Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/06/2014, a pag. 12-13, la cronaca e i commenti sulla situazione irachena, il ruolo di Obama e quello dell'Iran. Sempre di Olimpio, a pag.46, l'analisi del terrorismo islamico anche in altri paesi.
Massimo Gaggi: " Obama prende tempo 'Non mandiamo truppe sul terreno' "
Massimo Gaggi
Primo comandamento: evitare errori e coinvolgimenti potenzialmente disastrosi. Barack Obama l'aveva detto poche settimane fa delineando la nuova strategia militare e di politica estera degli Usa davanti ai cadetti di West Point. Con l'improvviso deflagrare di una nuova crisi in Iraq è arrivato, per lui, il primo banco di prova. E, nonostante il rischio che Bagdad cada nelle mani dei terroristi qaedisti dell'Isis, ormai giunti a 90 chilometri dalla capitale, il presidente americano decide ora di confermare il «no» a un coinvolgimento diretto di truppe statunitensi nonostante le tardive richieste di aiuto del governo di Nouri al Maliki. Obama ha promesso di cercare altre vie per aiutare l'Iraq a difendersi dagli insorti, senza citare esplicitamente la possibilità di attacchi dal cielo coi droni, gli aerei-robot. Ma ha aggiunto che questi interventi non saranno immediati: ci vorranno giorni per studiare la materia, individuare gli interventi possibili e organizzare le missioni. Insomma: primo non infilarsi di nuovo in situazioni impossibili o che, comunque, rischiano di sfuggire di mano. Davanti al «Marine One», l'elicottero presidenziale, prima di partire per un viaggio in North Dakota, la sua prima visita a una riserva indiana, Obama ha parlato brevemente con la stampa spiegando che l'attacco dell'Isis rappresenta una minaccia gravissima per l'Iraq, per tutto il Medio Oriente (la milizia jihadista è attiva anche in Siria) e, data la natura terrorista della sua attività, rappresenta potenzialmente un pericolo rilevante anche per gli interessi americani. Dunque un'azione a supporto di al Malild ci sarà e probabilmente verrà dal cielo: Obama non ha parlato di droni e ha speciñcato che consulterà il Congresso su possibili azioni di attacco (a differenza della crisi siriana, nove mesi fa, stavolta non ha detto che chiederà un voto del Parlamento prima di agire). Intanto fonti del Pentagono hanno fatto sapere alla Cnn che la portaerei George H.W. Bush è in navigazione verso il Golfo Persico. Ma, mentre il segretario di Stato John Kerry, parlando qualche ora prima a Londra, si è detto convinto che «il presidente agirà tempestivamente, data la gravità della situazione», Obama non solo ha preso tempo, ma è sembrato collegare il possibile aiuto americano al governo iracheno a un cambio di rotta di al Maliki la cui politica settaria, sostanzialmente ostile ai sunniti, è considerata la causa principale dello sfaldamento dell'esercito di Bagdad: «Gli Stati Uniti — ha scandito Obama —non si lasceranno coinvolgere in alcuna azione militare in assenza di un piano politico degli iracheni che dimostri che le varie fazioni sono pronte a lavorare insieme» per sconfiggere il terrorismo jihadista. Obama, che aveva chiesto anche ad altri Paesi vicini agli Usa di fare la Ioro parte per aiutare l'Iraq, ieri non ha voluto dar conto dei contatti in corso precisando che i colloqui principali con gli alleati che hanno già operato in quest'area (e quindi presumibilmente anche con 'Italia) si svolgeranno nel weekend.
Guido Olimpio: " Lo 007 di Teheran in missione. Così 'il male in persona' può diventare un alleato Usa"
Guido Olimpio Qasim Suleimani, il "male in persona"
II Medio Oriente è quel luogo dove un giorno combatti il Diavol e quello dopo scendi a patti con lui Magari perché sei costretto dalle circostanze. E quello che sta avvenendo a Bagdad, dove gli americani si ritrovano al fianco di Qasim Suleimani, il comandante dell'Armata Qods iraniana. Un pasdaran fino al midollo, uomo brutale e pragmatico, gestore degli affari iracheni per conto di Teheran. Un personaggio che il generale statunitense David Petraeus ha definito una volta «il male in persona». Solo che questa volta potrebbe essere il male minore. Figlio di un contadino, 57 anni, Qasim è cresciuto lavorando nei campi e sgobbando con i pesi. Come altri ha partecipato alla «sacra difesa» nella guerra contro l'Iraq. Un conflitto spaventoso dall'80 all'87. All'inizio doveva portare l'acqua ai compagni dentro le trincee, poi lo hanno impiegato per missioni dietro le linee nemiche. Incursioni spesso seguite dalla cattura di un agnello quale bottino. Da allora una lunga carriera fino alla guida della Qods. Un apparato clandestino con diramazioni in tutto il Medio Oriente. Suleimani ha gestito azioni «coperte», mescolando terrore, guerriglia, intelligence. Freddo, capace di ascoltare, ha imposto il suo carisma. Un agente segreto e di influenza. Haji Qasim ha ispirato attacchi contro le unità americane in Iraq ma non ha esitato a cercare, quando necessario, il contatto diretto con l'avversario. Ha coltivato il rapporto con l'Hezbollah libanese, il grande alleato di Teheran nella regione, e ha tenuto a bada una testa calda come l'iracheno Moqtada al Sadr. I suoi uomini sono infiltrati in molti Paesi, creando una rete formidabile sul territorio iracheno, stabilendo rapporti con le comunità sciite dal Paraguay alla costa ovest dell'Africa. È nella diaspora sciita che ha pescato i collaboratori degli operativi spediti a lottare contro i nemici. La Qods — è l'accusa di Gerusalemme -- ha organizzato attentati in India, in Thailandia e in Bulgaria Nel mirino obiettivi israeliani. Operazioni non sempre concluse, ma che non hanno tolto determinazione. Suleimani, da capo cresciuto nei ranghi, è sempre stato molto vicino agli uomini della divisione. Una volta ha raccontato della sua commozione nel vedere la salma dei caduti con accanto i loro figli: «Desidero sentire il profumo dei martiri». Non sorprende dunque che il generale sia da 15 anni al vertice. Anche perché non è tipo da farsi da parte. Sa molto e ha fatto tanto. La guida, l'ayatollah Khamenei, una volta lo ha definito (il martire vivente della Rivoluzione». Complimento che vale più di una medaglia nell'iconografia khomeinsta. Suleimani ha ripagato la teocrazia conducendo in prima persona le missioni più complicate. A cominciare da quella per salvare la poltrona di Bashar Assad. Il suo network è intervenuto assistendo le forze siriane, ha accompagnato la nascita della milizia popolare, ha gestito il flusso di volontari sciiti — dall'Iraq e dall'Afghanistan — ha agito in coppia con l'Hezbollah, altro strumento chiave della strategia iraniana. Una storia comunque non ancora chiusa che ha costretto Suleimani a trascorrere lunghi peri - odi a Damasco. E alla fine ha pagato pegno. La crisi in Siria ha assorbito troppe risorse e distratto Teheran, sorpresa dall'offensiva delllsis e magari troppo fiduciosa delle capacità del cliente al Maliki. Inevitabile l'intervento del pasdaran che risolve i problemi. Al suo fianco un robusto contingente di guardiani — dicono 3 battaglioni — subito gettati nella mischia per frenare la progressione sunnites Quindi gli esperti per rimettere in piedi il sistema di difesa iracheno, affidato ora a poche unità scelte e a bande di «volontari», utili perché facilmente manipolabili ma spesso responsabili di eccessi. Un'azione sviluppata insieme all'offerta rivolta da Teheran a Washington: «Siamo pronti a cooperare. È un'ipotesi discussa in queste ore tra i dirigenti» ha rivelato una fonte iraniana alla Reuters. Cauto, invece, il Dipartimento di Stato. Situazione imprevista. I duri e puri con il Grande Satana Nel deserto i pasdaran, in cielo i caccia Usa. E in mezzo il generale. Chissà se un giorno lo toglieranno dalla lista nera del Tesoro americano. Da tre anni Qasim Suleimani è un indesiderabile.
Guido Olimpio: " Avanzata qaedista dal Mali all'Iraq, l'Occidente può soltanto contenerla"
In quel termitaio impazzito che è il mondo arabo, può apparire come una notizia di terzo livello: Al Qaeda nella terra del Maghreb islamico ha rivendicato l'attacco del 28 maggio contro la casa del ministro degli Interni tunisino. E invece l'episodio marginale è la spia di qualcosa di più ampio e profondo. Che porta al sud della Libia per arrivare fino al Sahel, uno dei fronti dimenticati della guerra al terrorismo. Se ne parla poco, ma la storia in questa parte di Africa non è finita. I francesi sono andati nel nord del Mali, con l'aiuto degli alleati, per fermare i jihadisti. E in parte ci sono riusciti. Li hanno costretti a sloggiare dalle basi create da uno schieramento variegato, composto da qaedisti, ribelli tuareg, opportunisti e trafficanti. L'operazione Serval, questo íl suo nome, ha avuto una prima fase positiva. Di certo, i militanti hanno dovuto lasciare molte posizioni. Ma non sono spariti. Si sono spostati verso settentrione, cercando nuovi rifugi nella parte meridionale della Libia e vicino al confine Algeria-Tunisia. Una regione ideale per coltivare contrabbando e estremismo, due attività che vanno spesso a braccetto e hanno una lunga tradizione. La verità è che i qaedisti continuano a scalciare e colpire. Sono insidiosi, non depongono certo le armi. Cercano solo opportunità e varchi sfruttando una grande mobilità. Piazzano ordigni lungo le strade come in Iraq, ricorrono alla tattica dell'omicidio (in Cirenaica), usano l'enorme territorio per non dare punti di riferimento, provano a stabilire legarni tra gruppi, puntano sulla presa d'ostaggi per incassare milioni. A nord oppure nella Nigeria di Boko Hamm, fazione pronta a muovere nei Paesi vicini e dalla capacità distruttiva. L'ampiezza del teatro permette ai Paesi occidentali soltanto di contenere la minaccia e non di estirparla. Inutile farsi illusioni. Non esistono risorse tali da garantire una campagna continua. E questo gioca a favore dei militanti. L'agenda delle democrazie è scandita dalle elezioni, misurata dai sondaggi, pungolata dai critici. Problemi che non esistono per i jihadisti e le componenti più radicali. II tempo è il loro migliore alleato.
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