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Il Foglio Rassegna Stampa
20.06.2014 Senza agire anche in segreto lo Stato non può proteggere i nostri diritti
Analisi di Leonardo Bellodi

Testata: Il Foglio
Data: 20 giugno 2014
Pagina: 1
Autore: Leonardo Bellodi
Titolo: «Un vero Stato è segreto»
Riprendiamo dal FOGLIO  di oggi, 20/06/2014, a pag. 1 dell'inserto, l'articolo di  Leonardo Bellodi dal titolo "Un vero Stato è segreto".


Edward Snowden

Un anno fa, in una stanza di un minuscolo appartamento a Hong Kong, l’appena trentenne Edward Snowden, tecnico informatico a contratto prima della Cia e poi della Nsa, la National Security Agency statunitense, premeva il tasto di invio del suo computer rendendo così noto al mondo che gli Stati Uniti avevano le capacità, che utilizzavano, di raccogliere e archiviare le email e le ricerche internet di ogni cittadino americano o straniero. Rivelò anche che gli Stati Uniti non erano timidi nell’ascoltare conversazioni telefoniche di dignitari di altri Stati, alleati o non, ivi compreso il cellulare del Cancelliere tedesco Angela Merkel. Esattamente un anno dopo, lo scorso 6 giugno, Vodafone, uno dei più grandi operatori telefonici del mondo, ha pubblicato un lungo e dettagliato rapporto su quali stati monitorano le conversazioni telefoniche dei propri cittadini e sulla raccolta dei cosiddetti metadati, che permettono di sapere, tra l’altro, dove un utente si trova, dove è andato e la direzione verso la quale è diretto. Il rapporto rivela, inoltre, che molti stati chiedono alle compagnie telefoniche di avere, in nome della sicurezza nazionale, diretto accesso alle infrastrutture degli operatori in modo da ottenere un monitoraggio di tutto e di tutti, seguendo una procedura ben diversa da quella comunemente utilizzata secondo la quale l’operatore telefonico riceve dall’autorità giudiziaria una richiesta specifica di dare accesso ai dati di un determinato utente. Sempre nelle scorse settimane, per la prima volta nella storia del sistema giuridico britannico, la corte di appello di Sua Maestà ha tenuto un processo segreto nei confronti di due imputati di atti terroristici. Il processo si è svolto a porte chiuse e degli imputati non si conosce nulla: né nome, né nazionalità, sono identificati solo con due sigle, AB il primo e CD il secondo. Non era mai successo. Il pubblico ministero inglese, per giustificare la richiesta, ha presentato un rapporto del capo dell’unità antiterrorismo del Crown Prosecution Service che evidenziava che se il processo si fosse svolto in pubblico, senza celare i nomi degli imputati, questo non sarebbe andato avanti. Di più non si sa. I tre episodi rappresentano bene la tensione tra lo stato di diritto (quello che gli anglosassoni chiamano rule of law), che riconosce all’individuo la protezione da eccessive, ingiustificate e irragionevoli irruzioni della autorità pubblica e la responsabilità di uno stato di garantire la sicurezza della nazione e dunque dei propri cittadini. Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, ci è sembrato di incamminarci in modo irreversibile verso un mondo dove gli aspetti privati della persona erano sempre più ampli e tutelati e la dimensione pubblica sempre più limitata e trasparente. Norberto Bobbio ebbe a dire che il potere è tanto più democratico quanto più ne sono conosciute le ragioni, mentre il privato è tanto più democraticamente libero quanto più è tutelata la sua sfera di riservatezza. Un concetto non certo nuovo in ambito filosofico. Kant scrisse, nel suo “Trattato per la pace perpetua” del 1795, che tutte le azioni relative al diritto altrui che non sono suscettibili di essere rese pubbliche, sono ingiuste. In uno stato costituzionale la pubblicità è la regola e il segreto l’eccezione: la nostra stessa Costituzione guarda con grande diffidenza il segreto, vietando le associazioni segrete, la stampa clandestina e imponendo la pubblicità a tutta una serie di atti, ivi compresi i lavori parlamentari. La tragedia dell’11 settembre 2001, gli attentati di Bali, Londra, Madrid e l’emergere di una nuova forma di terrorismo internazionale organizzato, coordinato, sovvenzionato hanno cambiato la percezione della gente e l’atteggiamento degli stati. Alla sensazione del “tutto va bene” degli anni 90 si è sostituito un clima di paura, incertezza, urgenza. Si è posto allora il tema di quali diritti individuali possono essere violati per garantire la sicurezza collettiva e in che misura è accettabile questo bilanciamento. In che misura, insomma, la rule of law, che sancisce, tra l’altro, la preminenza del diritto rispetto all’esercizio discrezionale del potere; l’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini e l’imperativo di essere giudicati da giudici ordinari secondo procedure e leggi non retroattive pubbliche e comprensibili, debba cedere il passo alla Ragion di stato e quali azioni possono essere giustificate in nome della necessità pubblica. Un dilemma non nuovo che come i fenomeni carsici riemerge nel corso della storia nell’ambito delle relazioni internazionali e della sicurezza interna degli stati. Nel 1560, il giovane Giovanni Botero entra a far parte della Compagnia di Gesù, studia in Italia e poi viene mandato a Parigi a insegnare retorica. Per ragioni sconosciute non prese mai i voti e anzi si fece qualche mese di prigione. Abbandonati i gesuiti va al servizio di Carlo Borromeo, l’arcivescovo di Milano, e pubblica a Venezia il trattato “Della Ragion di stato” dove afferma che lo “stato è dominio fermo sopra popoli e ragione di stato è notitia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio così fatto”. Un’idea ripresa poi da Scipione Ammirato che nel suo “Discorso sopra Cornelio Tacito” definisce la Ragione di stato come “contraventione di ragione ordinaria per rispetto di publico beneficio, overo per rispetto di magione e più universal ragione”. Già Platone nella “Repubblica” affermava: “Ora se c’è qualcuno che ha il diritto di dire il falso, questi sono i governanti per ingannare nemici o concittadini nell’interesse dello stato” e lo stesso Hobbes nei suoi scritti sottolinea più volte il principio “salus populi suprema lex”, la salvezza del popolo, è la legge suprema. Concetti questi osteggiati dai precusori della rule of law: Isidoro di Siviglia, uno dei più rilevanti esponenti della cultura medioevale, ripeteva che chi non governa rettamente perde il titolo di re, non è più che un tiranno; Agostino, nella sua “De Civitate Dei”, chiariva che “ubi iustitia non est, non est res publica”, dove non c’è giustizia non c’è stato, e il giurista inglese Bracton, dell’XI secolo, proclamava senza sosta il dominio incondizionato della legge: lex facit regem, è la legge che fa il re, e non viceversa. La Ragion di stato, fondamento di privilegi e prerogative dell’autorità pubblica e della deroga rispetto al sistema giuridico ordinario, è, insomma, una trasgressione da parte del potere pubblico in considerazione di ciò che è opportuno, utile, di ciò che lo stato è obbligato a fare per raggiungere, in ogni data circostanza, il “sommo della sua esistenza” e che risponde a tre caratteristiche: è legittimato dalla necessità, giustifica mezzi straordinari per fini superiori e presuppone l’esigenza del segreto. Già nel XII secolo, giuristi e clero citavano la massima romana del decreto di Graziano: necessitas legem non habet, la necessità non conosce alcuna legge. La necessità pubblica legittimava la sospensione provvisoria di tutti i legami privati, naturali e contrattuali. Giovanni Gerson nel 1404 dichiarava che le leggi, se contrastano alla conservazione della pace, scopo supremo dello stato, o andavano interpretate in modo da conseguire tale scopo oppure andavano ignorate. Il concetto di necessitas trova spazio anche all’interno della teologia: Tommaso d’Aquino scrive, infatti, che se si dovesse presentare una situazione in cui l’osservanza di una legge si rivelasse funesta per la salvezza comune non bisognerebbe osservarla. La necessitas brucia la distinzione tra arbitrarietà e discrezionalità, tra giusto e ingiusto, tra legittimo e illegittimo. Nel famoso capitolo 18 del “Principe”, Machiavelli, avverte che un principe non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono ritenuti buoni perché spesso, per mantenere lo stato, è necessario operare contro la parola data, contro la carità, contro l’umanità e contro la religione. Nella “Enciclopedia” degli illuministi il tema è trattato da una prospettiva ben diversa: “Qualche autore ha creduto che ci fossero delle occasioni in cui i sovrani erano autorizzati ad allontanarsi dalle severe leggi della probità e che in quelle circostanze il bene dello Stato che governano consentisse loro di intraprendere azioni ingiuste nei confronti degli altri stati e che il vantaggio del loro popolo giustificasse l’irregolarità delle loro azioni. Queste ingiustizie, autorizzate dalla Ragion di stato, si fondano sul principio che i sovrani dovendo ricercare tutto ciò che può rendere felici e tranquilli i popoli a loro sottomessi abbiano il diritto di impiegare tutti i mezzi che tendono a un fine tanto salutare. Per quanto attraente possa essere questo ragionamento, è assai importante per la felicità del mondo limitarlo entro giusti confini”. Visioni molto lontane che sono ben sintetizzate dal filosofo e giurista francese Jean Bodin che, negli stessi anni, faceva notare come non sia così facile il giudizio quando il principe ha in sé qualcosa sia di un buon re, sia di un tiranno. I tempi, i luoghi, le persone, le occasioni che si presentano, scriveva, costringono spesso i principi a fare cose che sembrano tiranniche agli uni, lodevoli ad altri. Venendo a tempi più recenti, notiamo che l’emergenza, la deroga, il riconoscimento di circostanze eccezionali sono sempre stati tipici delle situazioni di guerra. Nel 1861, Abraham Lincoln sospese l’habeas corpus. Nel 1917 quando gli Stati Uniti entrarono nella Prima guerra mondiale si levarono forti voci di dissenso e contestazione. Il presidente Woodrow Wilson perdette la pazienza e emanò l’Espionage Act nel 1917 e l’anno successivo il Sedition Act che, di fatto, rendevano illegale ogni critica al governo degli Stati Uniti, al suo Presidente, alla guerra, alla Costituzione e al personale militare. Il dipartimento di Giustizia americano perseguì più di 2.000 persone e i giudici ne condannarono alcune a più di 20 anni di prigione per aver distribuito dei volantini contro la guerra. La Corte Suprema degli Stati Uniti, nella maggior parte dei casi, confermò le accuse e le sentenze, in un clima di totale deferenza del potere giudiziario a quello esecutivo. Negli anni che seguirono la fine della Prima guerra mondiale, in molti si opposero a quegli eccessi: buona parte dei condannati vennero rilasciati e i giudici criticati per essere stati troppo accondiscendenti nei confronti del potere esecutivo.
(Nella seconda guerra mondiale vi fu poi l'internamento dei nippoamericani, Ndr)
Il famoso capo dell’Fbi, J. Edgard Hoover, segnalò che quell’evacuazione di massa era frutto di isteria eppure l’ordine fu confermato dal presidente e passò il vaglio della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel caso Korematsu vs. United States del 1944, affermò: “Noi non ignoriamo le sofferenze imposte a un ampio gruppo di cittadini americani. Ma le sofferenze sono parte della guerra, e la guerra è un insieme di sofferenze”. Ancora una volta, alla fine della Seconda guerra mondiale si levarono voci contro questo drammatico capitolo della storia americana e nel 1976, nel bicentenario della Costituzione, il presidente Gerald Ford pronunciò la Presidential Proclamation 4417, chiedendo scusa per gli errori commessi. In entrambi i casi la situazione di guerra ha fatto venire meno lo stato di diritto e alla fine dei conflitti sono stati riconosciuti gli errori e, quando possibile, riparati i danni. Oggi ci troviamo in una situazione differente: come organizzare l’azione dell’esecutivo per proteggerci dal terrorismo e allo stesso tempo proteggerci dal governo stesso? La questione è che il terrorismo internazionale non sembra essere un problema transitorio, non vi sono invasori con la divisa da cui difenderci. Non vi è una dichiarazione di guerra che inizia le ostilità e un trattato di pace che ne sancisce la fine. Non ci sarà un D-Day o una foto di un marinaio americano che bacia una ragazza francese sui Champs Élysées. Al Qaida e organizzazioni terroristiche simili hanno colpito con successo e in modo furtivo negli Stati Uniti, Algeria, Indonesia, Giordania, Kenia, Marocco, Pakistan, Tanzania, Tunisia, Turchia, Inghilterra, Spagna e Yemen. E’ stato calcolato che l’attentato delle Torri Gemelle è costato ai terroristi poco più di 500.000 dollari e ha causato danni per 80 miliardi di dollari. Ci si è trovati impreparati dal lato dell’intelligence e dal lato giuridico. Dal lato dell’intelligence i terroristi hanno trovato una falla del sistema americano. Fino all’ottobre 2001, una legge non permetteva alla Divisione controspionaggio dell’Fbi (Foreign Counterintelligence Division Fci) di scambiare informazioni con la Divisione investigazioni criminali. Era stato eretto tra le due un “chinese wall” per eliminare la possibilità che gli abusi perpetrati dal capo dell’Fbi Hoover, che spiava Martin Luther King e altri americani che considerava dei traditori, si ripetessero. Andrew McCarthy, il pubblico ministero del processo all’attentato del World Trade Center del 1993, ha affermato che gli agenti della Fci erano sulle tracce dei due attentatori che si sarebbero poi imbarcati sul volo 77 schiantatosi vicino al Pentagono, ma che non potevano scambiare le informazioni con i loro colleghi. Sarebbe stato illegale. Dal punto di vista giuridico, il terrorismo internazionale è molto di più di un atto criminale e qualche cosa di molto diverso da una guerra. Le norme non erano adatte a far fronte al fenomeno e il clima di urgenza ha fatto sì che ci si inventasse la categoria di “nemici combattenti illegali”, per evitare sia l’applicazione delle norme interne penali, con tutte le garanzie accessorie, sia la convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Un giorno, forse, gli Stati Uniti avranno nei confronti di Guantanamo lo stesso atteggiamento che ha seguìto le leggi eccezionali della Prima e Seconda guerra mondiale. Vi sono nella lotta la terrorismo alcuni eccessi che vanno corretti e vittime da risarcire ma, d’altra parte, è necessario avere una stato risoluto nel combattere questi fenomeni. Uno stato non sufficientemente determinato è uno stato che tradisce le sue principali responsabilità. I diritti di una persona, quelli che tutti noi vorremmo fossero sempre rispettati e assicurati, non si proteggono da soli. Un governo efficiente e attivo non è nemico dei diritti individuali ma ne è la salvaguardia. Una capacità di intelligence a la possibilità di agire in modo segreto sono elementi essenziali per la lotta al terrorismo internazionale, una lotta che, stando all’ultimo rapporto dell’Europol, ha già dato qualche successo, dal momento che sempre di meno sembrano essere i terroristi che agiscono in modo organizzato in Europa. Il potere di agire senza l’intelligence è inutile. Nei primi mesi del 1917, gli inglesi intercettarono, decodificarono e passarono a Washington il “telegramma Zimmermann”, una proposta che il ministro degli esteri del Kaiser Wihelm II faceva al governo messicano promettendogli, se si fosse alleato con i tedeschi in caso di entrata in guerra degli Stati Uniti, il territorio del Texas, New Messico e Arizona. Un’informazione che aiutò il presidente degli Stati Uniti a ottenere il supporto del Congresso per l’entrata i guerra nell’aprile dello stesso anno. Per la cronaca, il segretario di Stato del presidente Hoover, Henry Stimson, chiuse alla fine del conflitto la “Black Chamber”, il precursore della Nsa, che intercettava i diplomatici stranieri anche in tempo di pace, affermando che “i gentiluomini non leggono la posta altrui”. Edward Snowden ha rivelato che l’intelligence australiana ha messo sotto controllo, con l’aiuto degli Stati Uniti, la rete di comunicazione dati e voce indonesiana. Nell’ottobre 2002, un attacco terroristico nell’isola indonesiana di Bali provocò 202 morti e 240 feriti. 88 persone di nazionalità australiana perirono. Uno stato ha il dovere di proteggere i propri cittadini prevenendo atti terroristici e assicurarne gli esecutori alla giustizia. Nulla di strano, nulla di ingiusto nel fatto che uno stato responsabile ed efficace abbia voluto porre in essere tutto quanto in proprio potere per non venire meno alle proprie responsabilità e non poteva che farlo in modo segreto, per non urtare le sensibilità nazionalistiche altrui. Se è vero che il diritto internazionale punisce quei governanti che negano i più elementari diritti civili e politici ai propri cittadini arrivando, giustamente, a rendere legittimo l’intervento armato straniero per garantire i basilari diritti umani e a punire i capi di stato che li hanno violati, allora ci si potrebbe chiedere se la stessa responsabilità non debba essere addebitata ai governanti che non mettono in essere tutto ciò che possono per garantire questi diritti. Il segreto è condizione essenziale dell’intelligence e dell’agire contro il terrorismo internazionale. Tutti noi vorremmo un “governo del potere pubblico in pubblico”, non vorremmo abbandonare i tratti caratteristici della nostra civiltà: libertà di religione, libertà di pensiero e parola, il controllo civile delle forze armate, la libertà di muoverci, libertà dall’intrusione del governo nella nostra vita di tutti i giorni, una diffidenza a tutto ciò che è segreto nel pubblico. Ma non possiamo permetterci di ignorare il pericolo dell’attuale scenario internazionale in cui, tra l’altro, cresce il numero di stati senza un effettivo controllo da parte di un governo centrale e che, dunque, sono il vivaio e il riparo per il terrorismo internazionale. E non possiamo permetterci che il terrorismo sfrutti le aperture che la nostra società offre. La nostra Corte Costituzionale ha avuto modo di rappresentare che il segreto di stato trova la sua ragione nell’“interesse supremo della sicurezza dello stato nella sua personalità internazionale e cioè l’interesse dello stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza e al limite alla stessa sua sopravvivenza”. Fa parte dei doveri di uno stato democratico tutelare e garantire i segreti meritevoli di tutela e proteggere le persone che gestiscono questi segreti. Certo, non è semplice trovare un equilibrio. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo continua a sottolineare che quando un potere spettante all’esecutivo è esercitato in segreto, i pericoli dell’arbitrarietà sono evidenti. I casi delle “extraordinary renditions”, le consegne straordinarie, in Inghilterra, Stati Uniti, Turchia, Bulgaria, Macedonia, Serbia, di persone che venivano rapite per poi essere trasportate e interrogate, anche con metodi piuttosto bruschi, in località protette, ha messo a dura prova  l’istituto del segreto di stato in Italia che comunque ha retto nel caso Abu Omar e lo stesso è avvenuto in Inghilterra e Stati Uniti. Ma proprio perché, fortunatamente, gli esecutivi di quasi tutto il mondo hanno la possibilità di agire in segreto e opponendo il segreto di stato alle altre istituzioni, questi hanno una speciale responsabilità. Senza mai dimenticare tuttavia che abbiamo di fronte persone e organizzazioni che ben poco condividono della nostra cultura. Un concetto che Seneca aveva ben presente quando scriveva che “chi disprezza la propria vita è padrone della tua”.

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