Apologie del regime degli ayatollah di Farian Sabahi e di Vali Nasr
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica Autore: Farian Sabahi - Alix Van Buren Titolo: «L’intervento dell’Iran contro l’Isis. I costi di una guerra di religione - L'appello di Vali Nasr 'Lavoriamo con Teheran o il Terrore ci colpirà'»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/06/2014, a pag. 40, l'articolo di Farian Sabahi dal titolo "L’intervento dell’Iran contro l’Isis. I costi di una guerra di religione" e da REPUBBLICA a pagg.14-15 l'intervista di AlixVan Buren al politologo iraniano-americano Vali-Nasr Farian Sabahi e Vali Nasr sono concordi nel prospettare l'alleanza USA-Iran come un fatto positivo. Dimenticando il sostegno al terrorismo da parte del regime degli ayatollah, la sua volontà di distruggere Israele e di diffondere la rivoluzione islamica nel mondo, il suo odio per l'America ("Grande Satana"), la sua corsa agli armamenti nucleari e le violazioni dei diritti umani. Tutte realtà che non sono state mimimamente modificate dalla presidenza del "moderato" Hassan Rohani. Vali Nasr lancia giustamente l'allarme sul pericolo rappresentato dallo 'Stato islamico in Iraq e nel Lervante', ma sottovaluta quello di Teheran. Farian Sabahi, invece, da sempre apologeta del regime, è interessata soprattutto a criticare George W. Bush per averlo inserito tra i paesi considerati parte dell'"Asse del Male"dall'America. Non sottovaluta il pericolo, lo nega a dispetto dell'evidenza. Per altre informazioni sull'attività di propagandista a favore dell'Iran di Farian Sabahi sulle testate italiane, scrivere ul suo nome nella finestra "CERCA NEL SITO", in Home Page in alto a sinistra.
Di seguito, gli articoli:
Lancio di missili iraniani
CORRIERE della SERA - Farian Sabahi - L’intervento dell’Iran contro l’Isis. I costi di una guerra di religione
Farian Sabahi
Quanto ha da guadagnare l’Iran, e che cosa rischia lasciandosi coinvolgere in Iraq contro i jihadisti dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante)? Parecchio, nell’uno e nell’altro senso. Innanzitutto, una premessa: quello lasciato in eredità dall’Ayatollah Khomeini nel 1989 è un sistema politico complesso, che non parla a voce sola: da una parte c’è il governo del presidente moderato Hassan Rohani che tesse relazioni diplomatiche e commerciali, dall’altra gli apparati di sicurezza e le Guardie rivoluzionarie (pasdaran ) che rispondono al leader supremo Khamenei. Cominciamo dai vantaggi di un coinvolgimento in Iraq. In primis , è evidente che l’apertura di Washington a Teheran, giustificata dal comune obiettivo della stabilità regionale, permette ad ayatollah e pasdaran di vedersi finalmente riconosciuto un ruolo positivo in Medio Oriente. Non sarebbe la prima volta che iraniani e americani collaborano: nel giugno 1998, durante la presidenza del riformatore Khatami, il segretario di Stato Madeleine Albright definì critico il ruolo dell’Iran nella lotta contro i Talebani in Afghanistan. Gli iraniani non furono però ricompensati per la collaborazione e il 29 gennaio 2002, nel discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente George W. Bush inserì l’Iran nell’Asse del male. Un dettaglio, per molti occidentali, non per la diplomazia e l’opinione pubblica iraniana. Ora, la coincidenza è propizia, perché a Vienna è in corso (fino a venerdì) il quinto round di negoziati sul nucleare e il riavvicinamento con Washington potrebbe portare a un alleggerimento delle sanzioni entro il 2016, permettendo al presidente Rohani di ottenere consensi in patria. In secondo luogo, andando a dare manforte all’esercito iracheno contro i jihadisti dell’Isis che minacciano la moschea dell’Imam Ali a Najaf e il mausoleo dell’Imam Hossein a Kerbela, la Repubblica islamica si erge a baluardo dello sciismo. Una minoranza oppressa. Soprattutto in alcune monarchie sunnite del Golfo, in particolare in Arabia Saudita (il 15% della popolazione è sciita, vive nella regione orientale ricca di petrolio ma è discriminata) e Bahrein (la maggioranza della popolazione, sciita, si è ribellata al nepotismo e alla corruzione della dinastia regnante sunnita ma la primavera araba è stata repressa dai mercenari e dai carri armati inviati da Riad). Quella dell’Isis potrebbe però essere una trappola, mettere piede in Iraq potrebbe costare caro. Perché darebbe il pretesto ai jihadisti di sconfinare in territorio iraniano, obbligando i giovani iraniani ad indossare la divisa e a partire per il fronte. Un incubo per tantissime famiglie, memori della guerra scatenata da Saddam Hussein che nel settembre 1980 attaccò l’Iran approfittando della presunta debolezza di Teheran all’indomani della Rivoluzione islamica. Una guerra imposta, durata otto anni e costata, da parte iraniana, un milione di vite. I pericoli di un coinvolgimento non si fermano qui, perché si rischia di mandare a monte il lavoro della diplomazia di Teheran che da anni cerca di smorzare le differenze settarie tra sunniti e sciiti, tessendo legami anche commerciali. Soprattutto con le monarchie sunnite del Golfo che, spaventate dal successo rivoluzionario dell’Ayatollah Khomeini nel 1979, due anni dopo costituirono il Consiglio di Cooperazione del Golfo proprio in chiave anti-iraniana. Per attenuare i toni, per esempio, lo scorso dicembre il ministro degli Esteri iraniano Zarif si era recato in Kuwait, negli Emirati, in Oman e in Qatar (ma non in Bahrein e Arabia Saudita). Ricambiato, a fine maggio, dalla visita ufficiale dell’emiro del Kuwait, a cui i media hanno dato molta enfasi anche perché ripreso dalle televisioni mentre barcollava, ubriaco. Anche se Teheran non dovesse lasciarsi troppo coinvolgere, la crisi irachena costerà comunque parecchio perché gli iraniani esportano miliardi di dollari in beni di consumo a Bagdad e, secondo l’emittente iraniana Press Tv, a partire da questa estate dovrebbe iniziare la vendita di 3-4 milioni di metri cubi di gas al giorno, per un valore di 3,7 miliardi di dollari l’anno. Infine, una domanda: perché gli estremisti sunniti ce l’hanno a morte con gli sciiti? Certo, il premier iracheno Nouri al-Maliki ha sbagliato escludendo dalla politica i sunniti. Che questo serva da lezione: solo un processo di riconciliazione nazionale e l’inclusione garantiranno la stabilità necessaria. Ad avere un ruolo non irrilevante sono però anche le questioni squisitamente dottrinali: gli sciiti credono in un solo Dio e considerano Maometto profeta, ma a lui associano gli Imam, suoi legittimi successori. Non semplici essere umani, com’era Maometto, ma individui infallibili. Venerati, al punto che gli sciiti si recano in pellegrinaggio ai loro mausolei. Venendo così meno, agli occhi degli integralisti, al vero monoteismo.
LA REPUBBLICA - Alix Van Buren - L'appello di Vali Nasr 'Lavoriamo con Teheran o il Terrore ci colpirà'
Vali Nasr
L'egemonia dell'Isis su un territorio tanto ampio è una svolta strategica senza precedenti, carica di nefaste conseguenze per l'Occidente. L'Isis, un'emanazione di Al Qaeda persino più radicale e violenta, ora possiede uno smisurato santuario da Samarra in Iraq, al Sud, fino ai confini della Turchia, al Nord, passando per la Siria: stiamo parlando, nientemeno, dello storico avamposto d'Europa dominato dai fondamentalisti sunniti più radicali. Vali Nasr è un politologo in genere incline al tono e alle analisi moderate. Consigliere del Dipartimento di Stato, preside alla John Hopkins, esperto alla Brooking Institution e al Council on Foreign Relations, è una voce fra le più ascoltate sulle questioni mediorientali e il mondo islamico. Stavolta, al telefono, trasmette un senso di allarme. Professore Nasr, lei descrive un'area vasta il doppio della Giordania e ricca di risorse, in pugno all'Isis. Come si è arrivati a tanto? «È il risultato dell'unione di tre fattori. Il primo è l'intervento di Bush in Iraq: doveva limitarsi a rimuovere il regime di Saddam, invece ha finito col demolire lo Stato. Lo chiami pure un 'danno collaterale". Ma l'America non ha rimesso insieme bene i cocci. E naturale che il terrorismo si radichi in uno Stato fallito, privo del controllo di vaste aree del Paese. Su questo sfondo interviene il fattore numero due: il ritiro militare anticipato deciso da Obama ». Era una promessa elettorale. È stato un gesto affrettato? «La rapidità del ritiro ha provocato l'instabilità politica e la crisi della sicurezza. L'esercito iracheno non era forte quanto noi vantavamo. Non era disciplinato, non l'abbiamo armato a sufficienza, non poteva far fronte all'instabilità. Prova ne è che i generali a Mosul si sono lasciati corrompere, in cambio di denaro hanno ordinato ai soldati di fuggire a Erbil, lasciando il campo libero all'Isis. È questo il motivo del successo spettacolare degli estremisti. Però, se vogliamo conoscere il vero mostro, questo non è nato in Iraq» Vale a dire? «Il mostro è stato generato in Siria. La forza che ora invade l'Iraq proviene dall'esterno. C'è un legame diretto con la guerra civile in Siria, e questo è il terzo fattore. La scelta di Obama di non intervenire a Damasco ha permesso l'ascesa dell'estremismo sunnita. In più, questo ha gli stessi finanziatori in Siria e in Iraq». Quali sono i flnaaziatori? «Penso a ricchi privati del Golfo, all'Arabia Saudita e al Qatar a livello governativo. Nella loro strategia, Siria e Iraq formano un unico campo allargato dello scontro con 'I-ran. La guerra per procura è combattuta dagli estremisti. L'Isis è una creatura diretta del principe saudita Bandar, l'ex capo dell'intelligence di Riad». Bandar, il grande amico dei Bush, l'artefice dei mujaheddin in Afghanistan, è stato allontanato poco fa su pressione americana? «Sì, ma non è affatto certo che il suo apparato sia stato smantellato, compresi il sostegno, l'armamento, il finanziamento degli estremisti». Lei sta dicendo che per tragica ironia, prima della guerra di Bush il terrorismo era relativamente assente in Siria e Iraq, ora dilaga e minaccia l'Europa? «Proprio cosi. È sorto un vasto territorio controllato dagli estremisti, liberi di operare come mai prima. Erano già pericolosi nascosti nelle caverne. Ora reclutano, addestrano, muovono guerre, destabilizzano regimi. E un caso senza precedenti e un gravissimo pericolo per l'Occidente a causa del contagio terrorista». Obama considera un intervento e un coordinamento con l'Iran. Che opzioni ha? «Un'azione come quella francese nel Mali, o una minaccia aerea E necessario un massiccio impegno militare di Ue, Nato e Stati Uniti. Bisogna coinvolgere i Paesi frontalieri, la Turchia, la Giordania, persino l'Iran. Certo, non combatteranno nella stessa trincea; però, li unirà il consenso: tolleranza zero verso l'Isis. E poi, niente più indulgenza con gli alleati, Golfo e Turchia: i sauditi smettano di sostenere gli estremisti, i turchi sbarrino ai terroristi la frontiera con la Siria. In tutto questo, l'Occidente ha peccato di distrazione? «L'Europa s'è comportata come se il Medio Oriente fosse su Marte: indifferente. Ora il terrore colpisce in casa: s' è visto con la sparatoria a Bruxelles per mano di un francese reduce dalla Siria. II terrorismo è un virus, o un siluro in guerra: deve trovare un bersaglio, è parte del suo Dna».
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