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La Repubblica Rassegna Stampa
15.06.2014 Micha Bar-Am, tra i più grandi fotografi di Israele, in mostra a Roma
Lo intervista Vanna Vannuccini, scelta peggiore non poteva essere fatta

Testata: La Repubblica
Data: 15 giugno 2014
Pagina: 30
Autore: Vanna Vannuccini
Titolo: «Sessant'anni nella vita degli israeliani»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 05/06/2014, a pag.30-31, con il titolo "Sessant'anni nella vita degli israeliani", l'intervista di Vanna Vannuccini a Micha Bar-Am, uno dei più famosi fotografi israeliani, in occasione della mostra  romana realizzata da Maurizio De Bonis e Orit Youdovich.
Bar-Am meritava un'altra interlocutrice, Vanna Vannuccini, colma di pregiudizi anti-Israele, non si cura di nasconderli. Tutte le sue domande si presterebbero ad una analisi semantica quale dimostrazione di come funziona un cervello contaminato dal pregiudizio. Complimenti a REPUBBLICA per aver dedicato due pagine al grandissimo Micha Bar-Am, guastate però dalle domande platealmente ostili di una interlocutrice al di sotto del più basso livello di professionalità.


Vanna Vannuccini            Micha Bar-Am

ROMA - Gerusalemme 1978, giorno dell'Indipendenza. Un prato, tovaglie da pic-nic stese sull'erba,bambini che fanno chiasso. In primo piano un uomo in maniche di camicia che cuoce carne sul barbecue. Un'immagine serena. Se non fosse per la pistola dentro la fondina che sta Iì da una parte, quasi ai margini della fotografia. L'uomo al barbecue sicuramente in questo momento non ci pensa, ma che sa che è li, funzionante, se ne avesse bisogno. La pace è fragile. Un'altra foto viene da Suez, 1973, ma non c'è bisogno di conoscere la data, né di sapere chi siano quei soldati arabi bendati e in catene, ammassati in una trincea, per sentirne compassione. Alcuni sono girati di spalle, piegati su se stessi, per il dolore delle ferite forse, o per nascondere l'umiliazione di essere li. Vicino, ci sono soldati israeliani rilassati e indifferenti che si godono il trionfo. La guerra di Yom Kippur, che era cominciata con una vittoria a sorpresa degli egiziani, è finita con la loro sconfina totale. Le ombredei militari israeliani si allungano sulla trincea, tra loro anche quella del fotografo, si vede la silhouette della macchina fotografica. Qualcosa ci fa sentire che anche questi soldati sono perduti. Micha Bar-Am è il fotografo d'Israele più significativo, e conosciuto. «C'è stato un tempo— racconta per dire di quanto ancorché  centrale fosse piccolo quel mondo — in cui io conoscevo metà della popolazione d'Israele, e l'altra metà conosceva me». Fotografo della Magnum, le sue foto sono comparse sulle copertine dei giornali più famosi del pianeta. Per sessant'anni ha accompagnato con la sua camera le speranze, i dolori e gli errori del suo paese. Fotografie indimenticabili che colgono la realtà di un momento ma istantaneamente t'illuminano sul contesto. Sembrano prese per caso, ma hanno una forza simbolica e una verità storica incredibili. Micha Bar-Am è a Roma per parlare del futuro della fotografia alla decima edizione di Fotoleggendo. Non è molto d'accordo che si parli di 'giornate di studio sull'immagine documentaria'. La fotografia documenta sempre qualcosa, dice, perché c'è sempre qualcosa di fronte alla camera. Ma il mistero della fotografia è quel qualcosa in più che l'obbiettivo riesce a catturare e che è quasi una magia. Qualcosa che non si pub imparare ma solo sviluppare; come uno scrittore che non solo scrive ma riesce a dare senso alle parole. «La fotografia assomiglia alla poesia», dice. Ha ottantacinque anni ma l'energia di un giovane. Come la moglie Orna che lo accompagna, bel viso incorniciato da un cespuglio di ricci grigi e occhi vivacissimi. Insieme si dedicano da qualche tempo nella loro casa di Tel Aviv ad archiviare e digitalizzare l'immenso materiale fotografico accumulato in tutti questi anni. E litigano. Perché lui vuole conservare solo le opere migliori mentre lei vuol conservare tutto perché, sostiene, già oggi noi vediamo le foto di quarant'anni fa con altri occhi. Come possiamo decidere ora che cosa sarà importante tra quarant'anni? Ci sono foto che col tempo cambiano di significato. E oggi, che cosa fotograferebbe Micha per rappresentare Israele com'è adesso? Riflette per un momento, guarda la moglie. «E molto difficile dirlo. Di recente a Los Angeles hanno aperto il museo dell'ebraismo americano, e quando si sono accorti che dovevano dire qualcosa su Israele mi hanno chiesto dieci foto che dessero un'idea di che cosa è Israele oggi. Però, si sono raccomandati, niente foto di soldati, né di arabi...». «Né di ultraortodossi» continua la moglie. «Non volevano temi conflittuali». Così, alla fine, insieme a un amico pittore Micha ha fatto un pastiche di tante foto insieme, per rappresentare la complessità.« Perché io critico il mio paese, non sono certo uno che lo vuole difendere dalle critiche, ma mi sta a cuore che non si perda la speranza*. Non gli piace la categorizzazione di fotografo di guerra. Le sue foto narrano delle storie, storie di tutti i giorni, che nel suo paese si sa possono essere drammatiche. Racconta tutto quello che fa parte del ciclo della vita, e in Israele la guerra ne ha fatto parte finora, «ogni decina d'anni più o meno». Per parecchio tempo ha fotografato la vita miserabile delle famiglie di un villaggio arabo, un suo privato contributo alla pace. Arriva in Israele bambino. I genitori, sionisti convinti, lasciarono Berlino nel '36. Riconoscerebbero Israele oggi? «Sicuramente no. Non potrebbero uscire dal loro sogno. Per la generazione mia e di mia moglie è diverso, ci siamo abituati al cambiamento». Visivamente, il cambiamento che colpisce di più è quel muro, che per gli israeliani è un baluardo contro il terrorismo ma per i palestinesi un mostro che rende la vita impossibile. Lo ha fotografato? «II muro è un compromesso», sospira «È il realismo della vita che lo ha creato. Orribile a vedersi, e causa di sofferenze per i palestinesi. Ma ha fermato gli attentati, perciò lo accetto». Un cambiamento altrettanto vistoso che mi ha colpito visitando Israele, gli dico, è la decisione collettiva degli israeliani di non vedere, di non guardare, di non avere nulla a che fare con quello che succede in Palestina. Per gli ebrei israeliani, forse anche perché non possono più andare nei Territori occupati come facevano fino a qualche anno fa, i palestinesi è come se vivessero su un altro pianeta invece che a qualche decina di chilometri di distanza dalle loro case. Come fotografo, questa cecità deliberata la percepisce? «Sto preparando una mostra che avrà esattamente questo titolo: Cecità. E non è solo in omaggio al mio amico Saramago. Ma bisogna prendere atto: non voler vedere a volte è un modo per preservare la propria sanità mentale. Non vogliamo vedere per paura che la nostra mente scoppi. E escapismo,  non c'è dubbio. Io stesso mi accorgo di non essere più avido di guardare com'ero un tempo. Oggi molte foto che ho fatto forse non le farei. E la ragione è che non c'è una soluzione alla complessità. Questo vale per tutto il mondo, non solo per Israele, vale per la carestia nel Sudan come per il Bengala. Quando una soluzione razionale non s'intravede, uno volta le spalle al problema, evita di guardarlo». E quando correva grossi rischi per prendere quella determinata foto che avrebbe fatto il giro del mondo, era spinto dall'idea che quella foto avrebbe potuto influenzare le persone, aiutare a far cessare una guerra? «Nessuna foto, nemmeno della situazione più orribile, ha mai fermato una guerra. La Siria oggi è un esempio lampante. Forse al tempo della guerra nel Vietnam le immagini che arrivavano sugli schermi televisivi hanno provocato un cambiamento di mentalità negli americani. Ma oggi, quando da ogni telefono cellulare possono arrivare immagini spaventose, la maggioranza della gente pensa solo a evitarle. Ognuno cerca i propri alibi. C'è chi s'interessa solo al macello degli animali. C'è anche chi continua a preoccuparsi del massacro degli uomini. Ma in generale la tendenza è all'escapismo. E una foto non la cambierà. Tace per un momento, poi sorride: .Forse intacca qualcosa, ecco. Vede? Voglio mantenere sempre una piccola porzione di speranza». Una delle sue foto famose è quella di Eichmann, nella sua gabbia di vetro, durante il processo,1961. «E passato tanto tempo, ma quel momento non l'ho mai dimenticato. Era la prima volta che si parlava dell'Olocausto, prima di allora i sopravvissuti non avevano mai raccontato in pubblico gli orrori che avevano vissuto. Dopo la drammatica requisitoria del procuratore Hausner, alla sua domanda che cosa avesse da dire sulle accuse, Eichmann rispose: Im Sinne der Anklage nicht schuldig. Innocente. Ebbi un colpo a cuore». Allora si era riusciti per la prima volta a parlare dell'Olocausto, oggi non le sembra che venga usato dai politici spesso per alimentare la paura? «L'uso politico dell'Olocausto è odioso. Ma io capisco anche l'ansia, e la preoccupazione, e la paura che si ripeta..

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