per l’uso”, no? Con il libro di Robert invece è stato pazzesco. Un approccio formidabile. Purtroppo in un film non si può essere sfumati come in un libro. È un medium differente. Non si può raccontare la storia nello stesso modo in cui la si racconta in un romanzo. Forse solo le serie televisive possono avvicinarsi alla letteratura. Ci sono delle scene a cui abbiamo dovuto rinunciare. In compenso, certi episodi (penso al processo, o alla degradazione) sono eventi molto visivi, che si prestano perfettamente a un adattamento cinematografico». «Sì, prendiamo proprio la cerimonia della degradazione, 5 gennaio 1895. Una scena che ha cambiato il corso della storia mondiale. Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, era tra la folla e fu da quel momento che pensò che il popolo ebraico doveva avere un suo Stato. La degradazione di Dreyfus rappresentò un punto di svolta». «La Cour des Invalides, dove ebbe luogo, oggi è inutilizzabile per i nostri scopi. C’è il prato, è pavimentata, mentre a quell’epoca non lo era: dovremo ricorrere a degli effetti speciali. Vedremo. Comunque c’è tempo. Dobbiamo ancora cominciare a girare. Il film non sarà pronto prima del gennaio 2016» 2014 Le Monde ( Testo raccolto da Nicolas Weill Traduzione di Fabio Galimberti)
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