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La Stampa - L'Unità - Il Manifesto Rassegna Stampa
02.07.2014 Dedicato a Eyal, Gilad e Naftali: le critiche
a Roberto Toscano, il quotidiano del Pd, Tommaso Di Francesco

Testata:La Stampa - L'Unità - Il Manifesto
Autore: Roberto Toscano - la redazione - Tommaso Di Francesco
Titolo: «Israele-Palestina, il mondo si mobiliti contro il terrorismo - Israele può sconfiggere Hamas ma rischia il precipizio jihadista - La condizione palestinese»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, a pag. 29, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo "Israele-Palestina, il mondo si mobiliti contro il terrorismo", dall' UNITA',  a pag. 11, l'articolo dal titolo "Israele può sconfiggere Hamas ma rischia il precipizio jihadista", dal MANIFESTO a pagg. 1-9 l'articolo di Tommaso Di Francesco dal titolo "La condizione palestinese".


Eyal Yfrach, Gilad Shaar e Naftali Frenkel

Sulla STAMPA, l'articolo di Roberto Toscano allinea, nella sua prima parte, l'intera serie degli stereotipi della disinformazione antisraeliana: "
un’occupazione che dura dal 1967, gli insediamenti di coloni israeliani nei territori occupati, i posti di blocco, gli espropri di terreni" e, alla base di tutto, la necessità di una "soluzione a due stati" senza la quale Israele cesserebbe di essere uno Stato democratico.
Nella seconda parte dell'articolo, invece, Toscano sostiene che, di fronte al rapimento e all'omicidio di Eyal, Gilad e Naftali, tutte queste considerazioni dovrebbero essere messe da parte e che il terrorismo dovrebbe essere condannato incondizionatamente. Se la pensa così, perché le ha anteposte a questa conclusione ? Forse Toscano risente ancora del periodo in cui è stato ambasciatore in Iran, sia nella sua fondamentale ostilità a Israele, sia nella propensione  a dissimularla in articoli contraddittori ed elusivi.
Sono il terrorismo e l'obbiettivo della distruzione di Israele che i terroristi  perseguono ad avere reso impraticabile la soluzione a due Stati prospettata da Toscano. 

Che Israele abbia nella trattativa con l'Anp, e forse persino con Hamas l'unica opportunità di evitare di trovarsi a dover affrontare forze jihadiste ancora più radicali, come l'Isis, è  la tesi sostenuta dall'analisi, non firmata, dell' UNITA' . Dimenticando che Hamas, organizzazione - terroristica anche per Usa e Ue - che vuole distruggere Israele e sterminare gli ebrei,  non  può certo essere definita una forza  "moderata".
Segnaliamo poi un incredibile passaggio nella quale l'ipotesi che Israele decida un'operazione per distruggere questa organizzazione viene definita la "
soluzione finale", equiparando la lotta al terrorismo alla Shoah.

La tesi generale dell'editoriale di Tommaso Di Francesco pubblicato dal MANIFESTO è che l'omicidio di Eyal Yfrach, Naftali Frenkel e Gilad Shaar  sarebbe il risultato, come altri crimini del terrorismo, della "condizione palestinese". E' vero esattamente in contrario: i problemi dei palestinesi, al netto delle esagerazioni e delle menzogne della propaganda, derivano dal terrorismo. A dover "tacere" di fronte alla tragedia non sono pertanto, come sostiene Di Francesco, coloro che non si dedicano a sufficienza alla propaganda antisraeliana, ma coloro che legittimano e sostengono i terroristi.
Non vi è dubbio che Di Francesco appartenga al novero di questi ultimi. Lo rivela in particolare un passaggio all'inizio dell'articolo, dal quale si evince che per l'editorialista del quotidiano comunista, l'omicidio degli israeliani può essere condannabile, ma il sequestro, soprattutto se compiuto con lo scopo di ottenere la liberazione di terroristi, va benissimo. Scrive Di Francesco 
"Mai avremmo voluto commentare questo risultato del rapimento. Si poteva perfino ipotizzare un nuovo caso Shalit, un rapimento per uno scambio di prigionieri, quei «rapiti palestinesi» di cui nessuno parla. Invece è accaduto un delitto odioso che ci ferisce". non poteva". 

Di seguito, gli articoli:


LA STAMPA - Roberto Toscano: "Israele-Palestina, il mondo si mobiliti contro il terrorismo"


Roberto Toscano

È del tutto legittimo, anzi inevitabile, chiedersi con enorme preoccupazione – come fanno da ieri tutti i commentatori – quali saranno le ripercussioni dell’uccisione dei tre ragazzi israeliani rapiti. Le inevitabili rappresaglie, il riaccendersi della violenza generalizzata nei territori occupati, la crisi dell’Autorità palestinese, che non si vede come potrà mantenere l’alleanza con Hamas, ai cui militanti gli israeliani attribuiscono la responsabilità del crimine - quella Hamas che non ha rivendicato il rapimento, ma uno dei cui dirigenti ha detto «sia benedetto chi lo ha fatto».
Legittimo anche affrontare il contesto politico in cui questa tragedia è avvenuta. Un’occupazione che dura dal 1967, gli insediamenti di coloni israeliani nei territori occupati, i posti di blocco, gli espropri di terreni. Alla base di tutto, l’insostenibile pretesa dei governi israeliani di eludere un fatto centrale: Israele non può essere nello stesso tempo grande, democratico ed ebraico. Se grande e democratico, non sarà – alla luce delle dinamiche demografiche – ebraico. Se grande (con il mantenimento dei territori occupati) ed ebraico dovrà escludere la popolazione palestinese dai diritti democratici, a meno di non voler mettere in atto la loro espulsione. Resta solo, come sottolineano i democratici e i pacifisti israeliani, arrivare finalmente ad un’intesa per una soluzione basata sull’esistenza di due Stati.
In parallelo, gli errori e le debolezze dei moderati palestinesi e l’incapacità politica dei radicali di riconoscere il diritto di Israele all’esistenza ed abbandonare la via violenta, nonostante si tratti con ogni evidenza di un cammino ancora meno promettente della difficilissima via del compromesso. Va aggiunto che l’unica possibile finalità di questo crimine assurdo è mettere Abu Mazen in una situazione insostenibile e minarne irreversibilmente la leadership. Invece di un episodio di lotta contro l’occupazione israeliana sembra cioè trattarsi di un ennesimo caso di lotta fra le fazioni palestinesi.
Oggi però ci sembra che sia indispensabile un diverso tipo di riflessione, una diversa presa di posizione sia politica che morale. Di fronte ai cadaveri di tre ragazzi, rapiti e poi trucidati, ci sembra anzi quasi indecente mettere l’accento su motivazioni, contesti, storia e questioni territoriali.
Dovremmo invece essere in grado, quale che siano le nostre opinioni sulla tragedia palestinese (che è anche una tragedia israeliana), di dire che Eyal, Gilad e Naftali non dovevano essere rapiti e uccisi, e che il farlo è stato un crimine che non possiamo in nessun caso giustificare.
Ci rendiamo certo conto del fatto che è impossibile eliminare tutti i conflitti, che la pace è un’aspirazione da tenere viva, ma che sarebbe utopico immaginare di realizzare a pieno. Ma possiamo invece bandire politicamente, moralmente e anche dal punto di vista del diritto internazionale, i mezzi più inumani del conflitto: il genocidio, il terrorismo, la tortura.
Dobbiamo farlo, se non vogliamo che i crimini degli uni vengano presi a giustificazione di quelli degli altri, producendo così un allineamento verso il basso, verso una convergente barbarie. E’ purtroppo quello che sta succedendo. Dopo l’11 settembre – un atto terrorista che ha prodotto la morte di tremila persone – in America molti, troppi, hanno giustificato l’uso della tortura per sconfiggere il terrorismo.
Per quanto riguarda il terrorismo ci sono addirittura difficoltà per raggiungerne una definizione a livello internazionale, dato che si cerca ancora, con una palese assurdità logica, «esentare» alcune cause dalla definizione, e quindi dalla condanna. Una convenzione sul terrorismo approvata vari anni fa dall’Organizzazione della conferenza islamica – Oic, dopo avere definito correttamente il terrorismo come violenza armata contro i civili, aggiunge: «… tuttavia, la lotta di liberazione nazionale non è terrorismo». Chi avrebbe il coraggio di aggiungere alla Convenzione contro il genocidio un articolo così concepito: «… tuttavia la lotta di liberazione nazionale non è genocidio?».
Vengono anche in mente i neo-con americani, secondo cui il waterboarding (tortura dell’acqua praticata ai tempi dell’Inquisizione spagnola) non è tortura, ed è del tutto legittima nei confronti degli appartenenti a organizzazioni terroriste.
Continueremo a dividerci sulle ragioni dei conflitti, sulle cause contrapposte di chi combatte, ma senza dimenticare che non solo il fine non giustifica i mezzi, ma che certi mezzi finiscono per squalificare le finalità perseguite.
Qualche anno fa un giornalista olandese simpatizzante della causa palestinese si recò nei territori occupati per intervistare le famiglie degli shahid, terroristi suicidi. Con grande solidarietà, con grande comprensione, ma ad un certo punto del suo pezzo scrisse: «Tuttavia improvvisamente mi sono ricordato che mio padre era un combattente nella resistenza olandese contro i nazisti. Lui non avrebbe mai messo una bomba su un autobus». 

L'UNITA' - Israele può sconfiggere Hamas ma rischia il precipizio jihadista




Mai come in questo momento, dopo il barbaro assassinio dei tre ragazzi israeliani, la partita militare e quella politico-diplomatica sono tra loro strettamente intrecciate nell'eterno conflitto israelo-palestinese. II primo a comprenderlo è Benjamin Netanyahu. Nella drammatica riunione del Gabinetto di governo successiva alla notizia del ritrovamento dei cadaveri di Eyal, Gilad e Naftali, il primo ministro israeliano ha dovuto frenare i falchi del suo esecutivo che richiedevano una immediata, devastante, operazione militare contro i terroristi di Hamas: la soluzione finale. Netanyahu ha frenato. Non perché si sia scoperto «colomba» ma per calcolo politico. Nei giorni della formazione del governo di riconciliazione nazionale palestinese, il governo Fatah-Hamas, il premier israeliano aveva ammonito la comunità internazionale a non dare aperture di credito ad un esecutivo che inglobava una «formazione terroristica», Hamas per l'appunto. Ma l'avvertimento di Netanyahu era caduto nel vuoto. A Washington come nelle più influenti cancellerie europee, per non parlare delle capitali arabe.   Tutti, con diverse gradazioni ma senza eccezioni, avevano manifestato la disponibilità a verificarlo nei fatti, un governo palestinese garantito dal presidente moderato, unico interlocutore su piazza: Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ora Io scenario è totalmente cambiato. Stravolto. Prim'ancora che una (spregevole) azione contro Israele, l'uccisione dei tre ragazzi è un colpo mortale inflitto alla residua credibilità di Abu Mazen. Il sequestro è avvenuto in quella Cisgiordania che avrebbe dovuto essere controllata dai servizi dell'Autorità Palestinese, un'area dove, sulla carta, Abu Mazen e Fatah potevano contare su un maggiore sostegno, e controllo del territorio, rispetto ad Hamas. Sulla carta. Perché nella realtà è da tempo ormai che Fatah ha perso terreno, nei campi profughi della West Bank come nelle università cisgiordane. Quanto poi all'efficienza dei servizi dell'Anp, questa è sempre stata vicino allo zero. Abu Mazen non è capace neanche di controllare il giardino di casa sua, come potete credere che possa farsi garante di un corn-promesso con noi? Questo è il messaggio lanciato da Netanyahu ai leader mondiali in queste tragiche ore. Certo, la politica unilaterale portata avanti da Tel Aviv, in particolare il rilancio in grande stile della colonizzazione dei Territori, ha contribuito e non poco a depotenziare la già malmessa linea del dialogo perseguita dalla leadership di Ramallah. Ma resta il fatto che non solo agli occhi d'Israele, Abu Mazen si sia rivelato ancor meno di un'«anatra zoppa». La tragedia è che all'orizzonte non si intravede la figura di un leader forte, riconosciuto, capace di riuscire laddove tutti i suoi predecessori (compreso Yasser Arafat) hanno fallito. Il vuoto lasciato da una leadership debole, priva di carisma, viene ora colmato da figure che agiscono nell'ombra, dentro e fuori la Palestina. Da questo punto di vista, l'assassinio di Eyal, Gilad, Naftali, è anche uno smacco della leadership politica di Hamas. Perché, se la politica ha ancora una logica, in questo momento di tutto avevano bisogno i capi politici di Hamas - da Khaled Meshaal a Ismail Haniyeh - meno che di un crimine così efferato, che fa saltare il tentativo di essere «sdoganati» dalla diplomazia internazionale. Ma questo elemento apre uno scenario per certi versi ancor più inquietante, non solo per Israele ma per l'intero scenario mediorientale. Uno scenario terremotato dall'avanzata di Isil in Iraq e dalla costituzione del «Califfato islamico» sulla dorsale Mosul-Aleppo. L'assassinio dei tre adolescenti israeliani potrebbe voler dire che cellule salafite, jihadiste o gaediste, «dormienti» in Palestina hanno avuto l'ordine di uscire allo scoperto, di agire, anche in sintonia, ideologico-operativa, con le parti più radicali delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas. Secondo recenti rapporti di intelligence occidentali, in Cisgiordania sarebbero presenti almeno un centinaio di cellule jihadiste. Un numero che si triplica nella Striscia di Gaza. Ciò che è avvenuto dimostra che quella compattezza nella catena di comando che aveva per lungo tempo contrassegnato l'agire di Hamas, è venuta meno. Oggi, lo scontro non è più quello, come fu in passato, tra la diligenza di Gaza e quella all'estero: lo scontro è interno alle varie anime di Hamas, ed ora trova protagonisti altri attori, mentre la vecchia guardia si scopre orfana dei suoi sponsor storici nell'infido Medio Oriente: quei Fratelli musulmani egiziani spazzati via dalla controrivoluzione del generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi. Fallita la via diplomatica, quella che sembra emergere è una «Terza intifada» eterodiretta, destinata a fare della «causa palestinese» un tassello di un disegno regionale che mira a ridisegnare non solo gli equilibri ma addirittura i confini statuali dell'intero Medio Oriente. Un nemico di questo genere, bene armato, pieno di soldi, privo di scrupoli, è ancor più difficile da combattere e da sconfiggere anche per uno dei più agguerriti, e meglio addestrati, eserciti al mondo: Tsahal. Chi governa oggi in Israele lo sa bene. Per questo Netanyahu può vincere una battaglia - contro Hamas - ma perdere la guerra col nuovo Nemico: la piovra jihadista dai mille tentacoli. Se vista in questa luce, quella che si sta consumando in Terra Santa è una tragedia dove non ci sono vincitori Ma solo sconfitti. Israeliani e Palestinesi. E noi con loro.

IL MANIFESTO - Tommaso Di Francesco - La condizione palestinese


Tommaso Di Francesco

 No, la pietà laica, quella verso ogni debole e vinto non può morire. L'uccisione dei tre ragazzi ebrei rapiti presso Hebron - Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel - non solo è condannabile, ma ci riempie di tristezza. Mai avremmo voluto commentare questo risultato del rapimento. Si poteva perfino ipotizzare un nuovo caso Shalit, un rapimento per uno scambio di prigionieri, quei «rapiti palestinesi» di cui nessuno parla. Invece è accaduto un delitto odioso che ci ferisce, che non onora la causa palestinese che questo giornale ha sempre difeso e difende, anche come ragione della pace per due popoli e garanzia di sicurezza per tutto il Medio Oriente. Tantopiù che questo drammatico avvenimento mette in discussione in modo definitivo quell' unità nazionale faticosamente raggiunta, Fatah-Hamas, così osteggiata dal governo israeliano Dovrebbero invece tacere tutti quelli che (media, governi, organismi internazionali) o tacciono il conflitto israelo-palestinese o hanno in generale dimenticato, se non cancellato, la stessa esistenza della questione palestinese. Sono decine e decine i giovani palestinesi uccisi quest'anno, il cui sorriso da adolescenti vale la stessa appassionata innocenza del volto dei tre ragazzi ebrei assassinati. Eppure, chi non ha mai nominato quella sequenza di nomi arabo-palestinesi, oggi si ammanta di indignazione retrodatata, magari propiziando la vendetta di Israele, la punizione collettiva e le rappresaglie militari durissime che si annunciano. E che non a caso preoccupano, almeno a parole, invece Barack Obama, che ammonisce il governo Netanyahu pronto alla vendetta: «Attenti però, non roviniamo tutto». Quello stesso Netanyahu che solo poche ore prima del rinvenimento dei corpi, ha avviato indisturbato e senza scandalo la costruzione di un nuovo Muro, dalla Valle del Giordano al Golan occupato, una nuova barriera di cemento per i diritti negati del popolo palestinese. Ecco il punto. Se dietro il sipario mediorientale di morte e sopraffazione si vuole nascondere a tutti i costi la condizione umana degli occupati palestinesi, ecco che lo sguardo non può che limitarsi alla sola scena dell'ultimo delitto, quella dei tre giovani israeliani rapiti e uccisi. Se solo si intravede invece l'orizzonte reale di rovine della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, la scena appare nella sua reale barbarie. Muri di separazione, check point militari ai quali si consuma il tempo di chi deve muoversi per vivere, cioè di tutti, migliaia di detenuti politici spesso - in sciopero della fame che nessuno ha mai voluto raccontare, milioni di profughi maltrattati in ogni luogo di fuga, che non hanno più il diritto di tornare in patria e colonie - che ci fa ad Hebron un insediamento dove gli integralisti religiosi ebrei scrivono sui muri «gas agli arabi» tanto da far dire allo'scrittore Amos Oz che «sono nazisti'? Tante colonie trasformate in avamposti militari dell'esercito israeliano. Così tante che la loro ragnatela di fatto impedisce ormai la continuità territoriale di quello che un tempo era rivendicato come Stato di Palestina. Questa è la condizione dei palestinesi. Vivono in milioni sotto una dura occupazione militare, in casa loro ma da profughi. Dal 1967 due risoluzioni delle Nazioni unite chiedono ai governi israeliani di ritirarsi. Ma la richiesta non solo non riceve risposta, Israele ha allargato in questi decenni il suo controllo anche attraverso migliaia di nuovi insediamenti che ogni esecutivo ha esteso, militarmente, a piacimento. È  l'abbandono di questa decisiva tematica a far si che la barbarie chiami la barbarie. Bombardamenti, piombi fusi, rappresaglie, tante e nuove stragi da Sabra e Chatila a Jenin, morti oscure di leader come Arafat. E stavolta non ci sarà più la lotta alla luce del sole, come fu per la prima e la seconda intifada. È troppo grande la sconfitta e l'umiliazione dovuta ormai per l'impossibilità dello Stato Palestinese, da essere profondamente introiettata anche dalle giovani generazioni. Che vivono sospese tra corruzione dilagante favorita da ingenti finanziamenti occidentali arrivati per tacitare la protesta e le legittime aspirazioni e la violenza degli occupanti che lasceranno i Territori occupati nel limbo dei presidi militari, senza nemmeno annettere quelle tragiche conquiste. Forse la questione palestinese per come l'abbiamo conosciuta e sostenuta non esiste più. E Israele può perfino gridare vittoria e colpire Hamas deportandone, come annuncia, i militanti nell'inferno di Gaza. Attenti però, Hamas vinse nel 2006 le elezioni poltiche non solo nella Striscia ma anche in tutta la Cisgiordania. Soprattutto, c'è un esempio che desta più di un timore. I miliziani jihadisti dell'Isil che avanzono tra ali di folla plaudente dalla Siria in Iraq, sono spesso giovanissimi di nemmeno venti anni che erano bambini quando gli Stati uniti di George W. Bush scatenarono, con crimini rimasti impuniti, la loro guerra. Erano ancora bambini quando gli americani bombardavano al fosforo bianco Falluja e si divertivano nelle prigioni di Abu Ghraib. La questione palestinese, abbandonata a se stessa, rischia di materializzare solo odio a quel punto finalizzato in una «prospettiva» altrettanto integralista. Sarebbe una sconfitta per tutti.

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