Iraq: l'avanzata islamista, l'esitazione americana, il ruolo di Iran e Arabia Saudita Cronache e analisi di Lorenzo Cremonesi, Guido Olimpio, Francesco Semprini, Paolo Mastrolilli
Testata:Corriere della Sera - La Stampa Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio - Francesco Semprini - Paolo Mastrolilli Titolo: «Mitra, croci e nostalgia di Saddam - A Vienna prove d’intesa Usa-Iran. - L’America schiera navi e droni - L’America dialoga con l’Iran. 'Ma nessun patto militare'»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, a pagg. 16- 17, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Mitra, croci e nostalgia di Saddam" e , a pag. 17, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "A Vienna prove d’intesa Usa-Iran". Dalla STAMPA , a pag. 16, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo "L’America schiera navi e droni" e a pag. 17 l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo "L’America dialoga con l’Iran. 'Ma nessun patto militare'.
Di seguito, gli articoli:
In fuga da Mosul
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi - Mitra, croci e nostalgia di Saddam
Lorenzo Cremonesi
KARAKOSH — Pattuglie armate ad ogni angolo. Gli uomini di guardia sono visibili dovunque: sui tetti delle case, attorno agli accessi sbarrati delle fabbriche, delle fattorie agricole, presso le cliniche, di fronte agli edifici pubblici, ma soprattutto nei pressi delle chiese e delle scuole religiose. Ai villaggi si accede solo dopo accurati controlli ai posti di blocco. Mitra e croce: fa strano vedere giovani e meno giovani civili cristiani con i Kalashnikov imbracciati, bandoliere cariche di proiettili e pistole alle cinture. «Siamo tutti volontari. Abbiamo scelto di difendere le nostre comunità e i nostri villaggi dal pericolo degli estremisti islamici. Grazie a Dio siamo aiutati dai peshmerga, le forze armate curde, che ci garantiscono sostegno e logistica. Da soli saremmo sicuramente spacciati», ammettono. Ma impera la paura. Una paura visibile, palpabile, onnipresente. Le avanguardie dei radicali sunniti, in particolare dello «Stato Islamico in Iraq e del Levante», solo lunedì scorso sembrava potessero arrivare anche qui da loro. Avevano preso Mosul, una trentina di chilometri più a sud. E i loro gipponi sfilavano veloci tra i campi di grano e nubi di polvere in località ancora più prossime. Ma poi sono arrivati i rinforzi curdi e la situazione si è stabilizzata. Ieri ci siamo recati in uno dei centri tradizionali del cristianesimo iracheno. Karakosh, anche conosciuto come Bakhdida o Hamdania, una regione famosa per le vigne, ma soprattutto per i resti delle chiese antiche di 1.500 anni, cimiteri dalle croci scolpite nelle pietre che precedono di uno o due secoli l’avvento dell’Islam, monasteri testimoni del primo cenobitismo. In tempi diversi sarebbe eccitante raccontare questa culla della civiltà cristiana orientale, dove le scritte sulle lapidi sono in aramaico, caldeo, greco. E i fedeli parlano dei santi con genuino fervore come di presenze immanenti. «Le nostre chiese sono state le uniche a non essere mai state sotto il controllo di un potere temporale cristiano. Più a nord, in Turchia, Palestina, Egitto e Siria, le antiche comunità cristiane vissero le parentesi della tradizione romana costantiniana e dei bizantini. Ma noi abbiamo sempre dovuto fare i conti con autorità ostili, a partire dai persiani, i califfati sunniti e gli stessi curdi», ricorda tra i tanti padre Paolo Thabib Habib, 37 anni, parroco nel villaggio di Karmless. Purtroppo oggi siamo costretti a ripetere un mantra ormai tristemente monotono: intere comunità che si riducono di anno in anno, chiese sempre più evanescenti, ma soprattutto il terrore della persecuzione da parte dei fondamentalisti islamici, ragazze costrette a mettere il velo, attentati e minacce continue. Un fenomeno diffuso dall’Egitto alla Siria sino all’Iraq dell’era post Saddam Hussein. Qui la svolta verso il peggio ha una data precisa: domenica 1° agosto 2004. Erano trascorsi 16 mesi dall’arrivo delle truppe Usa a Bagdad. «A noi non piace affatto la dittatura di Saddam. Ma almeno garantisce la difesa dei cristiani. Dopo di lui, per noi sarà la catastrofe», aveva predetto l’ex patriarca caldeo Emmanuel Delly nel periodo concitato precedente la guerra del 2003. E la serie di attentati contro le chiese gremite di fedeli a Mosul e Bagdad in quell’afosa giornata di agosto costituì il tragico inveramento delle sue parole. Da allora il numero dei cristiani iracheni è sceso da quasi un milione e mezzo a circa 450.000. La grande maggioranza era concentrata a Bagdad. Ma poi sono emigrati all’estero, oppure scappati qui, nella provincia di Ninive, a sud delle regioni autonome curde, presso Mosul e la fitta rete di villaggi agricoli attorno a Karakosh. Si calcola che nell’area siano oggi circa 200.000. A Mosul da tempo subiscono gravi attacchi: erano 130.000 nel 2003, scesi a 10.000 un anno fa, pare precipitati a meno di 2.000 da lunedì scorso. E sta qui un altro aspetto tragico della loro fuga nell’ultima settimana. «Siamo diventati profughi due volte. Prima da Bagdad e adesso da Mosul», spiega il 61enne Imad Al Din Eliah, docente all’università regionale, che da due giorni ha affittato una casetta a Karmless. «A ben vedere, anche i jihadisti più fanatici adesso cercano di rassicurarci. Ci spiegano che loro combattono contro i soldati sciiti del presidente Nouri al Maliki, che non hanno nulla contro i cristiani. Addirittura hanno posto servizi di guardie alle basiliche di Mosul. Ma chi ci assicura che non cambieranno? In passato hanno ucciso sacerdoti, minacciato le ragazze». Sua figlia Samah, una timida 25enne impiegata alla municipalità di Mosul, è molto più determinata: «Sino a qualche giorno fa ero certa che sarei morta qui, dove sono nata. Ma quel che è troppo è troppo. Questi fanatici islamici rappresentano un pericolo totale. Mi fanno sentire straniera in casa mia. Non penso più che alcuna ragazza cristiana possa avere futuro in un Paese dominato dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, o dai suoi simili». Mentre parla il padre riesce a far ripartire il generatore (nella zona elettricità ed acqua arrivano a singhiozzo) e il canale della tv curda diffonde le ultime notizie. Ad una cinquantina di chilometri da Karakosh la guerriglia sunnita ha conquistato l’ennesima città: è Tal Afar, centro vitale per il controllo della provinciale che da Mosul porta al confine con la Siria e tra i cui 200.000 abitanti si contano numerosi sciiti. Sono paventati massacri. L’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha confermato ieri le notizie di centinaia di esecuzioni sommarie di civili sciiti che «quasi certamente costituiscono crimini di guerra». Per contro, il regime trasmette video dei raid aerei contro posizioni sunnite a Tikrit e ad ovest della capitale. I centri di reclutamento di Maliki segnalano lunghe code di volontari, specie nelle città sciite del sud, a Bassora, Karbala e Najaf. A Karakosh i comandi curdi hanno spostato altri mille peshmerga a sorvegliare la rete di stradine conducenti a Tal Afar.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio - A Vienna prove d’intesa Usa-Iran.
Guido Olimpio
WASHINGTON — I movimenti nella crisi irachena sono talmente rapidi da non dare il tempo agli oppositori di dire «ma». E nello spazio di pochi giorni sono accadute cose impensabili. Come il dialogo Iran-Usa, un avvicinamento che può sfociare in asse per fermare gli estremisti sunniti dell’Isis. Un movimento accompagnato da molte cautele. Gli scontri sulla via per Bagdad e il negoziato sul nucleare a Vienna hanno aperto una finestra temporale eccezionale. Americani e iraniani si sono ritrovati nella capitale austriaca per discutere del possibile accordo «atomico». Resteranno quattro giorni. Teheran ha mandato il ministro degli Esteri Mohammed Zarif, Washington il sotto segretario Bill Burns. Una presenza ad alto livello che permetterebbe di discutere «a margine» di quanto sta avvenendo in Iraq. Sul come condurre la nuova politica le posizioni non sono compatte. Il segretario di Stato John Kerry ha ribadito l’apertura a contatti diretti sull’Iraq, quindi, sbilanciandosi un po’ troppo, non ha escluso una cooperazione militare. Una posizione corretta, qualche ora dopo, da Pentagono e Casa Bianca. Non consulteremo gli iraniani prima di un’eventuale azione — ha sottolineato una fonte — e non pensiamo di condurre azioni in tandem. Una precisazione inevitabile. I mullah sono dei rivali, diversi esponenti vicini ai pasdaran sono nella lista nera statunitense e alcune delle milizie filo Iran in passato hanno colpito le unità Usa in Iraq. Non c’è solo ruggine, ma anche sangue. «La strada è ancora lunga», ha dichiarato un alto funzionario. Patto pragmatico Pur con questo fardello pesante, Barack Obama vuole vedere se esistono i margini per un patto pragmatico e ha convocato di nuovo i suoi consiglieri per la sicurezza al fine di esaminare le opzioni. Gli iraniani conoscono bene l’Iraq, hanno i loro apparati clandestini in azione sul terreno, sono determinati nel contrastare la minaccia dell’Isis. Ovviamente non lo fanno per il bene comune, ma perché considerano l’Iraq il cortile di casa. Dunque vogliono tutelare l’area di influenza e questo, nel lungo termine, può riaprire le tensioni. Da qui la prudenza evidenziata anche dall’avvertimento Usa all’Iran a non accrescere le tensioni. La svolta della Casa Bianca ha trovato un insolito alleato in Lindsay Graham. Il senatore repubblicano ha randellato il presidente e la sua politica estera, però si è espresso in favore della collaborazione con Teheran. Non è poco, in quanto Graham è sempre stato duro verso i mullah. Però, in queste circostanze non ci sono molte alternative. A meno di non voler rimandare i soldati americani. La risposta militare deve essere contenuta e — chiarisce la Casa Bianca — «non sarà all’infinito». Forze militari Ieri il Pentagono ha annunciato l’arrivo nel Golfo Persico della nave d’assalto anfibio «Mesa Verde». A bordo 550 marines e velivoli da trasporto Osprey. Il reparto è in stato d’allerta nel caso ci sia da evacuare l’ambasciata-fortezza a Bagdad dove lavorano 5 mila dipendenti. Per ora parte dello staff è stato spostato a Bassora, Erbil e Amman. Sono invece stati schierati altri 100 soldati americani che dovranno aumentare le difese della rappresentanza. Sempre nella zona del Golfo è operativa la portaerei Bush con due incrociatori di scorta. Mobilitate anche forze in Turchia e Giordania. Nei cieli iracheni volano da giorni i droni statunitensi decollati dalla base turca di Incirlik. Secondo la versione ufficiale conducono solo operazioni di ricognizione per seguire l’Isis. In realtà il dispositivo attende un ordine d’attacco e Kerry ha citato proprio un probabile ricorso ai velivoli senza pilota. Un’altra opzione è quella di inviare piccoli nuclei di forze speciali. Osservatori interessati, infine, i sauditi e gli israeliani, due alleati preoccupati per il disgelo Usa-Iran. Riad ha attribuito il disastro alla «politica confessionale» del premier Maliki ed ha chiesto un governo di unità nazionale. I principi, spesso accusati di trescare con parte del movimento jihadista, temono di perdere posizioni nel lungo duello con Teheran. Kerry li ha chiamati, analoghe telefonate sono partite verso Emirati e Qatar per spiegare che anche gli Usa pretendono riforme a Bagdad. Anzi, secondo i media i raid sono subordinati ad un cambio di politica da parte dell’Iraq. Difficile credere che questi colloqui possano bastare in un teatro con attori molto dinamici. Rappresentanti del Kurdistan sono andati in Iran dove li ha ricevuti il capo del consiglio di sicurezza nazionale Alì Shamkani. Una riprova di come molte strade portino a Teheran.
LA STAMPA - Francesco Semprini - L’America schiera navi e droni
Francesco Semprini
Prosegue il braccio di ferro armato tra jihadisti, forze governative irachene e volontari sciiti, mentre gli Stati Uniti studiano eventuali opzioni militari rilanciando l’apertura ad una cooperazione con l’Iran. Nella notte tra domenica e lunedì, i miliziani dello Stato islamico di Iraq e Levante (Isis), hanno preso il controllo di Tal Afar, città di 200 mila abitanti sulla superstrada che collega i confini siriani con Mosul, e quindi funzionale all’obiettivo di creare un’unico Stato controllato dall’Isis. Gli jihadisti inoltre sembrano volersi coprire ad Est con un patto di non belligeranza con i Peshmerga, che hanno creato un’imponente cintura di sicurezza nel versante sud di Tuz Khurmatu. Di fatto l’ultimo checkpoint curdo e il primo dell’Isis sono a solo mezzo chilometro di distanza, quindi il rischio di scontri è molto elevato: in ballo c’è il controllo di Kirkuk. Baghdad intanto si prepara all’assedio: l’ambasciata americana sta trasferendo il personale non essenziale, lo stesso faranno le Nazioni Unite. La rappresentanza italiana ha ridotto invece alcune attività. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, ritiene però non credibile l’ipotesi di una caduta in brevi tempi della capitale. «È una città di otto milioni di abitanti, con una presenza enorme di militari e corpi paramilitari che si sono già attivati da giorni - spiegano fonti locali -. È stata messa in piedi una rete di protezione a doppio anello che la rende quasi blindata». Il capo di Foggy Bottom ha ribadito il «profondo impegno» americano a garantire l’integrità del Paese e ha rilanciato l’ipotesi di una collaborazione con l’Iran in chiave anti-jihadista. E così Washington ha inviato la nave da trasporto anfibio Uss Mesa Verde nel Golfo Persico con a bordo 550 marine, facendola ricongiungere al gruppo navale Usa guidato dalla portaerei Uss George H.W. Bush. La presenza delle unità marittime, secondo quanto riferito dall’ammiraglio John Kirby, conferisce al presidente Barack Obama «ulteriori opzioni per proteggere i cittadini e gli interessi americani in Iraq». Opzioni che saranno sul tavolo del presidente lunedì prossimo anche se la Casa Bianca specifica che l’intervento «non sarà infinito» ed esclude l’uso di truppe di terra. La Mesa Verde fa parte di un gruppo anfibio di base a Norfolk, in Virginia, e trasporta aerei elicotteri Osprey MV-22 in grado di condurre «una quantità di operazioni di reazione rapida a crisi». Kerry non esclude anche un attacco con droni, anche se i vertici militari ritengono che caccia con pilota sono più utili in termini di manovrabilità e mobilità dei potenziali obiettivi. Quali i target al vaglio del Pentagono? Sono tre le opzioni possibili: i fronti dove l’Isis combatte contro le truppe regolari, in primis la «linea gotica» di Samarra, ma c’è il rischio di colpire civili o militari alleati. Oppure puntare sulla catena di rifornimenti con la Siria, quella che garantisce la linfa vitale dell’Isis a cavallo dei due Paesi, come appunto la città di Tal Afar, ma in questo caso c’è il rischio di colpire la popolazione in fuga. Oppure neutralizzare direttamente le basi di partenza in Siria, ma servirebbero informazioni di intelligence che solo unità operative sul territorio potrebbero fornire, informazioni che al momento continuano a essere insufficienti.
LA STAMPA- Paolo Mastrolilli - L’America dialoga con l’Iran. 'Ma nessun patto militare'
Paolo Mastrolilli
I primi colloqui seri fra Iran e Arabia Saudita sono cominciati circa sei mesi fa, e si saldano con i negoziati fra Teheran e Washington sul programma nucleare, che da ieri sono ripresi a Vienna con l’aggiunta sul tavolo della crisi irachena. Lo rivelano fonti in contatto con i protagonisti dei colloqui, che potrebbero portare a ridisegnare gli equilibri dell’intero Medio Oriente. Ieri il segretario di Stato Kerry ha detto di essere aperto a qualunque contributo costruttivo per risolvere la crisi, riferendosi all’eventuale collaborazione con l’Iran. Due giorni prima era stato il presidente Rohani ad aprire, e oggi nel Golfo Persico è entrata la nave da guerra americana Mesa Verde con 550 marines a bordo, che si affianca alla portaerei George H.W. Bush. A Ginevra c’è il ministro degli Esteri iraniano Zarif, mentre la delegazione Usa è guidata da William Burns, numero due del dipartimento di Stato, che aveva già condotto i negoziati segreti con cui nell’autunno scorso si era arrivati all’accordo preliminare per avviare la trattativa nucleare. Il tavolo in sostanza è ad alto livello e ha la facoltà di allargare il discorso dal negoziato sul programma atomico, agli equilibri generali della regione. Non si arriverà alla collaborazione aperta. La Casa Bianca ha escluso ieri che i caccia americani possano aiutare direttamente le truppe sciite iraniane contro i terroristi sunniti dell’Isis, ma l’interesse comune a fermarli esiste e dovrebbe spingere quanto meno Teheran a non ostacolare Washington. Sullo sfondo di questo dialogo, però, ne sta avvenendo un altro che potrebbe avere implicazioni ancora più significative per il futuro della regione. Arabia e Iran erano entrambi alleati degli Stati Uniti, prima della rivoluzione del 1979. Ora si combattono per procura in tutti gli scontri della regione fra sunniti e sciiti, ma hanno cominciato anche a parlare. I contatti informali non sono una novità, e lo stesso presidente Ahmadinejad aveva visitato La Mecca nel 2012 durante un vertice dell’Organization of Islamic Cooperation. Però sei mesi fa, in silenzio, sono cominciati i colloqui del nuovo corso. Gli effetti pubblici si sono già visti a maggio, quando il ministro degli Esteri Saud al Faisal ha invitato a Gedda il collega iraniano Zarif, per partecipare a un altro incontro dell’Oic. Zarif ha declinato l’invito, perché coincideva proprio con la sessione di negoziati con gli Usa iniziata ieri a Vienna, ma ha apprezzato il gesto amichevole e Faisal ha risposto che può andare quando vuole. Alla base di questi contatti c’è la convinzione di molti analisti che ormai il caos mediorientale si possa risolvere solo attraverso un accordo per la spartizione della regione fra le due potenze principali, l’Arabia sunnita e l’Iran sciita, che superi i confini disegnati all’inizio del secolo scorso dal diplomatico britannico Mark Sykes e quello francese François Georges-Picot. Riad e Teheran si stanno combattendo in Siria, e c’è il sospetto che almeno una parte dei finanziamenti dell’Isis sia venuta dai sauditi. L’avanzata dei terroristi però non minaccia solo l’Iran sciita, ma rischia di rivoltarsi anche contro la monarchia wahhabita. Dal Libano al Pakistan, quindi, solo questa intesa potrebbe riportare la stabilità, attraverso un patto che dovrebbe garantire la sopravvivenza di Israele, la rinuncia di Teheran all’atomica, e magari accettare una qualche forma di spartizione dell’Iraq. Gli Usa in questo processo svolgono un ruolo da facilitatori, più che mediatori, sperando che in Iran e Arabia prevalgano le menti più responsabili.