Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/06/2014 a pag.1-12, con il titolo "Al fronte tra i curdi iracheni che preparano la resistenza", il reportage di Lorenzo Cremonesi dai territori che, di fatto, sono ormai lo Stato indipendente dei curdi.
Lorenzo Cremonesi Kurdistan iracheno
terroristi Isis
DAL NOSTRO INVIATO MOSUL — Sporcizia sparsa dovunque, strade deserte, saracinesche abbassate; fabbriche, uffici e negozi sprangati; olezzo di immondizie e decomposizione nell'aria; agli incroci qualche camionetta militare e auto della polizia crivellate di proiettili, il cofano e le portiere spalancati; un paio di palazzine sono annerite dal fumo, piccoli focolai bruciano ancora; branchi di cani diventati randagi e terrorizzati dal caos di violenza hanno preso il posto degli uomini; ogni tanto echeggia secco uno sparo, il brontolio più sordo di un'esplosione, ma per il resto è silenzio: le città in guerra si assomigliano tutte e ieri Mosul non faceva accezione. Ci siamo arrivati percorrendo l'ottantina di chilometri che la separa dalla cittadina di Erbil nell'enclave curda irachena. In un' oretta di viaggio, interrotto brevemente dai controlli distratti a quattro posti di blocco dei peshmerga (i guerriglieri delle milizie curde), si passa dall'universo pulito e ordinato di questa regione ormai completamente autonoma dell'Iraq, che dai primi anni Novanta vive un boom economico e civile senza eguali, all'inferno della «guerra santa» imposta con sorprendente efficienza dai militanti dello «Stato Islamico dell'Iraq e del Levante» (noto in tutto il mondo come Isis) ora in avanzata strepitosa verso Bagdad. L'ultimo posto di blocco è già dentro la città. «Vedete quell'arco di metallo sulla strada vicino agli alberi? Da qui sono 700 metri. Sul lato destro sono attestati i cecchini nemici. Chi procede lo fa a suo rischio e pericolo» spiega il generale Hama Haga, nato 50 anni fa a Halabja, la cittadina curda tristemente famosa per i circa 5 mila abitanti gassati a morte dalle armi chimiche di Saddam Hussein il 16 marzo 1988. Haga è venuto a Mosul per un rapido controllo della linea del fronte che corre già tra le case delle periferie. Si dice preoccupato: gruppi di giovani di Mosul si sono uniti alle file degli islamici. «Sono teste calde, dobbiamo sorvegliarli perché conoscono bene il territorio» spiega. Sui due lati della strada parte una linea ordinata di postazioni — nidi di mitragliatrici, uomini armati di bazooka, autoblindo nei cortili, cecchini sui tetti delle abitazioni, gipponi carichi di forze speciali pronte ad intervenire — che costituiscono il bastione di contenimento contro i radicali sunniti. «Sappiamo che presto questi fanatici attaccheranno anche noi. Ma siamo pronti. Noi siamo molto meglio dell'esercito di Nouri al Maliki» dice ancora questo veterano peshmerga dileggiando le unità del premier sciita che stanno disertando e fuggendo in massa «Noi abbiamo preso il polo petrolifero di Kirkuk perché da sempre appartiene ai curdi. Non è il caso di Mosul, che è araba. Se nessuno ci attacca, non muoveremo un dito. Siamo qui solo per difendere il nostro Paese, non per annettere altre regioni» aggiunge. Ma dal Sud le notizie sono tutto tranne che rassicuranti. L'Isis mira diritto alla capitale, ormai sta alle sue porte. Lo spettro della guerra civile tra sciiti e sunniti è realtà. A Bagdad iniziano a mancare carburante, acqua, la popolazione fa incetta di cibo, chi può ed è sciita scappa verso le zone meridionali, oppure si riversa sull'aeroporto per andare all'estero: come avveniva nel periodo appena precedente l'invasione americana del zoo3. I diplomatici occidentali nella capitale guardano con preoccupazione alla creazione di milizie indipendenti. «torna il caos armato, nessuno comanda più nulla». Ieri la novità più importante è stato l'appello alla mobilitazione armata lanciato durante il sermone del venerdì dal Grande Ayatollah Ali Al-Hussein al-Sistani, considerato il notabile religioso più ascoltato nell'universo sciita del Paese. La «Fitna», lo scontro intermusulmano, è la cronaca quotidiana. «Gli uomini che possono imbracciare il fucile hanno il dovere di combattere i terroristi in difesa del Paese, del suo popolo e dei suoi luoghi santi» ha specificato il portavoce ufficiale. Sistani è percepito come un moderato, un sostenitore del sistema elettorale, sempre attento a non mischiare politica e religione. Il suo appello rimarca la gravità del momento. I profughi che abbiamo incontrato mentre fuggivano da Mosul confermano il tentativo da parte dei fondamentalisti sunniti di imporre il «muovo Califfato» secondo la loro interpretazione estremista della legge islamica. «Vogliono che le donne si coprano il capo e non escano di casa, se non accompagnate da un uomo adulto della famiglia. Minacciano chi fuma o si veste nello stile occidentale. Me ne sono andato perché amo la libertà. A noi dicono che dobbiamo essere bravi musulmani. Ma loro di nascosto si ubriacano di birra e vino trovati nelle case dei cristiani» dice Assaf Hamza, operaio di 46 anni, scappato con i quattro figli e la moglie. Ai confini delle zone prese dagli islamici, la popolazione cerca la protezione curda. Ogni strada laterale è stata barricata e i comitati di quartiere mobilitano ronde di cittadini armati. Per contro l'Isis cerca di ingraziarsi i civili rimasti a Mosul. Fa appello alla calma, invita a tornare al lavoro, regala benzina a chi collabora. Sulla strada verso Erbil gruppi di ragazzini la rivendono sul mercato nero per un dollaro e mezzo al litro: guadagno netto garantito tra gli sfollati spaventati e bisognosi di tutto. Eppure sono ancora questi ultimi a raccontare in parole semplici i motivi del fallimento di Malild e del trionfo del-l'Isis. «i guerriglieri sunniti non sono terroristi. Tanti sono cittadini stanchi del governo di Maliki troppo legato all'Iran» osserva uno studente. «L'esercito iracheno, che sino a una settimana fa controllava Mosul, era composto dal peggio delle unità sciite estremiste. Noi siamo quasi tutti sunniti. E loro ci umiliavano, offendevano le nostre donne, si comportavano da occupanti» dicono tra le tende del campo allestito dall'Onu a Kazer, una trentina di chilometri a Nord di Mosul. Tre giorni fa c'erano solo una decina di tende. Ora sono già cento a offrire scarso riparo contro il sole e la polvere a oltre 550 persone. Il loro dramma è appena cominciato, ma sembra destinato a peggiorare.
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