Iraq: il ruolo della Siria, il fallimento di Al Maliki, l'autonomia del Kurdistan Analisi di Daniele Raineri, Lorenzo Cremonesi, Carlo Panella
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Libero Autore: Daniele Raineri - Lorenzo Cremonesi - Carlo Panella Titolo: «Aerei bombardano l'Iraq. Assad si getta nella guerra - Maliki causa del fallimento iracheno non può salvare il paese dal baratro - Battaglia per il petrolio iracheno. Intervengono i caccia di Assad»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 25/06/2014, a pag. 1, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "Aerei bombardano l'Iraq. Assad si getta nella guerra", dal CORRIERE della SERA, a pag. 32, l'editoriale di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Maliki causa del fallimento iracheno non può salvare il paese dal baratro", da LIBERO, a pag. 12, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "Battaglia per il petrolio iracheno. Intervengono i caccia di Assad".
Membri dello "Stato islamico"
IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Aerei bombardano l'Iraq. Assad si getta nella guerra"
Daniele Raineri Bashar Assad
Ieri la piccola città di al Qaim in Iraq è stata bombardata dall’aria. Testimoni locali dicono – ma non ci sono fonti indipendenti – che a colpire sono stati gli aerei dell’aviazione siriana, impegnati in un raid oltre frontiera contro alcune posizioni dello Stato islamico. Secondo altri testimoni, era già successo lo stesso sabato scorso a Mosul. Poche ore dopo, il servizio in arabo della Bbc ha detto che a bombardare erano stati i droni americani e ha citato “fonti vicine al primo ministro iracheno Nouri al Maliki”, ma il Pentagono ha subito smentito. La situazione in Iraq è talmente incerta che non si sa a colpo sicuro di chi sono gli aerei che bombardano una città. Se è stata davvero l’aviazione del presidente Bashar el Assad, sembra un tentativo di Damasco di accreditarsi nella nuova, eterogenea, improbabile coalizione militare e diplomatica che sta nascendo contro l’offensiva dei jihadisti. Il presidente siriano è stato accusato in passato di risparmiare dai bombardamenti i campi dello Stato islamico e di colpire invece senza pietà quelli dei ribelli nazionalisti, così da eliminare l’opposizione che piace all’occidente e fare restare sul campo soltanto gli estremisti. In questo modo, può riproporre la linea difensiva che promuove dal 2011: “Vedete? O me o al Qaida”. A partire dall’estate scorsa lo Stato islamico ha il controllo della città di Raqqa in Siria e occupa l’ex palazzo del governatore e altri grandi edifici istituzionali – inoltre sono stati dipinti di nero dallo Stato islamico – ma l’aviazione di Assad bombarda altre zone. A gennaio, alla Conferenza di Ginevra 2, un attivista politico siriano ha inseguito il capo della delegazione governativa mandata da Damasco chiedendo invano: “Perché non colpite Raqqa? Perché colpite tutte le altre zone? Ho qui le coordinate, perché non lo fate?”. A Ginevra il governo di Assad tentò goffamente di giocare la carta della guerra al terrore, senza riuscirci. Ora sente di avere più possibilità, considerato che nella fretta di rappattumare un argine militare capace di contenere l’offensiva del jihad persino un’alleanza discreta tra Stati Uniti e Iran sembra plausibile. Se vanno bene loro, perché non noi, devono avere pensato a Damasco – che riceve la linea da Teheran. Al Qaim è un bersaglio predestinato di una campagna aerea contro lo Stato islamico. Si trova a poca distanza dal confine con la Siria, su quella rotta che congiunge Raqqa – diventata “capitale” del gruppo – alla provincia di Anbar, che dopo Mosul è la zona con più forte presenza degli uomini di Abu Bakr al Baghdadi (è il capo del gruppo). Al Qaim è assieme ad al Bukamal una tappa di quel corridoio nella Valle dell’Eufrate attraverso cui scorrono uomini e mezzi dello Stato islamico, fino a Falluja e fino a pochi chilometri dalla capitale Baghdad. Due mesi fa, c’era stato un raid in senso inverso: velivoli iracheni avevano distrutto autocisterne dello Stato islamico venti chilometri dentro il territorio siriano. Su quella stessa zona in passato hanno volato anche i droni da ricognizione – non armati – mandati da Washington in risposta alle preoccupazioni di Maliki, dopo l’incontro con il presidente americano Barack Obama nel novembre 2013. Per mesi hanno sorvegliato sporadicamente il confine tra Iraq e Siria, ma sembra che il momento dei droni armati non sia ancora arrivato. Quando la Bbc ha lanciato lo scoop, poi subito smentito, è parso però verosimile, perché ci si aspetta che qualcosa del genere succeda presto. Ieri sono arrivati a Baghdad i primi 300 consiglieri militari americani – anzi, “fino a 300” – promessi da Obama. E’ stato raggiunto un accordo sulla loro immunità giudiziaria, che era la stessa questione su cui si erano rotte nel 2011 le trattative tra Amministrazione Obama e il governo di Maliki. Come cambiano i tempi e le posizioni. Probabilmente quello che spera anche Assad. Tra i consiglieri militari ci sono Berretti verdi, specializzati anche nell’identificazione e nel puntamento laser dei bersagli a terra, a favore degli aerei. Quindi un ruolo più di combattimento rispetto a quelli vaghi “di ausilio” di cui si è parlato finora. Se accadrà, sarà comunque in ritardo rispetto alle manovre dello Stato islamico, che ieri ha sfilato in parata a Mosul e ha rivendicato ancora una volta il controllo della raffineria gigantesca di Baiji.
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi: "Maliki causa del fallimento iracheno non può salvare il paese dal baratro"
Lorenzo Cremonesi Nouri Al Maliki
Come può la causa di un problema esserne anche la soluzione? Molto difficile, anche nella sfera indefinita della politica. Ed è per questo motivo che il premier sciita Nouri al Maliki dovrebbe dimettersi. Proprio lui sta infatti all'origine della crisi che mina l'Iraq. Lui è il responsabile del fallimento del dialogo con sunniti e curdi. E non solo, Maliki ha alimentato il settarismo che oggi ammorba il Paese, tanto che ormai anche i volontari che corrono ad armarsi per cercare di salvare Bagdad contro l'irruzione dei jihadisti wahabiti Io fanno in nome dello sciismo e in risposta all'appello del suo maggior leader religioso, il Grande Ayatollah Ali al Sistani. Su questo punto vorremmo essere chiari: la crisi era scritta sui muri da tempo. Anche se non era affatto detto che dovesse per forza sfociare nella guerra civile, nella «Fitna» (lo scontro intermusulmano) e nel disfacimento dello Stato. Alla sua origine sta l'antico scontro tra la maggioranza sciita, ben contenta di andare al potere dopo che l'invasione americana nel 2003 portò alla caduta del regime baathista di Saddam Hussein, e la minoranza sunnita, che invece quel regime sosteneva. Pure, va anche sottolineato che proprio le grandi tribù sunnite di Al Anbar (oggi la provincia madre della rivoluzione contro il governo) durante il periodo sanguinosissimo della guerra settaria nel 2006-8 furono ben disposte a collaborare con gli americani e gli sciiti, creando i «comitati del risveglio» locali per espellere con le armi i qaedisti tagliagole dai loro territori. Quando venne eletto presidente per la prima volta, nel 2007, Maliki a parole affermò di voler continuare quella cooperazione. Nei fatti applicò una serrata politica di «debaathificazione», mise gli sciiti al comando delle unità scelte di esercito e polizia, a capo degli apparati più sensibili dello Stato. I «comitati del risveglio» vennero sciolti e la popolazione sunnita cominciò a vedere l'esercito nazionale come una forza occupante. Ma la mossa più grave fu poi il mandato di arresto nei riguardi del vicepresidente Tariq al Hashemi nel dicembre 2011, appena dopo la fine del ritiro americano. Hashemi era il massimo leader sunnita nel governo e si mostrava pronto a lavorare per l'unità nazionale. «Maliki sta scavando la fossa dell'Iraq», ci disse dal suo esilio tra i curdi a Erbil. E fu profeta.
LIBERO - Carlo Panella: "Battaglia per il petrolio iracheno. Intervengono i caccia di Assad"
Carlo Panella Peshmerga curdi iracheni
«L'Iraq sta cadendo a pezzi: è evidente che il governo di Bagdad ha perso il controllo su ogni fronte; tutto è al collasso, l'esercito, le truppe, la polizia»: è difficile contestare le parole del presidente del Kurdistan iracheno Massud Barzani, confermate dalle nuove notizie dal fronte, mentre l'Onu valuta che i caduti in 10 giorni di combattimento sono 1075, in larga parte civili. La battaglia di ieri attorno alla raffineria di Baiji nella provincia di Salalheddin, conferma sia la strategia seguita dall'Isil che le crescenti difficoltà delle forze armate di Bagdad. Da dieci giorni i terroristi islamici assediano la raffineria che produce la benzina per un terzo del territorio nazionale e più volte hanno dichiarato - smentiti - di averla conquistata. Obbiettivo non ancora raggiunto, ma possibile, perché il governo di Bagdad non è in grado di difendere questo obbiettivo strategico con le truppe di terra - che non obbediscono agli ordini e defezionano - ed è costretto, come ha fatto ieri, a tentare di respingere l'assedio unicamente usando l'aviazione che ha ucciso 19 attaccanti, ma non è affatto riuscita a spezzare l'assedio. Contemporaneamente, l'Isis ha attaccato il posto di frontiera tra Iraq e Siria di Boukamal nel palese intento di controllare tutti i principali passaggi tra Iraq e Siria. Manovra che permetterà all'Isis non solo di spostare agevolmente combattenti e armi tra i due Paesi, ma anche di esportare via terra in Siria e poi in Turchia il petrolio e soprattutto la benzina irachena, una volta conquistata Baiji. Prospettiva tanto concreta che se ne è accorto persino il Consiglio di Sicurezza dell'Onu che ieri ha lanciato l'allarme (mentre il mercato mondiale del petrolio tiene il fiato sospeso per le certe ripercussioni che questa guerra avrà sui prezzi del barile). La marcia dell'Isis verso Bagdad, temuta come imminente dopo la sua conquista di Mosul, è dunque rimandata ad un secondo tempo, quando sarà consolidato il controllo su tutta la parte nord-occidentale dell'Iraq. Mentre il fronte della guerra continua a svilupparsi a favore degli attaccanti dell'Isis, si fanno sempre più forti le pressioni internazionali sul premier iracheno Nuri al Maliki perché faccia un passo indietro e perché si formi un governo di unità nazionale che dia largo spazio a quella rappresentanza politica dei sunniti che il premier iracheno in questi anni ha sgretolato. Ragione principale del consenso che i miliziani hanno riscosso. J.F. Kerry, che lunedì ha incontrato al Maliki e martedì il presidente del Kurdistan Massud Barzani, caldeggia questa opzione, ma ha dovuto prendere atto che questa soluzione è complessa. E non solo per le resistenze del dittatoriale al Maliki (appoggiato dall'Iran che gli ha inviato 88 caccia Shukoi). Questo nuovo governo dovrebbe infatti poggiare su un rapporto se riequilibrato a favore dei sunniti, dei curdi e dei turkmeni. Ma il curdo Massud Barzani - che ha chiesto che al Maliki «responsabile di questa situazione se ne vada» - ha fatto polemicamente presente a Kerry che «stiamo ora vivendo in un nuovo Iraq, che è completamente diverso dall'Iraq che abbiamo sempre visto, l'Iraq in cui vivevamo dieci giorni fa, o due settimane fa». Premessa ad una esplicita richiesta di totale autonomia - non ancora indipendenza - del Kurdistan rispetto al governo centrale di Bagdad, punto di enormi attriti nei mesi scorsi con al Maliki. Richiesta rafforzata da ruolo centrale che i curdi svolgono sul piano militare: «Dopo quanto è accaduto è provato che il popolo curdo dovrebbe ora determinare il proprio futuro». Dunque, chi formerà il nuovo governo a Bagdad - e sarà sicuramente uno sciita - dovrà abbandonare le pretese di egemonia che gli sciiti hanno sinora sviluppato con durezza nei confronti dei kurdi che pretendono già di poter commerciare direttamente il loro petrolio e si preparano a una indipendenza di fatto, se non formale. Passaggio scabroso. Per di più, i curdi sono sunniti e hanno sempre protetto e addirittura materialmente salvato dalla forca, facendolo fuggire in Turchia, il lederpolitico dei sunniti, il vicepresidente Tariq Hashemi condannato a morte da al Maliki. Formare un governo con una forte rappresentanza dei sunniti comporta dunque la rilegittimazione di al Hashemi, passaggio umiliante per gli sciiti. Smentita infine dal Pentagono la notizia di fonte araba di un bombardamento di droni Usa al confine con la Siria. Il bombardamento sarebbe invece effettuato dal regime siriano di Assad che cerca di approfittare della situazione per assestare un colpo decisivo ai terroristi.
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