Dedicato a Eyal, Gilad e Naftali: i commenti di Maurizio Molinari, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Israel Hasson, David Grossman
Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio - Libero - La Repubblica Autore: Maurizio Molinari - Pierluigi Battista - Benny Morris - Giuliano Ferrara - Michael Sfaradi - Fabio Scuto Titolo: «Nella sala di comando di Tsahal - Quell'odio che acceca - Lo Stato ebraico circondato da nuovi muri - Le unghie e i denti per difendersi - 'La Pazienza è finita' - 'Per combattere il terrorismo bisogna sostenere Abu Mazen '»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi 02/07/2014, a pag.12, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Nella sala di comando di Tsahal 'Sappiamo ogni mossa di Hamas' ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 10, l'articolo di Pierluigi Battista dal titolo "Quell'odio che acceca nel nome dell'antisionismo" e a pag. 11 l'articolo di Benny Morris dal titolo "Lo Stato ebraico circondato da nuovi muri Ma può sperare negli amici regionali" Dal FOGLIO a pa. 1 l'articolo di Giuliano Ferrara dal titolo "Le unghie e i denti per difendersi". Da LIBERO a pag. 16 l'intervista di Michael Sfaradi al deputato di Kadima ed ex vicecapo dei servizi di sicurezza israeliani Israel Hasson dal titolo "Uccisi 'La Pazienza è finita. Se non cambiano rotta elimineremo Hamas". Da REPUBBLICA a pag. 13 l'intervista di Fabio Scuto a David Grossman dal titolo "Per combattere il terrorismo bisogna sostenere Abu Mazen".
Soldati israeliani di pattuglia ad Halhul, il villaggio dove sono stati ritrovati i corpi di Eyal, Gilad e Naftali
Di seguito, gli articoli:
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Nella sala di comando di Tsahal 'Sappiamo ogni mossa di Hamas' "
Maurizio Molinari
In una sala che misura quattro metri per tre c’è il comando delle operazioni militari di Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza. Siamo nella base di Re’im, creata all’indomani del ritiro israeliano da Gaza nel 2007 come nuova sede delle truppe responsabili dell’area e dall’inizio dell’operazione «Brother’s Keeper» trasformata nella cabina di regia della difesa delle comunità del Negev bersagliate da un lancio di razzi sempre più fitto. E ora al centro della caccia ai killer dei tre ragazzi uccisi a Hebron. A comandarla è un ufficiale trentenne, veterano di operazioni coperte da censura militare e il cui nome è anche top secret. Fisico asciutto, occhi piccoli e neri, inglese perfetto e ottima conoscenza della galassia jihadista, il comandante siede su una poltrona di finta pelle, davanti a una scrivania di legno rovinato e ha in mano una penna luminosa con la quale ci aiuta a comprendere cosa sta avvenendo a Gaza. La adopera per indicare, su una mappa interattiva che copre un’intera parete, i movimenti delle sei brigate di Hamas. La mappa copre l’intera Striscia, cm per cm. «La sigla dell’accordo di unità nazionale con Abu Mazen conta per i politici, forse, qui siamo militari e crediamo solo a ciò che vediamo», esordisce l’ufficiale, spiegando che la raccolta di informazioni con droni, palloni aerostatici, sensori sul territorio, informatori e infiltrati di ogni tipo consente di «conoscere quasi in tempo reale» cosa avviene dentro la Striscia. «I razzi partono da qui, qui e qui» sottolinea, indicando singole località nel Nord della Striscia, per poi correre con il fascio luminoso più a Sud, lungo il confine con il Negev per spiegare che «questa è l’area dei tunnel», creati a ripetizione da Hamas per mettere a segno rapimenti come quello di Gilad Shalit, «perché il loro obiettivo è ottenere in cambio dei sequestrati i detenuti palestinesi nelle nostre prigioni». L’escalation di violenze avvenuta negli ultimi, drammatici, 18 giorni, non lo sorprende. Ufficiali israeliani a Tel Aviv osservano che «il sequestro dei tre ragazzi israeliani ha galvanizzato Hamas a Gaza, spingendola a rafforzare un secondo fronte di attrito contro Israele, lanciando oltre 40 razzi negli ultimi 18 giorni». La risposta dell’esercito dello Stato ebraico arriva con raid aerei e attacchi di droni: l’intensità è crescente e le ripetute indiscrezioni sugli ordigni assegnati ai reparti corazzati di schierarsi a ridosso dei confini lascia intendere che un’escalation è possibile. È lo stesso premier Benjamin Netanyahu che lo ha confermato quando ieri sera, dopo il termine dei funerali a Modiin, ha dichiarato: «Indeboliremo Hamas nella West Bank e porremo fine al lancio di razzi da Gaza, se necessario espanderemo ulteriormente le nostre operazioni». Si tratta insomma di un’operazione su due fronti, che va ben oltre la caccia ai due sospetti sequestratori che - secondo alcune fonti arabe - potrebbero essere già all’estero. In Giordania, o forse in Egitto. Ascoltate dalla base di Re’im le parole del premier portano a chiedersi cosa significa «espandere le operazioni». È una domanda a cui nessun militare è autorizzato a rispondere ma il comandante della base parla di «novità osservate di recente nei ranghi di Hamas». Ecco di cosa si tratta: «Stanno addestrando una sorta di commandos anfibi, si preparano a tentare operazioni di sabotaggio o terrorismo operando dal mare». Ciò significa che l’importanza della Marina per la difesa di Israele aumenta. Per il capo delle operazioni di Re’im tuttavia navi e marinai sono solo un tassello di attività più estese: se Hamas addestra commandos marini «dobbiamo essere pronti a combatterli» nelle acque al confine fra Israele e Striscia di Gaza. Sono le avvisaglie di una sfida destinata a intensificarsi anche perché gli ufficiali di Re’im non credono nei lanci di razzi da parte di gruppi salafiti rivali di Hamas: «Non è vero nulla, i comandi di Hamas mantengono un saldo controllo del territorio, se la Jihad islamica o i salafiti lanciano razzi è perché glielo lasciano fare». E in questo perdurante controllo militare della Striscia c’è anche un messaggio per l’Autorità palestinese di Abu Mazen: «A Gaza il controllo delle armi resta nelle mani delle sei brigate armate di Hamas, le uniche che continuano a ricevere gli stipendi anche quando poliziotti e dipendenti comunali restano senza entrate per mesi interi».
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista: "Quell'odio che acceca nel nome dell'antisionismo"
Pierluigi Battista
Scrivi su Twitter che Naftali, Gilad ed Eyal, i tre ragazzi ebrei rapiti e trucidati in terra palestinese, dobbiamo sentirli come i «nostri» ragazzi, soffrire con loro e con le loro famiglie, averne pietà, detestare i terroristi che li hanno martirizzati, scrivi soltanto questo e verrai sommerso da un diluvio di insulti e contumelie. Il più benevolo tratta quei ragazzini di 16 anni come i numeri di un’equivalenza: non un briciolo di pietà che non contempli, simultaneamente, l’orrore per le gesta di padri descritti come orchi con le mani sporche di sangue. Il più accecato e inselvatichito dal fanatismo antisionista equipara tout court quei tre ragazzi agli aguzzini che non meritano compassione. E senti ancora una volta che una dismisura mostruosa colpisce gli ebrei, il sionismo, l’immagine di Israele. Come se un eccesso di violenza polemica ottenebrasse qualunque ragione, e anche qualunque sentimento semplicemente umano. La politica non c’entra. Il giudizio politico si interroga sul perché i terroristi hanno voluto colpire in modo così infame tre adolescenti che amavano studiare i testi religiosi e cantare nelle feste che rinsaldano la coesione della comunità. Il giudizio politico può anche criticare i vertici dello Stato di Israele se non sono capaci di fare una pace stabile con i palestinesi. Il giudizio politico spera che la reazione israeliana non porti altri lutti di innocenti. Il giudizio politico sa che la guerra è sempre una cosa atroce. Ma l’odio forsennato per Israele che non riesce a scolorirsi nemmeno di fronte allo spettacolo di tre ragazzi intenzionalmente annientati solo perché bollati con l’etichetta per gli assassini così repellente di «sionisti» eccede ogni giudizio politico. È fanatismo duro. È la disponibilità ad accogliere ancora la leggenda nera degli «ebrei» condannati a un destino cruento che non considera sfumature, giudizi equilibrati. Come se Israele e il sionismo fossero l’ultima materializzazione del Male assoluto per contrastare il quale non si deve escludere nessun mezzo, anche il più ripugnante. Anche il Terrore. Non la guerra, che colpisce indiscriminatamente. Ma il Terrore che colpisce uno ad uno le sue vittime, tre ragazzi che non stavano facendo nulla di male se non, semplicemente, esistere in una delle terre più incandescenti dell’universo. Il mondo è pieno di tiranni sanguinari, ma nessuno attira una quantità smisurata di odio come Israele, che peraltro non è una tirannia ma una democrazia, eppure viene descritta, senza alcun rispetto per la verità storica, come una congrega di carnefici assetati di sangue palestinese. Quando sono stati rapiti i tre ragazzi (raffigurati come usurpatori violenti di una terra altrui, senza alcuna mediazione), a Roma pattuglie di imbrattatori si sono adoperati per coprire pubblicità israeliane con scritte che deploravano l’essenza «nazista» di Israele. Gruppi di fanatici europei (gli italiani in prima fila in questa classifica della vergogna) partecipavano alla danza macabra che consisteva nel far compiere ai bambini palestinesi gesti con le tre dita che inneggiavano al rapimento dei tre ragazzi, quasi coetanei ma «luridi sionisti»: un sabba di odio e di ignoranza che non è nemmeno giustificato dalla vita degli oppressi, perché è il frutto di uno schematismo ideologico folle e disumano nato qui, non nato nelle terre martoriate. Manipoli di odiatori che non dicono una sola parola sull’oppressione mostruosa che fa sprofondare nella dittatura molti Stati geograficamente contigui ad Israele ma nemici acerrimi del «sionismo» e da sempre nemici di una soluzione politica pacifica per gli israeliani e i palestinesi che contempli la convivenza di due Stati per due popoli. Jorge Semprun la chiamava «emiplegia ideologica»: un modo di vedere doppio che nasconde una parte della realtà per deformarne un’altra. Sono gli odiatori che non vogliono dire una parola di pietà per Naftali, Gilad ed Eyal. Che aggredivano anni fa le manifestazioni per chiedere la liberazione di un altro giovane israeliano, Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da Hamas, e scambiato con un numero elevatissimo di prigionieri palestinesi. Un odio illimitato, aperto, dichiarato, rivendicato. Senza che faccia scandalo, nell’Occidente che piange per La vita è bella o per Schindler’s List , l’orrore di ragazzi ebrei, uccisi perché ebrei, in nome dell’«antisionismo».
CORRIERE della SERA - Benny Morris: "Lo Stato ebraico circondato da nuovi muri Ma può sperare negli amici regionali"
Benny Morris
In questi ultimi mesi, Israele ha visto innalzarsi barriere da ogni lato, che minacciano di accerchiare e isolare lo Stato ebraico. Tre anni fa, l’ondata rivoluzionaria che ha investito il mondo arabo, la cosiddetta Primavera araba, annunciava una soluzione strategica duratura nella regione, con l’indebolimento di Egitto e Siria, le due principali potenze militari arabe che in passato hanno ripetutamente sferrato guerre sanguinose contro Israele. Ma i recenti sviluppi a Washington, in Turchia, Iraq e Siria, come pure nei territori palestinesi (in Cisgiordania e a Gaza) e persino in seno alla minoranza araba di Israele — 1,5 milioni di cittadini su una popolazione di 8 — sembrano tramare per isolare Israele, limitare i suoi spazi di manovra e minacciare il suo futuro. Negli Stati Uniti, il governo americano ha criticato Israele per il fallimento degli ultimi colloqui di pace con i palestinesi. Il presidente Obama non si ripresenterà alle prossime elezioni e pertanto non si preoccupa di ingraziarsi gli elettori ebrei né di rastrellare i loro contributi finanziari alla campagna elettorale. In molti hanno girato le spalle a Israele, abbandonandolo al suo destino. In Turchia, il primo ministro islamista Erdogan — sostenitore di Hamas a Gaza e dei Fratelli Musulmani in Egitto — gode di crescente popolarità e sicuramente si presenterà alle elezioni presidenziali, visto che già si prepara, con riforme legislative mirate, a rafforzare i poteri della presidenza nei prossimi mesi. La potente offensiva lanciata dal movimento sunnita Isis, nemico di Israele, nel nord e nell’ovest dell’Iraq, oltre al crescente predominio di questa organizzazione tra le milizie che combattono contro il regime di Bashar Assad a Damasco, pone chiaramente una seria minaccia a lungo termine per Israele. Sui confini di Israele, i territori palestinesi sono in crescente subbuglio, in seguito alla rottura dei negoziati israelo-palestinesi, che rimandano a un futuro non meglio definito la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese, e dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani in Cisgiordania. A seguito del drammatico evento, risalente a due settimane fa, Israele ha imposto la sua presenza militare nell’area di Hebron, causando la morte di cinque palestinesi nel corso dei setacciamenti alla ricerca dei ragazzi e dei loro sequestratori, arrestando circa 500 militanti (in prevalenza di Hamas). Le truppe israeliane stanno rendendo ancora la vita difficile nei territori, mentre danno la caccia ai rapitori assassini. Tuttavia, c’è ben poco che Israele possa fare nei confronti della leadership di Hamas, la quale si guarda bene dallo scatenare un attacco in grande stile, con il lancio di missili contro Tel Aviv, per non rischiare le ire del governo americano. In Israele, i rappresentanti della minoranza arabo-israeliana potrebbero essere già in rotta di collisione con il governo. Un parlamentare arabo della Knesset, Hanin Zoabi, ha dichiarato di recente che i rapitori e assassini dei tre ragazzi «non sono terroristi». Allo stesso tempo, Netanyahu ha approvato la messa al bando dell’organizzazione islamista arabo-israeliana, notoriamente solidale con Hamas. Se la sua proposta dovesse passare, proteste e scontri di piazza saranno inevitabili. Ma non tutto è perduto. All’orizzonte si profila qualche spiraglio di ottimismo. Innanzitutto, il rovesciamento del regime dei Fratelli Musulmani in Egitto, per opera dell’esercito egiziano, sotto il generale — oggi presidente — Al Sisi. In secondo luogo, la crescente potenza del governo autonomo del Kurdistan nel nord dell’Iraq. Entrambi questi sviluppi contribuiscono a rafforzare la posizione strategica di Israele. Tanto Al Sisi quanto Israele hanno interesse a combattere un nemico comune, i Fratelli Musulmani, i cui leader sono quasi tutti in prigione, e a distruggere il movimento islamista clandestino nella penisola del Sinai. Negli ultimi anni questi islamisti, nascosti tra le tribù beduine della penisola, hanno sferrato attacchi sia contro l’esercito egiziano sia contro bersagli israeliani. Al Sisi inoltre non è amico del regime di Hamas a Gaza, in cui vede il braccio palestinese della Fratellanza. In quanto al Kurdistan iracheno, dove Israele sin dagli anni Sessanta ha appoggiato i ribelli curdi contro il governo centrale di Bagdad, le forze locali hanno allargato la loro zona di influenza — inglobando la città petrolifera di Kirkuk — man mano che le truppe governative si ritirano verso sud sotto l’offensiva di Isis. Ieri Netanyahu, contrariamente alla politica americana, che punta a mantenere uno Stato iracheno unificato, ha espresso senza mezzi termini il sostegno di Israele alla trasformazione della zona autonoma curda in un vero Stato indipendente. (Traduzione di Rita Baldassarre )
Il FOGLIO - Giuliano Ferrara: "Le unghie e i denti per difendersi"
Giuliano Ferrara
La vignetta di Vincino sulla prima pagina del Foglio
Come sempre Adriano Sofri (Repubblica di ieri) l’ha azzeccata, almeno per la metà del ragionamento. Chi non prova dolore per l’assassinio dei tre ragazzi della yeshiva è nei guai con sé stesso, qualunque sia la ragione della mancata pietà. Però, aggiunge, ci sono molte ragioni di contesto che rendono ancora più tragica la circostanza tremenda della strage di umanità e di adolescenza compiuta alle porte di Hebron. E’ vero, quelle ragioni ci sono, ma è ora di togliere confusione politica e morale dal contesto spietato. Il problema non è impedire la vendetta, chiamata con linguaggio sciatto “ritorsione”. Quei tre ragazzi morti ammazzati non entrano nel novero di una generica contabilità delle vittime da una parte e dall’altra. Non c’entrano con le distinzioni tra Anp e Hamas, tra Hamas e Hamas, tra stato unitario plurinazionale come lo sogna il presidente di Israele e logica dei due stati in pace e in sicurezza, non c’entra con i confini del 1948, l’occupazione dei territori, la questione dei profughi e della legge del ritorno. Il contesto è l’islam politico, il califfato ai confini, il mondo occidentale Judenmüde, stanco degli ebrei (come ha detto George Steiner raccontato da Giulio Meotti), lo spirito di resa che spinge alle sue gesta il brigantaggio contro gli inermi, l’attacco alla razza estranea che dopo il gas e i kamikaze subisce i nuovi oltraggi di un’intifada dei tagliagole. Israele è chiamata, vocata, a difendersi. Non è la vendetta. Non è la linea di Netanyahu. Non è aggressività sionista. Difendersi, contrattaccare, riunire le condizioni militari, politiche e diplomatiche per l’annientamento degli annientatori è una dolorosa e costosa necessità nazionale, quando nazione significa qualcosa di più e di diverso da ceppo etnico su territorio definito. Quando significa scelta di campo tra la profezia democratica e occidentale di Israele e l’uso violento del nome di Dio da parte dei suoi nemici. Che ormai da molto tempo, se mai lo siano stati, non sono più neanche all’apparenza nemici territoriali, soggetti di una contesa postcoloniale. Sono un pezzo della umma islamica il cui vero obiettivo, in una situazione prenucleare (l’Iran) e di ripiegamento occidentale post-iracheno, è la Vernichtung, l’eliminazione dell’entità sionista, del popolo e della nazione salvati che hanno nome Israele. Gli scrittori progressisti, le anime buone e belle che non derido, e Sofri per la sua parte, e il Vaticano e chiunque altro esprima la disperata ansia della pace, hanno le loro profondissime ragioni, e la loro opinione o preghiera conta, ha un peso evidente, è una variabile del contesto. Ma il contesto è la sua stessa radice, la verità delle cose. Non la patina ideologica che ad esse si sovrappone. Israele è uno scandalo in senso evangelico, si può cercare di seppellirlo sotto una cortina di formule o renderlo evidente nell’unica logica possibile, quella che illuminò il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. C’è una entità statale o nazione o focolare ebraico. Dopo l’eclissi della ragione occidentale, ad Auschwitz, questa entità testimonia del nostro futuro ancora di più che del passato. O la si difende con le unghie e con i denti, che non sono incompatibili con la consapevolezza e la pietà, ma non si riducono alla dispensazione prudente di inviti a desistere, oppure no, oppure si accetta che la storia accorci la vita dello stato di Israele, che la demografia corroda le sue fondamenta, che la storia politica del mondo commini la sua legge dell’indifferenza e della pace. Niente è insano e moralmente spicciolo, proprio nel contesto ritorsivo delle escalation mediorientali, come la mancata risposta al quesito sulla salvezza dello stato degli ebrei. Un’evasione indifferente al dovere di esprimere ragione e umanità la si rintraccia nella stanchezza che ha convinto la società americana ad affidarsi a un presidente riluttante, l’Europa banchiera a contare sullo spirito degli affari con l’Iran più che sul calcolo del rischio, a far marcire anche il nudo sentimento dell’orrore di fronte ai fatti sulla base di un vittimario universale in cui c’è posto per tutti, per seminaristi ebrei e islamisti del partito palestinese del terrore, per classi dirigenti Anp benintenzionate ed eserciti con la bandiera nera malintenzionati. Il contesto c’è, è tragico e chiama a una scelta se non lo si intenda trasformare in un concorso di colpe o in una aperta complicità. Non è la vendetta che oggi fa paura, ma la strada delle buone intenzioni lungo la quale sono stati rapiti e ammazzati i tre ragazzi della yeshiva.
LIBERO - Michael Sfaradi: "La Pazienza è finita. Se non cambiano rotta elimineremo Hamas"
Michael Sfaradi Israel Hasson
Israel Hasson è stato vicedirettore dello "Shin Bet" i servizi di sicurezza interni. Oggi è deputato alla Knesset per il partito Kadima, ed è considerato un moderato. Onorevole Hasson, che atmosfera si respira degli ambienti politici? «C'è chi vorrebbe superare il momento per poi discutere con più freddezza e c'è chi vorrebbe usare questo momento per cambiare le regole. Personalmente ritengo che noi abbiamo un rapporto con l'ANP e che proprio con loro dobbiamo confrontarci». In che modo? «Se l'ANP vuole essere riconosciuta nel mondo come nazione deve imparare a comportarsi come tale. In tutti questi anni Abu Mazen e i suoi ministri e collaboratori non sono riusciti a legiferare contro il terrorismo e sono cinque anni che non si celebra un processo per terrorismo. Il presidente palestinese non può continuare a nascondersi dietro all'impossibilità di controllo il territorio. Se non ce la fa si dimetta e la smetta di fare il parafulmine». Hamas? «Con Hamas e con le frange terroristiche che a lei fanno capo serve una presa di posizione chiara, sono anni che i razzi lanciati dalla striscia di Gaza colpiscono Israele. Isma'il Haniyeh (il capo di Hamas) ha il controllo della Striscia, e di conseguenza la responsabilità di ciò che accade. Ogni lancio è un attacco diretto a uno Stato sovrano e non esiste nazione al mondo che sopporterebbe quello che ha sopportato Israele negli ultimi anni. Personalmente credo che sia giunto il momento che anche Hamas cominci ad agire nell'interesse del suo popolo, in caso contrario Israele ha il dovere di difendersi». Come? «Colpendo i vertici di Hamas, devono capire che la pazienza è terminata. E se questo non dovesse funzionare, potrebbe iniziare un nuovo "piombo fuso" o "colonna di nuvola"? «Se dovesse essere necessario sì». Il mondo lo capirebbe? «Il mondo non abita a Sderot».
LA REPUBBLICA - Fabio Scuto: "David Grossman: 'Per combattere il terrorismo bisogna sostenere Abu Mazen ' "
David Grossman
MODIN . «È un giorno particolarmente difficile: vedere le bare di tre giovani, pieni di vita, dai volti raggianti, come riflettono le loro fotografie, e pensare che il loro futuro sia stato così crudelmente spezzato, che siano stati così brutalmente assassinati, provoca indignazione ed anche molta tristezza. È un giorno di grande tristezza. Tristezza per loro, ma anche per le migliaia di giovani israeliani e palestinesi, che già da 66 anni perdono la vita in un circolo chiuso di guerra, che non finisce mai. Basta pensare a quello che questi giovani israeliani e palestinesi avrebbero potuto sperimentare nella loro vita, avrebbero potuto creare, produrre e dare come contribuito alla loro società e vedere che tutto ciò è stato strappato loro a causa dell’odio, del fondamentalismo, della totale mancanza di capacità di fare i passi necessari per cambiare la situazione e portare la pace». La voce di David Grossman — lo scrittore israeliano che più incarna la generazione che alla pace non ha mai smesso di credere — tradisce l’emozione di chi ha subìto la scomparsa violenta e precoce di un figlio, l’animo che non riesce a trovare più pace e vive nel dolore dell’assenza. Il dolore uccide la speranza? «La speranza, il desiderio, è che il dolore che la nazione prova in questo momento le faccia capire anche il dolore della parte opposta, che ogni vittima ha genitori, una famiglia, degli amici, che lascia dietro di sé un vuoto terribile, che cambia la vita di tutti coloro che rimangono. Ma la realtà ci mostra che molto spesso le persone che hanno subìto una perdita diventano più estremiste. Il dolore le fa diventare vendicative e, senza che nemmeno se ne accorgano, diventano propagatrici di odio e violenza e provocano ad altri la stessa sofferenza di cui loro stesse sono state vittime». Abu Mazen aveva appena concluso un accordo politico con Hamas. Ora questa tragedia rischia di affondarlo completamente... «Non so se questo sia la fine dell’accordo. A priori non ho mai pensato che Anp e Hamas potessero andare d’accordo, perché i loro obiettivi sono diversi, il loro modo di operare è diverso: il governo di Abu Mazen si è discostato dal terrorismo in maniera totale, lo ha condannato senza mezzi termini e con molto coraggio e umanità, ha condannato il rapimento, dicendo: “È vero, sono coloni, ma sono anche esseri umani”. E credo che sia necessaria grandezza d’animo per dire una cosa del genere. Mentre Hamas non nasconde di volere costruire uno Stato islamico sulle rovine dello Stato d’Israele. Dal mio punto di vista, l’unica via è indebolire Hamas e rafforzare i partigiani della pace. Quanto più Israele rafforzerà Abu Mazen, darà speranza ai palestinesi nella Cisgiordania e quanto più gli abitanti di Gaza vedranno che il fanatismo e l’odio per Israele li sospingono sempre più profondamente nella miseria e nell’infelicità cambieranno: forse all’inizio soltanto per tattica, ma poi capiranno che la strada del dialogo e della pace porterà loro una vita migliore e il soddisfacimento di una parte delle loro aspirazioni e dei loro desideri. Non di tutti, ovviamente. Le stesse cose le dico anche al governo di Israele. In questo momento, mentre stiamo parlando, si sta radunando il gabinetto di sicurezza, che deve decidere quali misure prendere: ci sono proposte molto estremiste, dall’annessione di parte dei Territori occupati fino alla riconquista di Gaza per distruggere le infrastrutture di Hamas. Tutte queste idee alla fino faranno sprofondare noi e i palestinesi in una tragedia ancora più profonda: molte persone vi perderanno la vita e alla fine Israele e i palestinesi si ritroveranno allo stesso punto, in una situazione in cui nessuno dei due è in grado di liberarsi dell’altro e nessuno dei due è in grado di fare la pace». Una strada possibile? «La strada deve essere completamente diversa: ci deve essere il riconoscimento che la violenza non genera altro che una violenza ancora più grande. Temo che Israele reagirà in modo molto duro, poiché questa volta l’impatto è stato molto forte su moltissimi israeliani: se Netanyahu vuole dimostrare oggi di essere un vero leader, deve frenare le forze estremiste e non arrendersi a loro. Se, in ultimo, vi si arrendesse, questa sarebbe anche una resa di fronte al terrorismo: l’obiettivo del terrorismo palestinese è di cancellare ogni possibilità di dialogo fra Israele ed i palestinesi». Per inviare la propria opinione a Stampa, Corriere della Sera, Foglio, Libero e Repubblica , cliccare sulle e-mail sottostanti