mercoledi` 20 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
01.07.2014 Rapiti e Uccisi: i commenti
di Daniel Pipes, Abraham B. Yehoshua, Domenico Quirico, Dimi Reider, Etgar Keret

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Paolo Mastrolilli - Abraham B. Yehoshua - Domenico Quirico - Davide Frattini - Rosalba Castelletti
Titolo: «'Ora Abu Mazen scarichi gli islamisti o sarà travolto' - La pace ora è più lontana - Un oscuro smarrimento - Il dramma ha unito il paese. Il governo non lo usi - In quei tre ragazzi vediamo i nostri figli. Ma niente vendette»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/07/2014, a pag. 2, l'intervista di Paolo Mastrolilli a Daniel Pipes, dal titolo " 'Ora Abu Mazen scarichi gli islamisti o sarà travolto' ", da pagg. 1- 2, l'articolo di Abraham B. Yehoshua dal titolo "La pace ora è più lontana" e, da pagg. 1-27 l'articolo di Domenico Quirico dal titolo "Un oscuro smarrimento".
Dal CORRIERE della SERA, a  pag. 7, l'articolo di Davide Frattini dal titolo "Il dramma ha unito il Paese. Ora il governo non lo usi". Da REPUBBLICA, a pag. 3, l'intervista di Rosalba Castelletti a Etgar Keret dal titolo   "In quei tre ragazzi vediamo i nostri figli. Ma niente vendette".

                             
Eyal Yfrach                                      Gilad Shaar                     Naftali Fraenkel


Di seguito, gli articoli:

 LA STAMPA - Paolo Mastrolilli: "'Ora Abu Mazen scarichi gli islamisti o sarà travolto' "


Paolo Mastolilli


«Abu Mazen ora deve decidere se vuole lavorare con Hamas, o con Israele». Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum ed ex consigliere di George Bush, considera «disastroso» l’omicidio dei tre ragazzi israeliani, ma ritiene che l’Autorità palestinese potrebbe trasformarlo nell’occasione per abbandonare la strategia di collaborazione con l’organizzazione sospettata di aver quanto meno facilitato il rapimento. Una scelta responsabile, che sarebbe ancora più necessaria alla luce delle violenze in corso in tutta la regione.
Quali saranno gli effetti di questi omicidi?
«Israele ora dovrà reagire con forza, e tutto questo indebolirà ancora di più l’Autorità palestinese, che ha commesso l’errore di riavvicinarsi ad Hamas».
Perché lo ha fatto?
«La leadership preferirebbe lavorare con Israele per trovare un’accordo, ma la piazza sta con gli estremisti. Abu Mazen non ha avuto la forza di resistere a queste pressioni, perché non ha una visione di lungo termine».
Il processo di pace è morto?
«Sì, ma la diplomazia non è morta. Se Abu Mazen sfruttasse questa tragedia per rinunciare all’alleanza con Hamas, e decidesse di tornare a lavorare con Israele, il dialogo potrebbe ripartire nell’interesse di tutti».
Le sembra una strada praticabile, considerando che lo Stato ebraico dovrà reagire?
«Non abbiamo la conferma che il rapimento sia stato ordinato o condotto direttamente da Hamas. È possibile che lo abbiano deciso estremisti autonomi, intenzionati a far saltare così la nuova intesa fra questo movimento e l’Autorità palestinese. Abu Mazen quindi può reagire in due maniere diverse: può decidere di non abbandonare Hamas, proprio per non cedere al progetto dei responsabili degli omicidi, oppure può riconoscere il fatto che così si va comunque solo verso la violenza. È chiaro che la seconda strada è l’unica capace di dare una speranza».
La regione è in fiamme, che effetti avrà la reazione israeliana?
«Egitto, Siria, Giordania, Libano hanno tutti problemi più gravi di Hamas a cui pensare. Credo che sapranno separare la reazione israeliana dal resto. L’importante è che Abu Mazen cambi linea».

LA STAMPA - Abraham B. Yehoshua: " La pace ora è più lontana "


Abraham B. Yehoshua

L’uccisione brutale dei tre ragazzi rapiti è una tragedia che allontana la pace ed evidenzia la necessità di un confine chiaro, riconosciuto, fra Israele e Palestina.
La pace è più lontana perché le conseguenze di quanto avvenuto vedranno il governo israeliano di Benjamin Netanyahu tentare di schiacciare Hamas e Hamas scivolare su posizioni sempre più estreme, rintanandosi nell’angolo del terrorismo.
Per chi, come me, aveva creduto, serbato grande speranza, nel governo di unità nazionale palestinese di Abu Mazen, con Fatah e Hamas assieme, è un giorno triste. Credevo che questa intesa a lungo perseguita da Abu Mazen, potesse costituire una svolta e avvicinare la soluzione dei due Stati ma ora questo orizzonte si allontana nel tempo. Anche se, in realtà, sappiamo ancora molto poco di quanto è avvenuto: mancano le informazioni su come sono stati uccisi i tre adolescenti, su chi li ha uccisi e dunque anche certezze sulla matrice politica ovvero se si è trattato di un crimine commesso da Hamas oppure da gruppi isolati di criminali che rispondono solo a se stessi.
Israele ha già vissuto purtroppo, in passato, molte tragedie simili, nel centro di grandi città come Gerusalemme e Tel Aviv, pagando un prezzo di vite molto alto all’assenza di pace. Ma questa tragedia possiede un elemento in più: i tre ragazzi, studenti di scuola religiosa, quando sono stati rapiti si trovavano in un’area che in realtà non appartiene a nessuno ed evidenzia le conseguenze negative dell’assenza di una pace duratura fra Israele e Palestina.
Si tratta infatti dell’Area C della Cisgiordania che, in forza degli accordi siglati a Oslo, si trova in Cisgiordania e in territorio palestinese ma è controllata solo dagli israeliani. Questi tre ragazzi pensavano di trovarsi in Israele ma in realtà erano in Palestina. C’è qualcosa di ancor più drammatico in questa tragedia perché vivere in un luogo pensando che sia un altro è la conseguenza dell’assenza di un confine. Se la frontiera fra Israele e Palestina non c’è, e l’Area C è una zona grigia indefinita, è per l’assenza di un accordo di pace duraturo fra i due Stati, nel rispetto di pace e sicurezza per entrambi. L’assenza di frontiera fa venire meno la responsabilità: se fosse formale, inequivocabile, l’appartenenza alla Palestina anche il governo palestinese sarebbe più responsabile.
Ci troviamo davanti a una spirale di conseguenze negative che accomuna ebrei ed arabi, portandoli sempre più a fondo come evidenziato da quanto sta avvenendo in queste ore con le forze israeliane che hanno sigillato la città palestinese di Hebron in Cisgiordania, peraltro da giorni sottoposta a coprifuoco. Anche per questo mi identifico completamente con la reazione che il presidente palestinese, Abu Mazen, ha avuto davanti al sequestro dei tre ragazzi israeliani, condannandolo come un «evento terribile» guardando anche alle «conseguenze che potrà avere» allontanando ancora una volta la speranza di pace per questa terra dove si confrontano le ragioni, entrambe legittime, di israeliani e palestinesi.

LA STAMPA - Domenico Quirico: "Un oscuro smarrimento "


Domenico Quirico


Sappiamo che la catastrofe scoppierà. Se ne sente l’odore, come si sente l’odore dell’incendio molto prima di vederlo.
Soltanto la diplomazia del mondo e l’Occidente chiudono gli occhi, impotenti, e sognano cose impossibili… altri accordi, moderati che spuntano all’improvviso, e perfino ritirate, marce indietro, accomodamenti: tutto, ma non una guerra. Non si è mai vista tante fede nei miracoli come nel nostro tempo in cui non ne avvengono.
Ci guardiamo attorno, il Medio Oriente, la Nigeria, il Nord Africa, l’Afghanistan... Non domandiamo mai perché uomini donne bambini vengono uccisi, devono fuggire, sono ingoiati dall’odio. Motivi non ne mancano. Nessuno di essi è interessante perché tutti sono ingiusti. Essere vittima non è interessante.
Essere cristiano o ebreo o curdo o essere di una tribù diversa, di una sfumatura di islam meno accentuata o avere nemici che di colpo sono diventati potenti o armati: ci sono dozzine di motivi per essere sequestrati, chiusi in un campo di rifugiati, doversi imbarcare su un peschereccio. O essere uccisi. Sono luoghi dove ai nostri occhi gli uomini sembrano nati con un debito che non riescono mai a pagare, per quanto si affannino. L’uomo deve qualcosa all’uomo.
Bambini rapiti e eliminati, subito, a Hebron; ragazze sequestrate nel centro dell’Africa. A scuola. Gli innocenti! Chi è più innocente di un bambino o di un adolescente? Ma come non abbiamo ancora compreso che in questi giorni l’innocenza è un delitto che viene severamente punito? Quello che accade in questi luoghi, il nord dell’Iraq, la Siria, impastati di sangue: il tempo passa con un fruscio di giornali a caratteri un po’ più grandi del solito, di notizie allarmanti, di dichiarazioni prudenti, responsabili, misurate dei politici. Ma non è dentro di noi, noi non viviamo nel Tempo. Esso non esiste. Ci illudiamo, da quando siamo diventati troppo deboli o vili per regolare le cose, che fingere di non vederle sia un modo per uscirne indenni, per non essere schizzati dal sangue che ne trasuda. Vediamo uomini torturati fuggiaschi uccisi: e proviamo un senso di profonda, inconscia soddisfazione di non essere noi al loro posto, e quell’ipocrita rammarico che è soltanto un modo di corrompere il destino con una facile compassione.
I morti di Aleppo e di Homs, i liquidati, a schiere, nel nord iracheno, la caccia all’uomo senza età, sono come ombre pallide, ricordi senza colore.
Il mondo che abbiamo disegnato un secolo fa, e poi ancora alla fine della seconda guerra mondiale, marchiato dalle nostre certezze (e arroganze), si sta sbriciolando, forze oscure e crudeli, burattinai che invocano Dei senza pietà stracciano le linee, ricompongono, squartano, separano, cacciano. La Storia è al lavoro, febbrilmente, attorno a noi a distanza di un attimo. Noi ascoltiamo i rumori, proviamo forse un sconfinato senso di perdita. Ma non ci sembra doloroso. E’ come una penombra che avanza strisciando e copre e svuota tutto finché vela persino l’orizzonte. Per ora pensiamo che non ci turberà. Per ora.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini "Il dramma ha unito il paese. Il governo non lo usi"


Davide Frattini      Dimi Reider

GERUSALEMME — Dimi Reider, co-fondatore della rivista digitale +972 (come il prefisso internazionale che identifica Israele), analista dello European Council on Foreign Relations, ricorda che fino ad ora «Netanyahu è stato più cauto nelle sue decisioni militari rispetto ai predecessori. Anche l’ultima operazione contro Gaza alla fine del 2012 è durata molto meno di quelle guidate da Ehud Olmert. Adesso dovrebbe concentrare gli sforzi dei militari nel trovare i responsabili degli omicidi». Da attivista pacifista spera che «il governo non usi questa tragedia per distruggere anche l’accordo tra Hamas e Abu Mazen, l’unione tra i palestinesi è necessaria per arrivare a un’intesa di pace».
Dopo la scoperta dei corpi, crescono le pressioni su Netanyahu — tra i suoi ministri e nel Paese — perché dia il via libera a raid massicci contro i leader del movimento fondamentalista. «Gli israeliani (malgrado le divisioni tribali della nostra politica) si sono uniti in questi venti giorni attorno alle famiglie».
La posizione del presidente Abu Mazen resta «tra l’incudine e il martello». «Come sempre. I palestinesi sono già infuriati con lui per le dichiarazioni di condanna del sequestro senza ricordare gli arresti e le vittime tra la sua gente. Dall’altro lato, gli israeliani vogliono che rompa con Hamas. “Tra l’incudine e il martello” dovrebbe essere il titolo della sua autobiografia politica».

LA REPUBBLICA - Rosalba Castelletti: "In quei tre ragazzi vediamo i nostri figli. Ma niente vendette "


Rosalba Castelletti Etgar Keret

«Siamo tutti genitori. Siamo tutti vittime potenziali. Ecco perché ci identifichiamo. Nessuno vorrebbe essere nei panni di quei padri e quelle madri che a 18 giorni dalla scomparsa dei loro figli sono stati chiamati a riconoscerne i cadaveri perdendo di colpo ogni speranza di riaverli vivi». Nato a Tel Aviv nel 1967, Etgar Keret è tra gli scrittori israeliani più popolari della sua generazione. I suoi libri sono stati tradotti in 34 lingue in 37 Paesi. È anche sceneggiatore e regista. Ed è padre. Di Lev, otto anni e mezzo. La sua ultima raccolta di racconti, The seven good years , “Sette buoni anni”, inizia proprio con la sua nascita e termina con la morte del padre, un sopravvissuto all’Olocausto.
Signor Keret, dopo la scomparsa dei tre teenager israeliani erano partiti appelli, marce, veglie e una vasta campagna sui social network con lo slogan “Bring Back Our Boys”, “Riportate indietro i nostri ragazzi”. Perché una mobilitazione popolare così massiccia?
«Perché siamo tutti genitori. Siamo tutti soldati in un paese in guerra. O lo saremo, lo siamo stati o potremo tornare a esserlo. Siamo tutti vittime potenziali. Ecco perché l’identificazione è così forte. Non si tratta di qualcosa di astratto, di un esercizio intellettuale. Tutti abbiamo figli. Tutti abbiamo avuto un parente o un amico che ha perso qualcuno. Sappiamo che la prossima volta potrebbe toccare a noi».
Lei come ha reagito alla notizia del ritrovamento dei corpi?
«Purtroppo non è stata una sorpresa. Sapevamo sin dall’inizio che era uno degli epiloghi possibili. Ma gli sforzi internazionali per trovare il compromesso non possono essere fermati da episodi simili. C’è la rabbia, c’è la delusione. Ma non bisogna cedere al desiderio di vendetta».
Il premier israeliano ha già detto che “Hamas la pagherà” e il movimento islamico ha replicato che ogni offensiva israeliana “aprirà le porte dell’inferno”...
«È ovvio, dopo fatti del genere, lo spazio per i negoziati può ridursi terribilmente. Uccisioni così efferate non possono che esacerbare la situazione. Ma il compromesso è l’unico modo per evitare che crimini come questo accadano nuovamente in futuro. Non puoi fermarli con la forza. C’è bisogno di una soluzione politica».
L’incontro tra il Papa, Abu Mazen e Shimon Peres aveva riacceso le sue speranze in una soluzione pacifica?
«L’incontro in Vaticano è stato simbolico. In realtà gli Stati Uniti e l’Unione europea vivono crisi interne. Vi sono problemi che necessitano di maggiori risorse e attenzioni. Il conflitto israelo-palestinese ha smesso da tempo di essere uno dei temi dominanti dell’agenda internazionale. Oggi c’è la crisi in Corea, l’avanzata jihadista in Iraq. Noi siamo stati derubricati a un conflitto domestico».
Cosa vuol dire essere padre in questo contesto?
«È dura crescere un bambino. Provo a spiegargli tutto in prospettiva: l’occupazione, i rapimenti, i razzi. Cerco di aiutarlo a identificarsi nell’altra parte. Ma ora come ora non ci riesce. Per questo dobbiamo cercare il compromesso. Se non per noi, dobbiamo farlo per i nostri figli».

Per inviare la propria opinione a Stampa, Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@lastampa.it
lettere@corriere.it
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT