Testata: La Repubblica Data: 18 giugno 2014 Pagina: 55 Autore: Franco Marcoaldi Titolo: «Zweig-mania. Tutti pazzi per l'ebreo errante»
Riprendiamo, da REPUBBLICA di oggi, 18/06/2014, a pag. 55, l'articolo di Franco Marcoaldi dal titolo "Zweig-mania. Tutti pazzi per l'ebreo errante".
Franco Marcoaldi Stefan Zweig
Per saggiare il grado di interesse che sta nuovamente suscitando l'opera di Stefan Zweig, basta entrare in libreria: vi attende un intero scaffale di libri pubblicati da editori i più diversi - Adelphi, Castelvecchi, Einaudi, Elliot, Garzanti, Frassinelli, Donzelli, Passigli, Bompiani, Newton Compton, Mondadori. Si farebbe prima a nominare chi oggi non lo abbia in catalogo. Con Zweig, del resto, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Lo scrittore viennese è di una prolificità naturale: almeno in questo figlio più dell'Ottocento che del Novecento, verrebbe da dire. Il suo idolo giovanile era stato Hugo von Hoffmansthal, ma l'impasse espressiva incarnata nella geniale Lettera di Lord Chandos sembra non riguardarlo. Zweig crede fermamente nel potere benefico della parola letteraria e difatti la sperimenta in tutte le sue possibili forme: è poeta, traduttore, novelliere, drammaturgo, biografo, librettista, conferenziere. Sino a raggiungere, negli anni Venti, una fama universale sconosciuta a qualunque altro scrittore europeo. Ma con l'avvento di Hitler, essendo lui ebreo, i suoi libri finiscono al rogo e vengono banditi in tutti i paesi vassalli della Germania nazista. Nel 1942, la tragica morte per suicidio in Brasile, dove si era esiliato con lo spirito affranto di chi «segue da vivo il suo funerale», aiuta l'oblio: per lunghi anni la sua figura resterà sotto traccia. Zweig era troppo legato «al mondo di ieri», titolo di quelle sue magnifiche memorie in cui inneggiava «all'età d'oro della sicurezza» tramontata con la Prima guerra mondiale. Anche le sue novelle parevano fuori luogo in un'epoca di sperimentalismi e neoavanguardie. E da ultimo ci pensarono alcuni esimi studiosi - come il caposcuola della germanistica italiana, Ladislao Mittner - a liquidarlo come un «superficialissimo divulgatore». Ciò detto, almeno da noi, e per fortuna, l'opera di Zweig non è mai uscita davvero di scena: nel corso del tempo, schiere di lettori gli sono comunque rimaste fedeli. Ma ora si assiste a qualcosa di diverso: a una rinnovata ediffusa passione, che supera qualunque frontiera. E investe ad esempio quel mondo anglosassone dove in passato Zweig ebbe una fortuna più circoscritta. Al punto che il New York Times parla di una vera e propria "Zweigmania": come si evince da un bell'articolo di Larry Rother che enumera gli innumerevoli segnali di questa renaissance e ne ricerca le ragioni più profonde. Una mano l'avrà data anche il film di Wes Anderson Grand Budapest Hotel, che si aggiunge a una lunghissima serie di pellicole ispirate ai libri di Zweig, ivi incluse quelle di registi come Max Ophüls e Roberto Rossellini. Poi c'è la pubblicazione delle lettere, nuove edizioni delle sue opere e l'uscita di saggi e romanzi ( come quelli di George Prochnik e della francese Laurent Seksik) incentrati sull'ultima, dolorosa stagione della sua vita. L'articolo di Rother, una vera miniera di informazioni, offre una disamina attenta delle possibili ragioni di questa Zweigmania: cantore di un mondo scomparso, il grande viennese esercita il fascino di chi ne è stato protagonista e vittima al medesimo tempo. L'amicizia con Sigmund Freud lo aiuterà a trasferire sulla pagina letteraria i moti più oscuri della psiche. I suoi racconti, tradizionali nella struttura, spesso si rivelano imprevedibili nel delineare le traiettorie dei personaggi. Per non parlare, infine, del peso morale assunto da questo «apostolo del pacifismo, della tolleranza e dell'amicizia». E qui viene in soccorso la biografia, appena uscita per Castelvecchi ( traduzione di Benia Gradante ), dedicata a Romain Rolland: «musicista per genio, poeta per inclinazione, storico per necessità». E un vero e proprio maestro per Zweig. Capace di sostenere l'indifferenza ultradecennale del mondo circostante, salvo ottenere una fama tardiva e improvvisa, Rolland persegue con testarda tenacia la sua idea pacifista fondata sul ritorno alla tradizione del grande umanesimo europeo. A fronte del fanatismo di massa, altro non resta che il richiamo all'autorità suprema della coscienza individuale. E la concreta testimonianza della fratellanza universale. Zweig si farà convinto paladino della stessa battaglia ideale, a dispetto degli insorgenti totalitarismi e della bestia nera del nazionalismo, che continuano imperterriti il loro cammino. D'altronde, nelle sue originalissime biografie (da Balzac a Maria Antonietta; da Montaigne a Fouché ) , veri e propri scandagli dell'anima umana, Zweig non va mai in cerca dell'eroe vincente. L'eroismo che gli interessa è di tutt'altra lega e rimanda al coraggio morale («l'unico eroismo di questo mondo che non esiga vittime estranee»). Più in generale, lo scrittore austriaco prenderà sempre, e naturalmente, le parti del vinto, in cerca di quella paradossale superiorità spirituale insita nella sconfitta. Anche nella narrativa procede allo stesso, identico moda. «Nelle mie novelle fu sempre chi cede al destino ad attirarmi». Chiunque abbia letto Amok, La novella degli scacchi, Lettera di una sconosciuta o i quattro racconti di Una notte fantastica sa bene che cosa Zweig intenda quando afferma che «per quanto il cammino sembri deviare dai nostri desideri in modo bizzarro e assurdo, esso finisce per condurci sempre alla nostra meta invisibile». E ciò che accade nelle «ore stellari», in quei rari Momenti fatali (Adelphi ) in cui la vita ci mette davanti a una stretta decisiva. E intraprendere o meno l'azione a cui siamo chiamati, significa non soltanto modificare il corso della propria esistenza, ma in certi casi quello dell'intera umanità. Zweig ce lo racconta in "quattordici miniature storiche" relative a personaggi famosi e non: da Dostoevskij al creatore della Marsigliese; da Händel al generale Grouchy, l'involontario protagonista della catastrofe napoleonica di Waterloo. Chi, come Zweig, aveva patito il prezzo di quella irresolutezza in cui si era rispecchiato scrivendo la biografia su Erasmo, va perennemente in cerca del nodo gordiano da recidere con nettezza. Ma non si può scegliere il proprio daimon. Al resto, ci penseranno le contingenze storiche: inducendo il viennese a una resa definitiva. Da sempre soggetto a ricorrenti depressioni, una volta giunto in Brasile, Zweig non trova più nemmeno il conforto del lavoro. Come scrive nella sua ultima lettera: «Per convincere bisogna essere convinti». E quella convinzione interiore, ormai, gli è venuta a mancare.