Iraq: come combattere il Califfato ? reportage dal Kurdistan di Lorenzo Cremonesi, analisi di Daniele Raineri, Mattia Ferraresi
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Lorenzo Cremonesi - Daniele Raineri - Mattia Ferraresi Titolo: «Nella base dei peshmerga curdi 'Così il settario Maliki uccide l'Iraq' - La natura imperialista del Califfato - E ora come combattiamo l'Isis ?»
Riprendiamo, dal CORRIERE della SERAdi oggi, 18/06/2014, a pag. 14, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Nella base dei peshmerga curdi 'Così il settario Maliki uccide l'Iraq' " e dal FOGLIO, a pag. 1, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "La natura imperialista del Califfato " e l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "E ora come combattiamo l'Isis ?".
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi - Nella base dei peshmerga curdi 'Così il settario Maliki uccide l'Iraq'
Lorenzo Cremonesi Un peshmerga curdo iracheno
Erbil - L'accusa contro il premier iracheno è durissima, senza appello. «Da almeno due anni dicevamo a Nouri al Maliki che il Paese stava scoppiando. Gli chiedevamo di aprire il dialogo politico con noi, e soprattutto con i sunniti, per la creazione di un governo inclusivo. A dicembre poi i nostri militari comunicavano sempre più allarmati all'esercito iracheno che gli estremisti sunniti stavano armandosi, che i jihadisti arrivavano dalla Siria, che precipitavamo verso la catastrofe. Ma lui niente. Muto, altezzoso, sprezzante. Non ci rispondeva. Oppure ci lasciava capire di considerare i nostri allarmi al pari di macchinazioni, fumo negli occhi, trucchi per limitare il suo potere. Si è comportato non da primo ministro dello Stato unitario iracheno, bensì come un capetto cieco, confessionale e settario degli estremisti sciiti. E adesso siamo finiti nel baratro: nel pieno della guerra di religione. L'Iraq non potrà mai più tornare come prima. Maliki ora ci chiede aiuto, ma è troppo tardi». Parola di Jabar Yawer, 56 anni, generale peshmerga dello stato maggiore curdo. Una requisitoria, la sua, che rispecchia il pensiero dei massimi leader curdi e viene ripetuta tra i diplomatici europei, a Washington e nei circoli moderati sunniti Gli americani invitano Maliki a cercare un compromesso con il mondo sunnita? Lui replica accusando l'Arabia Saudita di fomentare il «genocidio» in Iraq. Le sue brigate scelte sono in realtà il fior fiore dei volontari sciiti che rispondono all'appello del Grande Ayatollah Ali al Sistani per difendere i luoghi santi dello sciismo a Samarra, Bagdad, Najaf e Karbala. Maliki sta fortificando il suo ufficio presso la «zona verde» di Bagdad, dove notte e giorno resta in contatto con i suoi ufficiali e dialoga con i responsabili iraniani per l'arrivo dei Pasdaran da Teheran. Ieri il premier ha dimesso diversi generali. Dai campi di battaglia tornano intanto le immagini dei massacri dei prigionieri diffuse sulla Rete. Dopo quelle dei sunniti che uccidono gli sciiti, le più recenti sono giunte ieri dal carcere di Baqouba, 60 chilometri a nord della capitale. Ancora giovani colpiti dai proiettili alla testa e al torace, le mani legate dietro la schiena, ammonticchiati gli uni sugli altri, sangue e sudore, una carneficina. Stavolta pare che almeno 44 prigionieri sunniti siano stati uccisi dalle guardie sciite. I comandi dell'esercito a Bagdad accusano i sunniti. Ma tre poliziotti sul posto testimoniano l'opposto. La linea del fronte resta incerta. Baqouba è sotto assedio. Si combatte a Tel Afar, la cittadina tra Mosul e il confine siriano catturata due giorni fa dai sunniti e che ora le brigate sciite tentano di riconquistare con l'appoggio di artiglieria e aviazione. Scontri anche a Falluja e Ramadi, nel cuore delle province sunnite. A Bagdad un'autobomba ha causato almeno 10 morti nel quartiere sciita di Sadr City. Incontriamo il generale Yawer nelle stanze del quartiere generale peshmerga a Erbil. Su una mappa al muro indica la dimensione epocale degli stravolgimenti avvenuti nell'ultima settimana. «Sino a poco tempo fa il confine tra la zona autonoma curda e lo Stato iracheno era lungo 1.050 chilometri, dalla Siria all'Iran. Ora si è ridotto ad una striscia di terra ampia meno di 50 chilometri vicino all'Iran. Tutto il resto è caduto in mano alla coalizione di forze eterogenee che compone la rivolta armata sunnita». Yawer racconta le cronache recenti: «Da circa tre settimane la nostra intelligence aveva individuato l'infiltrazione delle avanguardie più fanatiche dello "Stato Islamico dell'Iraq e del Levante" dalla Siria orientale alla regione irachena di Ninive. Quasi 3.000 uomini si erano attestati a Rabiah, il quartiere meridionale di Mosul. Ma le forze di sicurezza irachene non avevano mosso un dito. Quando poi è cominciato l'attacco, i soldati governativi sono scappati». Proprio le conseguenze della fuga dell'esercito in tutto il Nord del Paese rappresentano l'incubo dei comandi curdi Le milizie sunnite si sono impadronite di carri armati «made in Usa», elicotteri, jet, artiglierie e giganteschi depositi di armi leggere e munizioni. «All'inizio gli aggressori erano milizie primitive abituate alla guerriglia in Siria. Ma stanno diventando un vero esercito che, forte delle sue vittorie, attira nuovi volontari. Siamo molto preoccupati», commenta il generale. I curdi rafforzano la linea del fronte, barricano la regione da loro occupata attorno ai pozzi petroliferi di Kirkuk e intensificano la collaborazione con le milizie curde in Siria, da tre anni impegnate nello scontro con i ribelli sunniti locali. Per loro il sogno di uno Stato indipendente è già realtà, ma devono ora difendersi dalle conseguenze della guerra sciito-sunnita.
IL FOGLIO - Daniele Raineri - La natura imperialista del Califfato
Daniele Raineri Abu Bakr Al Baghdadi
Roma - La proposta è semplicissima: vogliono creare un Califfato? Lasciamoglielo fare. Poi lo bombardiamo. L’ha pubblicata ieri un consulente del dipartimento politica dei Marines americani, Franz Gayle, su un sito specializzato in questioni militari. Gayle riconosce che il programma dello Stato islamico è reale, il gruppo armato sunnita che conquista territori e città a cavallo tra Siria e Iraq, sta davvero creando un embrione di Califfato. “Accettiamo il desiderio dei jihadisti di creare uno stato islamico. E’ proprio per questo tipo di aggressori irriducibili e concentrati che abbiamo sviluppato il concetto di air power. Terribile ? Sì. Necessario? Assolutamente. Lo stesso calcolo spietato fu applicato anche durante la Seconda guerra mondiale”. L’istanza Gayle suona assurda – Mosul è una città da quasi due milioni di abitanti – ma è uno dei primi segni che si comincia a reagire e accettare quello che gli ideologi dello Stato islamico vanno ripetendo da tempo. Hanno un traguardo. E’ ritagliare dalla mappa tradizionale del medio oriente uno spazio nuovo, che sarà sottratto con la forza al territorio degli altri stati e di cui ancora non conosciamo i confini. Il motto di combattimento è “Dawla al islamiya! Baqiya wa tatamadad!”, in arabo: “Stato islamico! Resistere ed espandersi!”. Un altro motto è “Min Diyala ila Dahie”, che vuol dire “Da Diyala”, la provincia dell’Iraq più a oriente, lungo il confine con l’Iran, “fino a Dahie”, che è il quartiere sciita di Beirut, in Libano. In pratica: dall’Iran al mar Mediterraneo. “Avete provato i governi secolari, la Repubblica, i baathisti, gli sciiti: ora è il momento dell’imam dello stato islamico, Abu Bakr al Qureishi (Al Baghdadi)”. Il loro portavoce, un leader che si chiama Abu Mohammed al Adnani ed è molto apprezzato dai suoi sostenitori per il lirismo dei discorsi – ed è odiato da tutte le altre fazioni arabe coinvolte in questo Grande gioco mesopotamico – parla spesso nei suoi annunci di arrivare a Roma, simbolo del potere occidentale. Sì, può sembrare una licenza poetica, ma alla fine di marzo, il giorno dopo la visita del presidente americano, Barack Obama, al Colosseo, su internet è apparsa una mano ignota che reggeva un foglio di carta con il motto dello Stato islamico. Dietro, il Colosseo transennato. Come a dire, siamo anche qui. L’altra città citata sovente nei messaggi del gruppo è Gerusalemme, in arabo al Quds. “La Siria – dice un grande murale dipinto dallo Stato islamico nel piccolo centro di al Bab, vicino Aleppo – è il cancello per arrivare ad al Quds”. Charles Lister, visiting fellow al Brrookings Center di Doha, scrive che il gruppo in Iraq conta circa ottomila uomini, assolutamente insufficienti per tenere (bayiya) il terreno su cui riescono a espandersi (tatamadad). Per questo stanno stringendo alleanze funzionali con tutta una serie di altri gruppi, uniti dallo stesso odio per il governo del primo ministro sciita Nouri al Maliki. Tra questi gruppi ci sono i rivoltosi delle tribù sunnite e i baathisti, reduci dalla disfatta contro gli americani nel 2003. Lister sottolinea un punto: queste alleanze tendono a spezzarsi, per le evidenti difficoltà a integrare visioni così diverse. A meno che, come sta succedendo, le differenze non siano appiattite da una guerra totale degli sciiti contro i sunniti. In quel caso, la necessità porterebbe a radunarsi sotto la bandiera nera. Così si spiegano le provocazioni sanguinose da entrambe le parti. Ieri la polizia della città di Baquba, prima di ritirarsi da una prigione assediata, ha ucciso 44 detenuti sunniti in risposta al massacro di soldati a Tikrit della settimana scorsa. Se non ci sono sfumature, si va verso la guerra totale.
IL FOGLIO - Mattia Ferraresi - E ora come combattiamo l'Isis ?
Mattia Ferraresi William Kristol Fred Kagan
New York - Che fare? La più rivoluzionaria delle domande rimbalza nei corridoi dell’Amministrazione Obama a proposito della lacerante situazione in Iraq, figlia legittima di anni di traccheggiamenti nell’adiacente ginepraio siriano. Di fronte alle crisi internazionali di questi anni, la Casa Bianca ha insistito fino allo sfinimento sull’efficacia dello “smart power” e la varietà degli strumenti a disposizione del governo – dai droni alla diplomazia fino agli aiuti economici e al sostegno militare alle popolazioni ribelli – secondo l’idea obamiana che “non tutti i problemi hanno una soluzione militare”, ma l’avanzata repentina dei terroristi dell’Isis in Iraq restringe il ventaglio delle opzioni americane a tre alternative, nessuna delle quali è particolarmente desiderabile per Washington. La prima opzione è un intervento militare diretto; la seconda è una scivolosa alleanza di natura tattica con l’Iran nel nome del comune nemico sunnita; la terza è non fare nulla, un classico della politica estera obamiana. L’urgenza della situazione in Iraq ha messo in moto gli analisti di politica estera, che ormai riconoscono all’unanimità le minacce che l’espansione di Isis comporta per gli interessi degli Stati Uniti nella regione e, potenzialmente, anche per la sicurezza in patria, vista la campagna di reclutamenti che il network terroristico sta facendo in occidente. Nel discorso all’accademia di West Point il presidente ha detto che è legittimo per gli Stati Uniti “usare la forza militare, se necessario unilateralmente, quando il nostro ‘core interest” lo richiede: quando la nostra gente è minacciata, quando le nostre risorse sono in gioco, quando la sicurezza dei nostri alleati è minacciata”. Facendo leva sul “core interest” minacciato, William Kristol e Fred Kagan, il primo intellettuale neoconservatore, il secondo analista militare e anima civile del generale David Petraeus durante il surge iracheno, propongono un piano per smantellare Isis senza consegnare l’Iraq all’Iran sciita, cioè senza “appoggiare una fazione in questa guerra”. Si tratta di cacciare dall’Iraq tutti i guerriglieri stranieri, dagli arabi sunniti agli iraniani alle truppe di Hezbollah, e questo “richiede la volontà di mandare forze militari americane in Iraq”. Non solo bombardamenti aerei (colpire dall’alto senza intelligence sul campo è inutile, lo ha ricordato anche il generale americano Anthony Zinni) ma anche “forze speciali ed eventualmente truppe regolari”. “E’ l’unica possibilità – scrivono Kristol e Kagan – di convincere gli arabi sunniti iracheni che esiste un’alternativa fra al Qaida e il governo sciita”. Sul Wall Street Journal l’analista Danielle Pletka e l’ex generale Jack Keane articolano in modo anche più dettagliato una soluzione analoga. La seconda opzione – l’alleanza con l’Iran – è quella che il segretario di stato John Kerry non ha escluso (ma non ha escluso nulla, nemmeno i droni) e i diplomatici americani ne stanno discutendo a Vienna a margine delle trattative ufficiali sul nucleare. Non sfugge però che un patto con il nemico il quale è anche uno dei principali fattori destabilizzanti nello scenario che l’America tenta di stabilizzare non ha l’aria di una soluzione solida. La terza alternativa, una pianificata inazione da preferire, per calcolo strategico o opportunità politica, agli eccessi avventuristici del passato è quella che ha portato l’Iraq dov’è oggi.
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