'Ucciso dai coloni': anche se i fatti sono tutti da verificare le precipitose certezze dei quotidiani italiani
Testata:Corriere della Sera - Avvenire Autore: Ala Hlehel - Riccardo Redaelli Titolo: «Incapaci di mostrare dolore se muoiono i figli degli altri - La logica perdente della vendetta»
La maggior parte dei quotidiani di oggi, 03/07/2014, nella titolazione e negli articoli dà per scontato che l'omicidio di Mohammed Abu Khdair sia stata una vendetta per il sequestro e l'uccisione di Eyal Yfrach, Gilad Shaar e Naftali Frenkel. Questo nonostante il fatto che la polizia israeliana segua al momento più piste, tra le quali quella della faida famiglaire e quella del "delitto d'onore", di cui scrive il solo Davide Frattini sul CORRIERE della SERA (vedi: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=54039 ) Per esempio REPUBBLICA titola in prima pagina "Il ragazzo palestinese ucciso per vendetta", su LIBERO, a pag. 16, Mirko Molteni scrive nell'articolo dal titolo "Arabo ucciso in Israele, Esplode la nuova Intifada" che "un altro innocente, stavolta palestinese, è stato travolto dalla spirale delle vendette". Il sottotitolo recita: "Catena di vendette e controvendette tra ebrei e palestinesi. il ritrovamento di un cadavere carbonizzato di un 17enne scatena scontri a Gerusalemme". Giampiero Gramaglia, sul FATTO QUOTIDIANO, a pag. 13, nell'articolo dal titolo "Polveriera Medio Oriente, comanda la legge del taglione", scrive: "Primitiva, barbara, disumana, scatta a Gerusalemme la legge del taglione" Comune alla maggior parte dei quotidiani è anche l'equiparazione tra la condanna dell'omicidio di Mohammed Abu Khdair, immediata, da parte del governo israeliano a quella, tardiva, del sequestro di Eyal, Gilad e Naftali da parte di Abu Mazen (che per altro ha poi taciuto dopo la scoperta dell'omicidio dei tre ragazzi). Per esempio Susan Dabbous, su AVVENIRE, a pag. 13, nell'articolo dal titolo "Israele, ora lo spettro si chiama vendetta" scrive: "Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha condannato l'«abominevole omicidio» invocando una rapida cattura dei colpevoli. Il presidente palestinese, Abu Mazen, gli aveva chiesto una ferma condanna, la stessa emessa da parte dell'Autorità palestinese sul sequestro e l'uccisione dei tre studenti rabbinici". Fabio Scuto, su REPUBBLICA, nell'articolo, a pagg.14-15 dal titolo "Ucciso un palestinese 'E' la vendetta dei coloni', scontri a Gerusalemme " scrive: "iI premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha condannato lo «spregevole omicidio", ha definito l'assassinio del ragazzo palestinese come un «atto abominevole e ha chiesto alle forze di polizia di lavorare il più velocemente possibile per trovare i colpevoli dell'omicidio del giovane, per evitare che si inneschi un meccanismo a catena di vendette trasversali. Il presidente palestinese, Abu Mazen, gli aveva chiesto una ferma condanna, cosi «come noi. — ha ricordato —«abbiamo condannato il sequestro e l'uccisione dei tre ragazzi israeliani» ". Altri temi sono specifici di singoli articoli: Michele Giorgio sul MANIFESTO , nell'articolo pubblicato a pag. 8 dal titolo "La vendetta brucia Gerusalemme" contrappone i “funerali in diretta televisiva” dei tre ragazzi israeliani uccisi alla presunta mancanza di commozione e di indignazione per la morte di Mohammed Abu Khdair. Lui stesso, però, cita le parole di chiarissima condanna dell'omicidio immediatamente pronunciate dal premier israeliano Netanyahu (le cita come “conferma indiretta” che l'omicidio sia una vendetta, secondo la peculiare logica della criminalizzazione di Israele: se Netanyahu, non avesse pubblicamente condannato l'omicidio sarebbe certamente stata la “prova” della sua complicità morale) Eric Salerno sul MESSAGGERO , a pag. 13, nell'articolo dal titolo "Coloni che sparano. Anche Tel Aviv ha i suoi terroristi", costruisce il teorema dell'equiparazione tra il terrorismo dei gruppi palestinesi, che ha fatto migliaia di vittime, e un presunto “terrorismo” israeliano, la cui storia si risolve un un ristretto numero di episodi, dovuti per lo più a individui isolati. Un tesi simile è sostenuta nell'articolo "Quelle schegge impazzite degli opposti radicalismi", stando al quale gli incontrollabili estremisti israeliani sarebbero equivalenti agli incontrollabili estremnisti islamici. Entrambi i gruppi "non rispondonopiù ai comandi centralizzati nelle formazioni storiche dell'islam radicale armato come, sul versante opposto, dai movimenti più estremi dell'ultranazionalismo ebraico".
La quasi totalità dei quotidiani di oggi, dunque, disinformano, in modo più o meno grave. Di seguito, ci limitiamo a riprendere due articoli che dalla disinformazione passano a trarre conseguenze politiche particolarmente insidiose. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, il commento di Ala Hlehel dal titolo "Incapaci di mostrare dolore se muoioo i figli degli altri" e da AVVENIRE a pag. 3, l'editoriale di di Riccardo Redaelli dal titolo "La logica perdente della vendetta".
L' articolo dello scrittore arabo israeliano Ala Hlehel pubblicato dal CORRIERE della SERA, partendo dal presupposto indimostrato che l'omicidio di Mohammed Abu Khdair sia una vendetta, giustifica l'appoggio al rapimento e all'uccisione dei tre ragazzi israeliani, incluse le affermazioni della parlamentare arabo-israeliana Haneen Zoabi, che ha negato che il sequestro fosse un atto di terrorismo. Hlehel equipa terrorismo da un lato, operazioni militari di difesa dal terrorismo e attività edilizie negli insediamenti dall'atro. Ritorce così il biasimo per la violenza contro Israele su quest'ultimo, colpevole di difendersi e di costruire case, accusato senza prove di mancanza di empatia e comprensione umana verso gli arabi. Su AVVENIRE Riccardo Redaelli dà anch'egli per scontato che il giovane arabo sia stato ucciso per vendetta. E ad una vendetta indiscriminata equipara anche la risposta annunciata dal governo israeliano contro il gruppo terroristico Hamas. Dalla condanna di una supposta vendetta trae dunque conclusioni politiche che da quella condanna non seguono affatto: che Israele debba trattare anche con un governo che include Hamas, astenersi dal difendersi, cedere nei negoziati.
Di seguito, gli articoli:
CORRIERE della SERA - Ala Hlehel : "Incapaci di mostrare dolore se muoioo i figli degli altri"
Ala Hlel
Benjamin Netanyahu dopo il ritrovamento dei tre ragazzi uccisi ha detto: «Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un bambino». I genitori di Hussein Abu Khdeir, il ragazzo palestinese di 16 anni presumibilmente rapito da estremisti ebrei nel quartiere Shu’afat di Gerusalemme Est e il cui corpo è stato ritrovato bruciato nella foresta Dir Yassin, potrebbero dire la stessa cosa. Unità dei popoli. Questo conflitto ha mietuto un’infinità di vittime fra i bambini, in particolare fra bambini palestinesi. Durante l’operazione Piombo Fuso, a Gaza, centinaia di bambini e neonati morirono colpiti dalle bombe lanciate dall’aviazione israeliana. Ma quelle morti non fecero breccia nel cuore degli israeliani. Molti di loro applaudirono e chiesero di «radere al suolo la Striscia di Gaza». Questa espressione, «radere al suolo», è diventata di prassi in sanguinosi periodi di crisi. Significa distruggere qualunque cosa: case, ospedali, scuole, edifici governativi, parchi, strade. Che i palestinesi spariscano e ci lascino in pace… Il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi indicano alla maggior parte degli israeliani che la pretesa di «radere al suolo» è la via giusta. Anche quando la parlamentare Hanin Zoabi, in un’intervista a un giornale, cerca di inserire il rapimento in un contesto più ampio, lei stessa diventa vittima della pretesa di «radere al suolo», di «annientare». L’ex primo ministro Barak una volta ha detto che se fosse stato palestinese si sarebbe unito a Hamas. Molti ex capi dei servizi di sicurezza israeliani esortano a un dialogo diretto con Hamas ma, per l’appunto, sono «ex», che cosa capiscono degli arabi? Fin dal primo momento in cui ha avuto notizia del rapimento, Netanyahu ha cominciato a sfruttare la tragedia: nella sua prima dichiarazione già additava Hamas come obiettivo da «annientare» e definiva il governo di unità palestinese «Satana». La cosa più preoccupante nella situazione caotica in cui ci troviamo è il disconoscimento dell’umanità dai palestinesi. I barbari che ieri notte a Gerusalemme cercavano arabi da picchiare e umiliare seguono la strada segnata dai ministri Bennett e Lieberman. Come arabo, palestinese e cittadino israeliano seguo il deterioramento del dialogo politico in Israele e ho paura. Una paura che nasce da un razzismo istituzionale e pubblico sempre più radicato. Ho paura per il futuro dei miei figli e temo vari orribili scenari. Il conflitto non è più uno scontro politico in cui esistono prese di posizioni diverse. L’opinione pubblica sionista non tollera più la solidarietà con le vittime «dell’altra parte» ma pretende che l’identificazione e la solidarietà siano solo ed esclusivamente con «le nostre vittime». Sono sicuro che la stragrande maggioranza del popolo palestinese non abbia gioito per l’uccisione di tre ragazzi, sebbene non sia neppure in lutto. Negli ultimi tempi noto un atteggiamento di crescente apatia maturato all’ombra della cattiveria che sta prendendo il sopravvento sul Paese. Un’apatia che entrambe le parti mostrano verso il dolore dell’altra. Eppure, per quanto mi riguarda, non c’è simmetria né somiglianze tra le due. È la parte forte, per definizione, a dettare i toni, l’azione e il dialogo. Israele potrebbe compiere una rivoluzione in questo senso. Se rinunciasse a uccidere, a espropriare terre, a compiere raid in migliaia di case, la tragedia umana delle madri dei tre ragazzi potrebbe suscitare l’empatia dei palestinesi. Ma come può un popolo calpestato e umiliato provare un sentimento simile? Sarebbe assurdo. E l’aspettativa dei leader della destra al governo della nazione che i palestinesi mostrino empatia e pietà è insensata e ipocrita. La solidarietà non è un valore assoluto e indiscusso. La solidarietà implica un comportamento e un approccio umano da parte di tutti. Gli israeliani condannano ogni atto di violenza dei palestinesi mirato a ottenere la libertà ma esaltano le azioni terroristiche del Lehi e dell’Irgun (due gruppi terroristi sionisti n.d.t) durante il mandato britannico. Questo è sdoppiamento della personalità. Il sentimento della pietà deve essere comune a entrambe le parti ma esser presente soprattutto nel più forte. Se il più forte rifiuta di mostrarsi compassionevole non si sorprenda allora che l’altra parte faccia altrettanto. Uno dei più grandi successi di Israele è la creazione di una realtà sdoppiata fino all’assurdo: da un lato l’esistenza di un Paese con meccanismi democratici all’interno della Linea Verde, dall’altro la presenza di un’aggressiva forza di occupazione al di là di quella linea. Gli ebrei in Israele non pagano ormai più alcun prezzo per l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza e non c’è ragione che questa situazione li preoccupi. Territori occupati? Non fate ridere gli spettatori di Channel 2. L’illusione di normalità soffoca ogni tentativo di risvegliare la coscienza pubblica israeliana circa le ingiustizie dell’occupazione e così le organizzazioni per i diritti umani e i pochi membri della Knesset (per lo più arabi) che ancora insistono a parlare dell’occupazione sono diventati una sorta di strane e noiose creature che non permettono al pubblico di godere dei piaceri della bella vita israeliana. Nonostante le divergenze politiche e l’intorpidimento dei sensi che incombe su tutti noi, le immagini dei ragazzi rapiti e uccisi non ci abbandonano. Come padre di due bambini provo rabbia, ansia e un grande senso di tristezza al solo pensiero che qualcuno si azzardi a fare una cosa del genere a mio figlio: sentimenti universali e comuni a tutti i genitori di tutto il mondo. Il vero aspetto triste della nostra realtà è l’incapacità di separare questo sentimento dalla realtà politica. E di questo do la colpa a Israele e all’occupazione.
AVVENIRE- Riccardo Redaelli: " La logica perdente della vendetta"
Riccardo Redaelli
Ma quanto tempo è trascorso da quell'incredibile, emozionante pomeriggio nei giardini vaticani? Sono secoli o solo una manciata di settimane, da quando cristiani, ebrei e musulmani si sono ritrovati a pregare per la pace in Medio Oriente? Guardando la Terra Santa di nuovo nel sangue, attoniti dinanzi le bare di tre ragazzi rapiti e uccisi con la sola colpa di essere ebrei e israeliani o davanti al corpo di un giovane palestinese ammazzato per iniziare a pareggiare i conti (e altri cadaveri seguiranno) viene da chiedersi che cosa resta di quel sogno coraggioso e persino temerario di Papa Francesco, di quell'invito a pregare per la pace... Qualcuno di certo si convincerà, una volta di più, dell'inutilità della preghiera nel mondo contemporaneo. E concluderà che, va bene l'utopia, ma insomma pensare di risolvere i problemi geopolitici pregando il Dio di Abramo è troppo anche per un Papa. Non è così. II sangue, l'odio sparso a piene mani, la rabbia cieca che trasforma gli esseri umani in carnefici crudeli ci dicono che, sì, la strada giusta è proprio quella indicata e offerta da Francesco, che il Medio Oriente non ha futuro senza una trasformazione del cuore, senza la comprensione che l'odio in cambio dell'odio porta a un vicolo cieco e che la logica del taglione non è giustizia, ma solo brutale faida tribale. II Papa aveva esortato tutti noi a divenire "artigiani della pace", costruendo giorno per giorno un percorso di pacificazione. In queste ore, al contrario, sembrano operare soprattutto dei tetri "signori della guerra", i quali hanno rilanciato le violenze fra israeliani e palestinesi in un momento politico molto particolare. Lo scorso mese di giugno si è infatti formato il nuovo governo dell'Autorità nazionale palestinese, che ha permesso di ricucire il lungo strappo fra le due principali componenti politiche, i moderati di al-Fatah e i radicali di Hamas. Una divisione che aveva portato a scontri fratricidi durati anni e aveva contribuito all'ulteriore indebolimento della rappresentanza politica palestinese e del processo di pace. Con il governo di "consenso nazionale", com'è stato chiamato, la frammentata dirigenza palestinese cerca di chiudere quella ferita e di riproporsi in modo unitario al tavolo delle trattative. Certo, non una scelta facile, dato che la radicalità e l'ambiguità di Hamas possono evidentemente porre dei problemi. Eppure, allo stesso tempo, appaiono evidenti i possibili risvolti positivi, nel senso che questa esperienza potrebbe moderare il pensiero e gli atteggiamenti degli islamisti palestinesi. Il governo israeliano - che, a sua volta, non abbonda certo di moderazione - ha reagito all'inclusione di Hamas con una negatività considerata eccessiva finanche dall'amministrazione Obama. Subito dopo sono arrivati i rapimenti e le uccisioni. Che fanno il gioco di chi, in entrambi gli schieramenti, sparge fanatismo e odio identitario, nel tentativo di bruciare anche gli ultimi, malandati ponti fra i due popoli. Diviene allora cruciale resistere alla logica della vendetta e della ritorsione. Vendetta promessa dal premier israeliano, Bibi Netanyahu, che rischia di infliggere agli abitanti della striscia di Gaza l'ennesimo diluvio di fuoco. E a cui ha subito fatto da controcanto Hamas, che minaccia attacchi indiscriminati contro la popolazione israeliana se dovessero scattare i bombardamenti. Quelle morti chiedono giustizia, certo. Ma non giustizia sommaria. E men che meno faide, condotte con le armi di cui ognuno dispone. Costruire la pace significa al contrario sapersi fare carico del dolore e della rabbia. Andando oltre i semplici ma illusori meccanismi del potere e dello scontro: uccidere tre, cinque o dieci civili israeliani non distruggerà Israele. Né lo farà diventare più sicuro la morte di decine o persino centinaia di palestinesi sotto le bombe. Sono logiche perdenti, come dimostra la storia di questi decenni. Come perdente è brandire il nome di Dio per maledire l'altro, anziché chiedere la forza per capirlo e accettarlo
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