Perché restare in Israele: dedicato a un fglio che vorrebbe andarsene di Zeruya Shalev
Testata: Corriere della Sera Data: 05 luglio 2014 Pagina: 11 Autore: Zeruya Shalev Titolo: «Lettera a mio figlio, soldato che vuole andarsene da Israele»
Riprendiamo, dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/07/2014, a pag. 11, l'articolo della scrittrice israeliana Zeruya Shalev dal titolo "Lettera a mio figlio, soldato che vuole andarsene da Israele".
Zeruya Shalev
Mio figlio maggiore si è arruolato nell’esercito tre mesi fa e ieri ha terminato un corso per istruttori di soldati e ufficiali. Quando siamo arrivati alla base allegri, carichi di cibo e bevande, lui ci ha accolti con una faccia scura: «Non si può andare avanti così, se non fossi un militare me ne andrei subito da Israele!». Ci siamo seduti su una stuoia sotto un albero, nella canicola, col cuore pesante. Ammetto che le sue parole mi hanno ferito. Ho pensato ai miei nonni, arrivati in Israele nei primi anni del ventesimo secolo dalla Russia e dalla Polonia e stabilitisi in uno dei primi kibbutz nella torrida e desolata valle del Giordano. Se non fossero arrivati qui sarebbero morti nella Shoah, come tutti i loro parenti. Ho pensato al primo marito di mia madre, rimasto ucciso durante la guerra d’indipendenza del 1948 nel tentativo di proteggere quel kibbutz e l’intera regione dagli eserciti arabi che avevano invaso Israele. Oggi pochi ricordano che quella guerra scoppiò subito dopo la risoluzione dell’Onu che decretava la partizione del Paese in due stati, Israele e Palestina. Gli israeliani accolsero quella decisione con canti e balli mentre i palestinesi credevano che con l’aiuto degli eserciti arabi questa terra sarebbe rimasta soltanto loro. Il marito di mia madre non fu l’unico a rimanere ucciso. Quasi tutti i suoi compagni di classe trovarono la morte in quel conflitto che si concluse con la disfatta araba e centinaia di migliaia di profughi palestinesi. I loro discendenti pagano ancora il prezzo di quello scontro, e lo paghiamo anche noi. Ma non era soltanto il cuore a dolermi mentre eravamo seduti nella poca ombra. Era anche il ginocchio, spappolatosi durante un attacco terroristico nel quale sono rimasta ferita 10 anni fa poco lontano da casa mia a Gerusalemme. Avevo accompagnato a scuola mio figlio maggiore (il ragazzo che ha appena terminato il corso per istruttori). Camminavo sul marciapiede quando un autobus è esploso. Un attentatore suicida l’aveva fatto saltare uccidendo 11 persone e ferendone 60. Mio figlio, che allora aveva 8 anni, dopo un’ora era stato informato che sua madre era rimasta ferita e portato in lacrime all’ospedale. Ora è un giovane uomo in uniforme che vorrebbe andarsene via. «Davvero te ne andresti? — ho ripetuto con dolore — perché?». «Perché qui non c’è speranza — ha risposto —. Hanno ucciso i tre ragazzi rapiti e ora estremisti della nostra parte li vendicano ammazzando un ragazzo palestinese. Quando capiranno che non importa chi ha cominciato, importa chi smette. E siamo noi a dover smettere!». «Hai assolutamente ragione — gli ho detto — ma non possiamo andarcene. Il nostro popolo deve avere uno Stato». «Certo — ha risposto lui — se io me ne vado non è detto che se ne vadano tutti. Quelli di destra rimarranno sempre». «Ma non dobbiamo lasciare il Paese in mano loro — ho ribattuto — Dobbiamo cercare di influenzare le cose dall’interno. Per questo tu e ragazzi come te diventano istruttori». «Forse — ha ammesso lui, nonostante avessi notato che non era convinto — ma non credo che si possa uscire da questo circolo vizioso. Cos’hai portato da mangiare?». Dopo la cerimonia siamo tornati a casa, a Gerusalemme, avvolti dal fumo degli incendi scoppiati lungo la strada. Viviamo tutti in un campo di rovi, proprio come quelli che ci circondano. Un fiammifero, un falò spento male, intenzionalmente o meno, e tutto prende fuoco in un istante. Come uscire da questa spirale? Guerra e profughi, occupazione e insediamenti, terrorismo e rappresaglie. Che trama crudele, complicata. Con tanti inizi in momenti diversi e che apparentemente avrebbe avuto varie occasioni di giungere a conclusione nel corso degli ultimi 100 anni. Ma ecco che gente nata durante il conflitto è morta senza vederne la fine, per non parlare di coloro che hanno perso la vita. A volte penso di non essermi mai imbattuta in una contraddizione tanto persistente tra il desiderio dei singoli e le azioni della collettività. I singoli, come mio figlio, i suoi amici o i miei amici palestinesi, vogliono la pace delle proprie famiglie, e dunque dell’intera regione. Eppure sembra che la collettività riesca a fonderli in un desiderio contrario, fanatico e violento. In ogni generazione si può attribuire la colpa a questo o a quel personaggio ma ecco che i personaggi cambiano, nuovi colpevoli emergono e nulla cambia. Sembra che una forza potente quanto il fuoco riesca ad annullare i desideri umani e a trascinare le masse in una realtà senza speranza. Quando siamo arrivati a casa sono corsa a leggere le ultime notizie e una piccola, inattesa luce mi ha illuminato. La madre di Neftali Frenkel, uno dei tre ragazzi rapiti e uccisi, ha condannato l’assassinio del ragazzo palestinese. «Se un ragazzo arabo è stato veramente ammazzato per motivi nazionalisti — ha detto — è una cosa orribile e scioccante. Non c’è differenza tra sangue e sangue. Non c’è giustificazione, espiazione né perdono per un omicidio». Ho pensato che se una madre che ieri ha seppellito il figlio assassinato da terroristi palestinesi può condannare un atto di ritorsione c’è ancora speranza. C’è spirito di carità, c’è grandezza. E se tutti noi, moderati di entrambe le parti, seguissimo l’esempio di questa madre e cercassimo di custodire il nostro piccolo campo, di dividerlo con equità e di allontanare coloro che vorrebbero appiccare il fuoco, infonderemmo speranza nel cuore dei nostri figli. Vorrei tanto sapere come poterlo fare. (Traduzione di Alessandra Shomroni ) Per esprimere la propria opinione al Corriere della Sera, telefonare al numero 02/62821 oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@corriere.it