La crisi irachena destabilizza il Medio Oriente Reportage di Francesco Semprini, Fabio Scuto, analisi di Guido Olimpio, Carlo Panella
Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica - Libero Autore: Guido Olimpio - Francesco Semprini - Fabio Scuto - Carlo Panella Titolo: «Iraq, i caccia siriani all'attacco all'ombra dell'alleanza Usa-Iran - Con i guerrieri Peshmerga sulla linea di fuoco dell'Isis - Alla frontiera con i camionisti che sfidano i ribelli iracheni -In Iraq adesso è caccia ai cristiani»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/06/2014, a pag. 15, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "Iraq, i caccia siriani all'attacco all'ombra dell'alleanza Usa-Iran", dalla STAMPA a pag. 12, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo "Con i guerrieri Peshmerga sulla linea di fuoco dell'Isis", da REPUBBLICA a pag. 14, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo "Alla frontiera con i camionisti che sfidano i ribelli iracheni.'Vogliono prendersi la Giordania' 2 e da LIBERO, a pag. 14, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "In iraq adesso è caccia ai cristiani. Usa costretti a stare con Assad".
Di seguito, gli articoli:
La bandiera dello 'Stato islamico'
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: "Iraq, i caccia siriani all'attacco all'ombra dell'alleanza Usa-Iran"
Guido Olimpio
WASHINGTON — Amici-nemici. Doppia parola per indicare quanto avviene in Iraq: gli Usa che intervengono al fianco degli avversari, Iran e Siria. Ci sarà un coordinamento in futuro? Tutti lo escludono, per timore di dover tradire i propri dogmi, ma alla lunga saranno costretti a farlo. Almeno a livello locale. Martedì i Mig siriani hanno bornbardato i ribelli dell'Isis a Al Qaim, cittadina irachena sul confine. Un intervento per aiutare Bagdad e che ha confermato come i due conflitti siano legati, con gli islamisti che agiscono sui due versanti. Ieri con una mossa significativa la Casa Bianca ha chiesto oggi 500 milioni di dollari al Congresso per addestrare e armare i ribelli siriani «moderati», un ampliamento del programma avviato dalla Cia. Ma al tempo stesso lascia che i velivoli di Assad martellino gli insorti «estremisti». Si forma dunque una situazione in parte paradossale, ma tipica dei bizantinismi mediorientali. Quasi nelle stesse ore fonti Usa hanno fornito — via New York Times — dati interessanti sull'attività iraniana in Iraq. Ammassate forze consistenti al confine, Teheran si è affidata a nuclei limitati dell'Armata Qods del generale Suleimani. Sono nelle zone sciite da anni, nascosti dietro gruppi di copertura e strutture sociali. Si mescolano alle milizie sciite. Un apparato clandestino — ma visibile — raddoppiato da una rete militare discreta. Ogni giorno, giganteschi aerei cargo compiono almeno 2 voli trasferendo circa 140 tonnellate di materiale bellico. Nella base di al Rashid gli iraniani hanno creato un centro-comando e da gui controllano i voli dei droni Ababil che inseguono gli spostamenti dei sunniti. Sempre in questa base opera un reparto incaricato di intercettare le comunicazioni radio dell'lsis. I mullah non possono abbandonare i «fratelli». Ed hanno già pronto il pretesto in caso serva una risposta massiccia. Identico a quello utilizzato per giustificare l'invio di migliaia di volontari in Siria. La difesa dei luoghi sacri allo sciismo. Lo hanno detto senza giri di parole. Interessante poi che Teheran abbia restituito all'alleato un buon numero di velivoli militari che erano stati trasferiti da Saddam in Iran per sottrarli agli attacchi statunitensi durante la guerra. Gli americani, partiti in ritardo, sono comunque presenti. Da mesi i droni conducono ricognizioni, affiancati negli ultimi tempi da caccia F18 e dagli Orion della Marina. Incursioni che potrebbero mettere gli artigli non appena saranno pronti due centri di coordinamento, uno nella capitale e l'altro a Erbil, dove saranno schierati una parte dei 300 consiglieri delle forze speciali Usa. Altri saranno più vicini a un fronte mobile per indicare i bersagli nel caso Obama decida per i raid. Colonne e rifugi dell'Isis. In quel momento dovranno sapere dove si trovano gli «altri», siriani e iraniani, i frenemies, per evitare «incidenti». Newsweek ha rivelato che gli iracheni hanno per molto tempo sabotato l'azione dell'intelligence statunitense. Dopo aver ricevuto dagli iraniani sistemi sofisticati hanno sorvegliato gli uomini della Cia a Bagdad e hanno poi estromesso gli ufficiali considerati troppo vicini agli Usa. Un'epurazione tra le ombre che ha reso la vita difficile a chi doveva tenere d'occhio la situazione. Per questo gli Usa hanno passato le informazioni con il contagocce all'lraq, certi che le avrebbe girate a Teheran compromettendo fonti preziose e sicurezza. A Washington si fidano poco. Raccontano che il generale Suleimani non voglia lavorare con gli americani, si fida del proprio apparato, anche se a giudicare dai successi dell'Isis ha sbagliato mosse. Più disponibili i diplomatici del ministero degli Esteri iraniano. Posizioni speculari in campo Usa. Contrario il Pentagono, disponibile il Dipartimento di Stato.
LA STAMPA - Francesco Semprini: "Con i guerrieri Peshmerga sulla linea di fuoco dell'Isis"
Francesco Semprini
Una pattuglia di Peshmerga si aggira a bordi di un pick-up tra le stradine polverose costellate da minareti e campanili. I «guerrieri che seguono la morte» sono armati con fucili d'assalto, e hanno i volti coperti da passamontagna ed elmetti. «Attenzione, quello potrebbe essere il punto di non ritorno», ci dicono indicando verso sud. Siamo a Tell Kayt; dal Kurdistan abbiamo varcato il confine immaginario con l'Iraq, spingendoci nella zona di Ninive, una di quelle più interessate dalle scorribande degli jihadisti dello Stato islamico di Iraq e Levante. A un chilometro di distanza c'è il primo check-point Isis, Mosul è a una manciata di miglia, la seconda città del Paese a forte componente cristiana, caduta nella mani dei ribelli sunniti il 5 giugno. Dagli osservatori dei Peshmerga, Mosul sembra vuota, in lontananza si intravede qualche vessillo nero, come a definire il territorio: la sponda ad est del Tigri è sotto lo stretto controllo dell'Isis, l'altra ha una sorta di governo fantoccio. L'autorità costituita manca dal 5 giugno, giorno della mattanza degli jihadisti favorita dalla fuga e dalla diserzione delle forze di sicurezza, o dal loro appoggio. «Molti sono entrati a bordo di jeep della polizia, la cui resistenza è stata nulla, anzi», ci spiega Massoud che, con moglie e figli è stato costretto a fuggire dalla città, come altre 350 mila persone. «Quella sera stavamo mangiando, in pochi minuti si è scatenato l'inferno - racconta - siamo scappati in ciabatte, senza nemmeno fare a tempo a metterci le scarpe, abbiamo solo preso qualche documento e via». Le famiglie rimaste a Mosul hanno subito le barbarie degli Isis, i figli piccoli spesso sono stati «reclutati» per infoltire le fila degli jihadisti in embrione, i più anziani trattenuti per usarli come scudo contro eventuali controffensive. Massoud ha fatto tappa a Tell Kayf prima di proseguire verso Erbil, come tanti altri sfollati, e la cittadina è in stato di emergenza, mancano medicine e generi di prima necessità. «Ecco perché siamo venuti qui», ci spiega Julitte Tourna, responsabile Unicef giunta da Amman per contribuire alla risposta alla crisi. E con il convoglio delle Nazioni Unite che arriviamo sulla linea di fuoco dell'Isis: «Non più di trenta minuti poi si rimonta sulle jeep e si lascia la zona», avvertono perentori gli addetti alla sicurezza. Una permanenza prolungata potrebbe renderci preda appetibile per gli jihadisti, sempre a caccia di buoni affari. Rimaniamo il tempo necessario a un sopralluogo in un ospedale alle prese con le continue interruzioni di corrente, e per predisporre le misure necessarie a una prossima distribuzione di beni. Quindi si fa rotta verso nord, destinazione Al Qosh. Qui Unicef conduce una campagna di vaccinazione anti-polio e la distribuzione di cibo, acqua e generi di prima necessità: il punto di raccolta è la chiesa di Mar Mikha, dove nel chiostro interno, ai piedi del Santo, sono sistemate decine di scatoloni pronti alla consegna. L'obiettivo è soccorrere anche 24 famiglie scappate da Qaraqosh, a causa dei bombardamenti tra forze curde e Isis, molti di loro sono cristiani, 140 persone in tutto, tra cui 40 bambini che hanno trovato riparo in un liceo chiuso per le vacanze estive. Altri 3.200 sono giunti ieri ad Erbil, ma presto se ne potrebbero aggiungere ancora 5 mila. «La città è sotto il fuoco incrociato delle artiglierie, e Isis è pronta a tutto pur di prenderne il controllo», ci racconta Rabi, fuggito assieme a tredici familiari. Durante l'offensiva degli jihadisti, i Peshmerga hanno risposto sconfinando a ridosso di Qaraqosh, e ingaggiando tra artiglierie pesanti. Una battaglia che dura da settimane anche perché le forze curde non sono affatto intenzionate a ripiegare entro il confine predefinito. Cosi i miliziani di Isis, due giorni fa, hanno dettato le condizioni: «Cessate il fuoco sino alle 19 di giovedì per dar tempo a tutti i cristiani e alle minoranze di lasciare la città, e ai Peshmerga di ritirarsi». «In caso contrario - spiega Rabi - metteranno a ferro e fuoco la nostra città». Un ultimatum che sembra premonitore di pulizia etnico-religiosa, con cui i miliziani del califfato sono pronti ad espugnare le zone ad est di Mosul Un'offensiva settaria che, molti sono convinti, coinciderà con l'inizio del Ramadan.
LA REPUBBLICA - Fabio Scuto: "Alla frontiera con i camionisti che sfidano i ribelli iracheni.'Vogliono prendersi la Giordania' "
La lingua nera dell’asfalto si perde fino a diventare un puntino seguendo le linee delle dune. Alle spalle 350 chilometri di deserto giordano per raggiungere Amman, davanti 500 chilometri di deserto iracheno per arrivare a Bagdad. L’unico valico di passaggio fra Giordania e Iraq in questo mare di sabbia è adesso — dal lato iracheno — nelle mani delle milizie tribali, dopo che domenica in una furiosa battaglia con i guerriglieri dell’Isis — l’Esercito islamico dell’Iraq e del Levante — i soldati di Bagdad si sono ritirati. Non solo dalla frontiera, ma dall’intera provincia di Anbar, lasciando campo aperto all’Isis e alle “milizie tribali sciite” come raccontano i pochi camionisti in arrivo dall’Highway n.1. «C’è una rivoluzione in corso dall’altra parte», dice Ibrahim Hassan, camionista siriano mentre scende dal “bestione” sul piazzale dal lato giordano del confine. «Vengo da Ramadi, lì si è sparato di brutto. Le Bandiere Nere dell’Isis? No, non le ho viste, ma da Ramadi a qui non ho visto un solo soldato iracheno, eppure sono centinaia di chilometri ». Hassan Abbas, autista iracheno, descrive la situazione nel suo Paese come una «rivolta contro le ingiustizie degli sciiti e il governo del loro premier Al Maliki». «Si è vero ci sono combattenti che controllano il posto di frontiera iracheno, ma non sono miliziani del “Daesh”», spiega Hassan, usando arabo dell’Isis. Ma non tutti sono così tranquillizzanti. Jamal Saket, un altro camionista iracheno che ha guidato da Bagdad fino a qui racconta d invece di essere stato «fermato più volte lungo la strada da uomini armati e mascherati che hanno messo checkpoint lungo la strada». «Mi hanno chiesto i documenti, cosa trasportavo e chi era il destinatario del carico. Chi erano? Ero in una situazione in cui le domande le potevano fare solo loro», racconta sempre Saket, «sì le voci corrono in Iraq sui massacri dell’Isis, in certe zone la gente è in fuga per il terrore, più dai villaggi che non nelle città». La sconfitta dell’Esercito iracheno e l’arrivo dell’Isis nella provincia irachena di Anbar, che condivide con la Giordania 180 chilometri di una frontiera che è una linea tracciata nella sabbia giusto cent’anni fa, ha fatto subito sentire Amman più vulnerabile. Perché il regno hashemita, è un santuario chiave dove jihadisti e salafiti hanno messo radici. Dall’inizio della guerra civile in Siria poi, i jihadisti dell’Isis e di Jabhat al Nusra si sono spostati di frequente lungo il confine Giordania-Siria. L’esercito giordano ha cercato di reprimere questo traffico transfrontaliero ma finora non ha portato a un solo arresto. La situazione sembra calma, ma anche il Brigadier Generale Saber Mahayarah che comanda la Border Guard non si fida. «Abbiamo dislocato molti rinforzi lungo la frontiera per impedire pericolose infiltrazioni fin da domenica scorsa». «Questa frontiera è un elemento chiave della sicurezza nazionale giordana», dice il generale Mahayarah nel suo ufficio nel Quartier Generale di Zarqa. Ma è innegabile che è difficile da controllare. C’è solo la Highway n.10 che attraversa questo deserto aperto, ma le dune nascondono decine di piste che battevano i carovanieri nel secolo scorso e che oggi si fanno con la jeep. I tank spuntano dalla sabbia, i posti di controllo sono stati raddoppiati, il confine è stato disseminato di sensori. Ma certamente è in cielo che c’è molto più traffico: satelliti, aerei spia, droni. Gli Alleati americani stanno mettendo in campo tutto il loro sostegno militare e sono pronti ad elevarlo. Il timore del contagio jihadista allarma la corte di re Abdallah di Giordania e la parola d’ordine è: calma. Il regno hashemita è diventato un banco di prova fondamentale di Stati Uniti e Arabia saudita per il sostegno ai ribelli siriani, ma anche la “retrovia” di Washington per l’Iraq e che adesso però è quasi “prima linea”. Da mesi sono presenti in Giordania mille uomini delle Forze speciali Usa pronti per l’impiego, la Cia ha in corso — in una base nel sud — un programma di addestramento di uomini del Free Syrian Army che vale da solo 287 milioni di dollari. Americani, inglesi, francesi, sauditi, arabi del Golfo, riempiono gli alberghi di Amman, ma anche russi, cechi, ceceni, pachistani. Sono consulenti, contractors, ong, charities, merchant banker, umanitari, esperti di diritto, traders, rappresentanti di multinazionali legate alla Difesa. Amman in questi giorni è certamente la città al mondo con il più alto numero di spie per chilometro quadrato. Il “fronte interno” giordano non è meno pericoloso. «Quasi un milione di siriani sono in Giordania, come non pensare che ci siano state delle infiltrazioni jihadiste o che si siano riattivate cellule dormienti? E poi come ci dobbiamo spiegare il fatto che ci sono 2.500 jihadisti giordani che combattono in Siria e in Iraq», dice Oraib Rantawi, direttore dell’Istituto Al Quds per gli Studi Politici. Già la scorsa settimana dopo la caduta di Falluja nelle mani dell’Isis in Iraq, a Maan — città del sud della Giordania tradizionale centro islamista e anti-monarchico — qualche centinaio di estremisti è sceso per strada inneggiando alle vittorie e sventolando le bandiere nere dell’Isil. Non è un bel segnale per l’ultimo vero alleato arabo dell’Occidente.
LIBERO - Carlo Panella:" In Iraq adesso è caccia ai cristiani. Usa costretti a stare con Assad"
Carlo Panella
I terroristi islamici dell'Isis hanno bombardato ieri un gruppo di villaggi abitati da cristiani nella zona di Hamdanya a 75 chilometri dal Kurdistan. Un bombardamento privo di ogni ragione militare che ha la terribile funzione di mobilitare e fare proselitismo nelle file dei tanti musulmani “moderati” che considerano i cristiani idolatri che venerano oggetti.Una lunga fila di automobili con i crocefissi appesi ai lunotti posteriori, strapiene di profughi cristiani si è quindi mossa in colonna verso il Kurdistan iracheno, unica regione che garantisca una efficace protezione militare e libertà di coscienza. È questo un ulteriore risvolto barbaro della avanzata dei terroristi dell'Isil, che sommano alle crudeltà nei confronti degli sciiti, un odio sfrenato nei confronti dei cristiani.Nelle città occupate l'Isil impone ai cristiani il pagamento della jiza, la tassa di sottomissione in vigore nell'Islam sino al XIX secolo, li sottopone a vessazioni e li costringe alla fuga. Migliaia sono i cristiani e gli sciiti di Mosul che hanno abbandonato la città 17 giorni fa quando fu conquistata dall'Isil, con un effetto terribile, denunciato Bashar Matti Warda arcivescovo caldeo di Erbil: «Per la prima volta in 1600 anni il 15 giugno a Mosul non è stata celebrata la messa domenicale». Il vescovo caldeo ha chiesto un «piano d'emergenza »per difendere i cristiani dagli attacchi non solo dei terroristi, ma anche dalla intolleranza dei sunniti in genere e delle autorità di governo e ha fornito le cifre secche di questo dramma: «Se nel censimento del 1987 la minoranza cristiana in Iraq contava circa un milione e 400mila fedeli, le stime odierne non superano le trecentomila persone .Un numero che ora si ridurrà ulteriormente». Appello che rimarrà inascoltato. Sul piano militare ieri si è sviluppata la prima, timida, controffensiva governativa contro l'Isis. Innanzitutto l'aviazione siriana ha continuato a bombardare all'interno dei suoi confini e su suolo iracheno colonne dell'Isil nella zona di al Qaim, con plauso del premier di Bagdad al Maliki, nonostante che nell'operazione siano morti 57 civili iracheni. Due elicotteri hanno poi calato un commando governativo che si è impadronito dell’università di Tikrit, cuore del “triangolo sunnita”. Due episodi che in realtà rivelano l'estrema debolezza militare del governo di Bagdad che, nonostante le roboanti dichiarazioni di al Maliki, non sa sviluppare una controffensiva di terra e si deve affidare solo alle forze aeree. Il risultato è che l'Isis ha conquistato un'altra città, al Boukmal, e ha rafforzato il suo controllo sulla strategica raffineria di Baji, che rifornisce di benzina il centro del paese. La travolgente avanzata dell' Isis gli ha inoltre permesso di ottenere un grande successo politico: dopo mesi di combattimenti i terroristi siriani di al Nusra, sezione di al Qaeda, non solo si sono alleati con l'Isil, come si è saputo mercoledì, ma accettano addirittura «la sua guida». Intanto i primi 130 “berretti verdi” inviati da Obama si sono installati a Bagdad per aiutare i generali iracheni a «individuare i target dell'Isis da colpire ». Si è dunque creata una situazione paradossale: i militari Usa combattono per un governo di Bagdad in un contesto in cui le uniche azioni militari di contrasto all’Isis sono condotte dall'aviazione di Assad e dai pasdaran iraniani, che riforniscono l'Iraq di armi di ogni tipo.Una tragica alleanza di fattoUsa-Assad-Iran, con gli Usa subordinati e privi di peso politico. Mike Rogers presidente della Commissione intelligence della Camera Usa ieri ha così sintetizzato questa follia: «L' avanzata dell'Isil non è un fallimento dell’intelligence, è un fallimento della politica: Obama aveva avuto specifiche informazioni sulle attività e i movimenti dei jihadisti ma non le ha sfruttate. Li abbiamo osservati quando si radunavano, abbiamo osservato il dibattito tra al Nusra e Isis, abbiamo osservato le preoccupazioni del leader di al Qaeda ,Zawahri,per provare a farli tornare in riga, abbiamo osservato i loro campi che venivano costruiti e sviluppati, liabbiamo osservati mentre si procuravano armi, abbiamo osservato mentre ottenevano finanziamenti, abbiamo osservato persone con passaporto occidentale ch esi presentavano nei loro campi, li abbiamo osservati tutti. Non abbiamo fatto nulla.Quanto accade è il risultato dell'indecisione della Casa Bianca che è una politica».
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