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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
03.07.2014 Le ambizioni del califfato islamista arrivano fino a Roma, i massacri iracheni non c'entrano con la caduta di Saddam
Cronaca di Giordano Stabile, analisi di Carlo Panella

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Giordano Stabile - Carlo Panella
Titolo: «Al Baghdadi, da jihadista a califfo. 'Conquisteremo anche Roma' - I massacri in Iraq hanno una storia lunga, la cacciata di Saddam non c'entra»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/07/2014, a pag. 12, l'articolo di Giordano Stabile dal titolo "Al Baghdadi, da jihadista a califfo. 'Conquisteremo anche Roma' " e dal FOGLIO, a pag. 4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " I massacri in Iraq hanno una storia lunga, la cacciata di Saddam non c'entra".


Abu Bakr Al Baghdadi, capo del gruppo "Stato islamico"

Di seguito, gli articoli:

LA STAMPA
- Giordano Stabile: "Al Baghdadi, da jihadista a califfo. 'Conquisteremo anche Roma' "

Giordano Stabile
Giordano Stabile

Vuole arrivare dove nessun condottiero arabo è mai arrivato. Il sogno del nuovo califfo Abu Bakr al Baghdadi al Qureshi include adesso anche Roma, assediata dai saraceni nell’843 dopo Cristo, ma mai espugnata. «Conquisterete Roma e sarete padroni del mondo», dice ai suoi seguaci il leader dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), trasformato pochi giorni fa in Stato islamico e basta. Perché Siria e Iraq non bastano più. Ora vuole tutti i territori che nei secoli sono stati sotto il dominio dei musulmani. E come ciliegina la capitale della cristianità.
Molta retorica per attirare nuovi adepti. E un bel po’ «di delirio», come sottolinea l’orientalista Olivier Roy. Ma anche astuzia, una consuetudine con la simbologia religiosa da ex predicatore salafita, un profilo sfuggente da leader che vuole durare nel tempo e non esporsi al primo drone americano in volo sul suo califfato appena sorto. Perché Al Baghdadi è «prudente e invisibile come il Mullah Omar, ambizioso, megalomane ancor più di Osama bin Laden».
Nell’audio lanciato sul Web martedì c’è la sintesi di tutto. L’evanescenza dello «jihadista invisibile» che concede solo la sua voce. Mai un’immagine. Mai una foto. E poi la chiamata alle armi di tutti i musulmani, condita dei «dettagli dottrinali per rivendicarne l’autorevolezza».
A cominciare dal nome. Al Baghdadi ha aggiunto il titolo di Abu Bakr, «primo califfo della storia, successore di Maometto», subito dopo aver assunto la guida degli islamisti iracheni nel 2010. Ora, da qualche settimana gli adepti sul Web lo chiamano anche Al Qureshi, nome della tribù del Profeta. Non è un caso, spiega Roy: «Nel 1924, quando Atatürk abolì il califfato per costruire la Turchia laica all’occidentale, i pensatori islamici si riunirono in Arabia per decidere i criteri di una rifondazione, e i requisiti per il futuro califfo. E uno dei principali era far parte dei Qureshi. Al Baghdadi ha scoperto qualche linea di successione che prima non conosceva…».
Un dettaglio non folkloristico in un mondo dove potere temporale e religioso si mescolano «in modo esplosivo». Il califfo, «il successore» alla lettera, ha fuso le due componenti solo nei secoli d’oro dei primi califfati arabi. Poi scià persiani e sultani turchi, che avevano ereditato l’egemonia sul mondo musulmano, si sono limitati ad aggiungere il titolo califfo, onorifico, a quello terreno di «imperatori». Nel Novecento, continua Roy, ci sono stati «molti tentativi velleitari di riportalo in vita» compreso quello dei Fratelli musulmani, nati nel 1928.
Ma nessuno finora si era autoproclamato califfo con un esercito di guerriglieri alle sue dipendenze. «Nemmeno Bin Laden ha mai osato. E nemmeno i taleban, che a differenza di Al Qaeda, disponevano di un territorio. L’Afghanistan talebano era un emirato, un principato, non un impero che dovrebbe abbracciare tutti i musulmani e, se tutta l’umanità si convertisse, il mondo intero».
Questo spiega la boutade su Roma. Ma non fin dove vuole arrivare Al Baghdadi. «Finora è stato fortunato e questo può avergli dato alla testa - azzarda Roy -. Ha riempito due vuoti, in Siria e Iraq, causati da regimi sciiti, quelli di Assad e di Al Maliki, odiati dalle popolazioni sunnite che sono passate con le sue milizie di mercenari pur di liberarsene». Ma ora? Ha attirato quasi tutti i gruppi islamisti, compreso, ieri, il temibile Aqmi nordafricano, ma «è circondato da potenze ostili come Turchia, Iran, Egitto. Anche attaccare la Giordania sarebbe follia. Dovrebbe attraversare 300 km di deserto. Sarebbe incenerito dall’aviazione. Magari quella Usa o israeliana».

IL FOGLIO - Carlo Panella: "I massacri in Iraq hanno una storia lunga, la cacciata di Saddam non c'entra"


Carlo Panella


Roma. Sciiti e sunniti si massacrano in Iraq per colpa e responsabilità di George W. Bush e della sua “dissennata guerra”? A ogni crisi irachena ci viene propinata questa verità indiscutibile: se Saddam Hussein fosse ancora al potere col suo pugno di ferro, sciiti e sunniti iracheni sarebbero in pace. Questa sciocchezza ribadita da un coro unanime – uniche eccezioni Tony Blair e pochi altri saggi – è il metro perfetto dell’incultura che permea l’occidente, sintomo della sua falsa coscienza, quasi che bere pozioni che obnubilano la memoria, anche dei fatti più recenti, possa dare serenità a un occidente che si sente vivo solo quando trova il modo di vergognarsi di se stesso. Non è così. E a chi sostiene che sciiti e sunniti si stanno massacrando in Iraq e Siria solo a causa della caduta di Saddam Hussein vanno ricordate alcune verità storiche. La prima – lontana ma fondante – è che nel 1744, mentre in Europa si affermava l’illuminismo e si strutturava la modernità, prodromi delle grandi rivoluzioni democratiche, nasceva e si affermava nell’islam uno scisma oscurantista, il wahabismo salafita della casa dei Saud, che aveva nella eliminazione fisica degli sciiti la propria principale vocazione. La motivazione di questa prassi wahabita è semplice nella rozza teologia di Muhammed al Wahab: gli sciiti accostano al culto di Allah quello dei 12 imam di cui venerano i santuari. Quindi sono politeisti, idolatri, traditori della fede nell’unico Dio. Sono “falsi musulmani che diffondono corruzione sulla terra”. Vanno spazzati via. Oggi, quando il wahabita Abu Bakr al Baghdadi, il leader dell’Isis che assedia Baghdad e massacra a freddo soldati sciiti, promette che “metterà a ferro e fuoco” le città sante sciite di Kerbala e Najaf, ripropone l’obiettivo della distruzione e del saccheggio di quei santuari già messo a segno nel lontano 1802 dal wahabita re Abdulaziz ibn Saud (morto poi per mano di un sicario sciita). Da allora la vicenda della regione è costellata di scannamenti tra sunniti e sciiti, obbligati nel 1925 da un altro Abdulaziz ibn Saud a pagare la Jiza, la tassa di sottomissione imposta a ebrei e cristiani, a chi non è musulmano. Questo è l’indispensabile punto di riferimento per mettere a fuoco le ragioni profonde dello sterminio reciproco a cui assistiamo dal 1979 in poi. Gli scannamenti brutali tra sciiti e sunniti riprendono con forza dopo la vittoria nel 1979 della rivoluzione sciita di Khomeini in Iran, che contesta la custodia dei luoghi santi da parte dei Saud wahabiti e che è specularmente vissuta dai wahabiti come la minacciosa affermazione di una idolatria nel corpo dell’islam. Centinaia sono i morti degli scontri tra pellegrini sciiti e sunniti alla Mecca nel corso degli Haji dei primi anni 80. Negli stessi anni Riad manda 25 mila uomini della Guardia nazionale per schiacciare la rivolta degli operai del petrolio sciiti nella regione di Hasa. Centinaia di morti conta la rivolta sciita nel Kuwait. Tra il 1980 e il 1988 la stessa guerra tra Iran sciita e Iraq con governo sunnita, che costa 500 mila morti, è combattuta dall’una e dall’altra parte anche come jihad. Nel frattempo Saddam impicca l’ayatollah Baker al Sadr (zio di Moqtada al Sadr) e centinaia di suoi accoliti accusandoli di apostasia e attentato alla sicurezza dello stato. Nel 1991, alla fine disastrosa della guerra del Golfo, la rivolta sciita del sud Iraq è schiacciata da Saddam Hussein con non meno di 15 mile vittime. Questo è il prezzo della pax sunnita che Saddam Hussein impone all’Iraq che tanta nostalgia suscita oggi nelle anime belle che esecrano la sua deposizione da parte di George W. Bush. Pochi anni dopo, in Afghanistan, i talebani arrivati al potere massacrano l’etnia sciita degli Hazara. Da allora sanguinosi attentati sunniti contro fedeli in preghiera dentro moschee sciite si succedono non solo in Iraq, ma anche in Bangladesh e Pakistan. La realtà di cui l’occidente si rifiuta di prendere atto è che si sta combattendo nel mondo musulmano una Fitna, una guerra di religione che contrappone lo scisma wahabita agli sciiti e in particolare al nuovo scisma in ambito sciita che è stato delineato dall’ayatollah Khomeini. Questo è il contesto culturale e politico che produce il terrorismo islamista. Questa è la ragione per cui la strategia di contrasto di Barack Obama basata sugli assassinii mirati e sui droni è ai limiti dell’assurdo. Stiamo assistendo allo sviluppo esponenziale di una inarrestabile guerra di religione tra musulmani, che si combatte anche in ambito sciita tra khomeinisti e antikhomeinisti. Il 10 aprile 2003 a Najaf il potente e famoso ayatollah sciita Abdul Majid al Khoei, appena rientrato dall’esilio londinese, viene assassinato a colpi di mannaia dai sicari armati dallo sciita Moqtada al Sadr, che l’anno successivo minaccia di uccidere l’ayatollah Ali al Sistani e attacca Najaf e Kerbala. Abdul Majid al Khoei era amico di Tony Blair, il suo ispiratore nello schierarsi a fianco di George W. Bush nella guerra contro Saddam. Era figlio del grande ayatollah Abu al Kassim al Khoei, maestro dell’attuale grande ayatollah Ali al Sistani, arrestato da Saddam Hussein e morto nel 1992 agli arresti domiciliari. Era esponente di rilievo della componente sciita avversa al khomeinismo (e a Bagher al Sadr) e la sua morte costa un prezzo enorme alla coalizione dei volenterosi. Con al Khoei scompare l’indispensabile mediatore tra la coalizione occidentale e la situazione interna irachena e si perde il contatto con la fondamentale componente religiosa sciita affidata incautamente dall’America ai laici Iyad Allawi e Ahmed Chalabi (suggeritore della disastrosa decisione di sciogliere l’esercito iracheno e i suoi vertici sunniti). Infine, ma non per ultimo, se si vuole guardare la foresta e non solo gli alberi, un dato secco: dal 1956 a oggi se si guarda ai conflitti in Indonesia, Pakistan-Bangladesh, Giordania, Oman, Ciad, Sudan-Sudan del sud, Yemen, Iran-Iraq, Siria, Libano, Algeria Marocco si vede che tra i 4 e i 6 milioni di musulmani sono stati uccisi da altri musulmani in guerre civili, attentati e conflitti di religione, (statistiche precise sono impossibili). In questo contesto più di un milione e mezzo di arabi sono stati uccisi da arabi. Senza alcun intervento dell’occidente, né di Israele.

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