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Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
13.06.2014 Contro lo 'Stato islamico' in Iraq Obama non esclude l' opzione militare
Cronache di Lorenzo Cremonesi, Francesco Semprini. Commenti di Guido Olimpio, Daniele Raineri

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio
Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio - Paolo Mastrolilli - Daniele Raineri
Titolo: «Jihadisti avanti, ai curdi il petrolio di Kirkuk - Droni e missili Usa verso Bagdad. Ma l'Iran è già sceso in campo - Obama: pronti a colpire gli islamisti - Iraq arrangiati da solo»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/06/2014, a pag. 14, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo  "Jihadisti avanti, ai curdi il petrolio di Kirkuk" e, a pag.15, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo  "Droni e missili Usa verso Bagdad. Ma l'Iran è già sceso in campo". Dalla STAMPA, a pag. 14 l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo  "Obama: pronti a colpire gli islamisti" e dal FOGLIO, a pag. 1, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "Iraq arrangiati da solo".
L'analisi di Guido Olimpio sottolinea la rapidità con la quale l'Iran è intervenuto in Iraq, sfruttando l'aiuto offerto al governo di Al Maliki per estendere la sua pericolosa influenza sul paese. Paolo Mastrolilli riporta le dichiarazioni di Obama, che mantiene aperta l'opzione di un intervento militare, probabilmente aereo. Daniele Raineri riferisce della mancata risposta dell'amministrazione alla precedente richiesta, da parte di Al Maliki, di impiegare i droni contro lo Stato islamico
Sulla STAMPA di oggi, 13/06/2014, a pagg. 1-31, Roberto Toscano nell'editoriale dal titolo "Il rischio di una deriva incontrollabile", come sua abitudine non formula un'analisi significativa, ma si limita a una sorta di riassunto della situazione irachena.
Nelle prime righe dell'articolo sostiene però una tesi più definita (già presentata da Sergio Romano sul CORRIERE della SERA del 12/06/2014: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=53769 
 ): quella secondo cui la causa della crisi attuale sarebbe la guerra che rovesciò il regime di Saddam Hussein: "soprattutto oggi", scrive "con l'offensiva dell'Isis risulta clamorosamente evidente che quell'intervento non solo era arbitrario nelle motivazioni (Saddam non stava costruendo una capacità nucleare, e non aveva niente a che vedere con Al Qaeda), ma era destinato a produrre risultati che oggi, con ogni evidenza, sono esattamente l'opposto di quelli perseguiti dall'amministrazione Bush".
Peccato che Toscano sia smentito sul suo stesso giornale, a pag. 15, dall'accurata  ricostruzione storica  di Francesco Semprini, dal titolo "Dodici
anni di guerra al terrore. Come siamo arrivati al disastro".
Semprini cita
Daniel Pipes che, in una nell'intervista di ieri alla STAMPA  ( http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=53769 ), ha spiegato che lo sbaglio non è stato il rovesciamento di Saddam, ma il successivo abbandono dell'Iraq:
"lo "Status of force agreement" firmato da Bush nel 2008,  l'atto col quale si è deciso che le forze combattenti Usa sarebbero state ritirate dalle città nel 2009, e avrebbero lasciato il Paese nel 2011".
Non è vero, poi, che in Iraq non vi fossero armi di distruzione di massa. Saddam le aveva infatti utilizzate per uccidere migliaia di curdi ed ebbe la possibilità di nasconderle per non farle ritrovare dagli americani e dagli alleati.


Barack Obama    Membri dello "Stato islamico"


Di seguito, gli articoli:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi - Jihadisti avanti, ai curdi il petrolio di Kirkuk


Lorenzo Cremonesi


GERUSALEMME — Iraq al collasso. Tre anni dopo il ritiro americano, l'unità del Paese appare minata alle radici. L'avanzata verso Bagdad dei fondamentalisti sunniti guidati dalla milizia dello «Stato Islamico dell'Iraq e del Levante» (Isis) continua senza che il governo sciita di Nouri al Maliki riesca ad opporre una forza di resistenza consistente. Nella capitale la popolazione accumula cibo, carburante e si prepara al peggio. Il rischio ora è che la guerra civile torni a farsi realtà come nei mesi sanguinosi del 2006 e 2007. I muri tra quartieri sciiti e sunniti della capitale tornano a farsi più alti che mai. Ieri il premier ha subito l'ennesimo smacco. Aveva convocato d'urgenza il Parlamento per dichiarare lo «stato di emergenza» e ricorrere a provvedimenti eccezionali per combattere le milizie sunnite. Ma è mancato il quorum, solo 128 dei 325 deputati sono apparsi in aula. Un colpo grave per un leader sempre più disorientato, impotente e incapace di affrontare la prospettiva ormai concreta di sfaldamento della coesione nazionale. L'Iran resta al suo fianco. Il presidente americano Barack Obama ieri ha dichiarato che «l'Iraq avrà bisogno di ulteriore assistenza» e che il governo Usa sta esaminando «tutte le opzioni, . Ma il fallimento di Maliki di inglobare gli elementi moderati dell'universo sunnita nella compagine governativa ha rafforzato le ali più estremiste, ben contente di stringere l'alleanza con la ribellione sunnita in Siria e decise a soverchiare gli sciiti in nome dell'utopia radicale del «nuovo Califfato wahabita». Le ultime notizie dal fronte dei combattimenti raccontano della rotta disordinata dell'esercito regolare iracheno. A Tikrit i veterani baathisti fraternizzano con le avanguardie dei nuovi radicali. Fonti locali segnalano pattuglie sunnite posizionate già una trentina di chilometri a nord dalla capitale. «Dobbiamo marciare su Bagdad. Abbiamo da regolare un vecchio conto laggiù», tuonano i leader dell'Isis. I più bellicosi minacciano di mettere a ferro e fuoco Karbala e Najaf, le città sante dell'universo sciita. Pare che solo nella città di Samarra le truppe regolari locali siano riuscite a resistere. Per il resto, l'Isis riporta vittoria dopo vittoria. Un monito per gli americani: lo scenario iracheno non preannuncia ciò che potrebbe avvenire nel prossimo futuro in Afghanistan? Dal 2003 Washington ha speso 25 miliardi di dollari per addestrare e armare i regolari iracheni. Ma tutto ciò appare sprecato. Gli insorti sunniti stanno pescando dagli arsenali abbandonati. Ad approfittare del caos sono i curdi. Oltre 300 mila profughi dalla regione di Mosul sono entrati nei loro confini presso Erbil. Asserragliati nelle loro province indipendenti, de facto ormai uno Stato a sé, i curdi nelle ultime ore hanno realizzato quasi senza combattere un loro vecchio sogno: il controllo di Kirkuk. E questo uno dei poli petroliferi più importanti del settentrione iracheno. Saddam Hussein trent'anni fa vi aveva espulso la popolazione curda per insediarvi arabi. Dal 2003 i curdi vorrebbero includerla nelle loro regioni, Maliki si è sempre opposto. Ma adesso la strada è aperta e i peshmerga (la milizia curda) costituiscono una formidabile forza militare, forse l'unica coesa, ben comandata e in grado di opporre una solida resistenza agli insorti sunniti. Ieri questi ultimi si sono rapidamente ritirati da Kirkuk. l loro obbiettivi per il momento guardano a Sud. Lo scontro con i curdi sarà rimandato al futuro. 

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio - Droni e missili Usa verso Bagdad. Ma l'Iran è già sceso in campo


Guido Olimpio    Qasim Suleimani, capo dell'Armata Quds iraniana    


 Le notizie da Oriente raccontano che l'Iran si è mosso subito. Due battaglioni dell'Armata Qods, l'apparato speciale dei pasdaran, sono arrivati di gran fretta a Bagdad per assistere l'amico iracheno. O magari c'erano già. Sono di casa. Insieme a loro i Saberin, membri di un'unità scelta. Li chiamano «coloro che hanno pazienza», ma vista la situazione c'è poco da aspettare. Forse è anche per questo che è stato avvistato il generale Qasim Suleimani, il capo in testa della Qods, l'uomo delle missioni impossibili. La reazione iraniana è stato certo più veloce di quella americana. Tanto che i repubblicani hanno accusato Barack Obama di «essersi fatto un sonnellino sull'Iraq». Ma è anche vero che è molto difficile agire. E lo è ancora di più quando non si ha alcuna voglia di farlo. Con il solito dilemma del presidente, stretto tra la volontà di non riaprire la pagina delle guerre e la responsabilità di far fronte alla crisi. Bagdad — come hanno scritto i media Usa — ha chiesto per la seconda volta in un anno raid aerei statunitensi. Magari affidati ai droni, quasi che fossero la soluzione magica ad ogni minaccia estremista. Un appello accompagnato dall'apertura dello spazio aereo agli Stati Uniti. Washington ha preso tempo. Mercoledì ha rifiutato di mandare i suoi caccia. Ieri pomeriggio, il presidente ha aperto nuovi scenari. Infatti non ha escluso «alcuna opzione», ha parlato di possibili «azioni militari nel caso la sicurezza nazionale sia a rischio», ha promesso ulteriori aiuti ed ha ribadito che non vi sarà alcun impiego di forze terrestri. Il tutto all'interno di consultazioni per «una robusta reazione regionale». Dunque i blitz aerei che fino a 24 ore fa erano stati esclusi ora paiono più vicini. E molto dipenderà dall'evoluzione degli eventi. La Casa Bianca ha intanto indicato una strada precisa: tocca all'esercito iracheno prendersi le sue responsabilità, così come serve una soluzione politica che coinvolga sunniti e sciiti. Un'affermazione che si porta dietro una verità. L'America ha speso 25 miliardi di dollari per armare e addestrare le forze armate di Bagdad. Ed ecco il risultato. Un disastro. Ancora peggio quello politico per colpa di Bagdad. Dunque l'amministrazione Usa prevede di «assistere» l'Iraq con le solite formule quando non si vogliono mettere scarponi sul terreno. Intanto con l'incremento delle forniture militari. Certo non sarà possibile far arrivare subito gli F16 e gli elicotteri d'attacco Apaches, ma è possibile che il Pentagono mandi altri missili terra-aria. In particolare altre dotazioni di Hellfire che gli iracheni usano a bordo di bimotori Cessna modificati. Non meno importante il supporto dell'intelligence. I droni presenti nelle basi turche, i Global Hawk schierati a Sigonella (Sicilia), insieme a voli spia e satelliti possono fare da vedette avanzate per monitorare la travolgente cavalcata jihadista. Garantiscono informazioni vitali ad un esercito cieco e disorganizzato. All' Iraq servirebbero coordinatori e apparati di comunicazione. La catena di comando non ha funzionato, molti ufficiali di nomina politica sono scappati al primo petardo, molte unità non erano in grado di comunicare e avevano pochi viveri. Le immagini diffuse dall'Isis mostrano intere caserme abbandonate, con tank e blindati lasciati con le chiavi nel cruscotto». Per certi aspetti un mistero. Nella capitale statunitense sono apparsi commenti dove si parla di «sorpresa» per la sconfitta dei governativi. Analisi bilanciate da altre analisi: gli addetti ai lavori sapevano della scarsa preparazione dei soldati di Bagdad. Non meno gentili i giudizi sui generali, almeno tre, ritenuti responsabili della disfatta. Al punto che gli iracheni pensano alla costituzione di una milizia popolare che sostituisca plotoni di militari infedeli o deboli. Uno schema già adottato da Bashar Assad con l'assistenza di Hezbollah e pasdaran iraniani. Washington ha poi intensificato i contatti con gli amici. Magari partendo dai sauditi, con i loro agganci nella nebulosa islamista. A seguire la Giordania, che ha subito rafforzato il dispositivo militare lungo il confine ed ha mobilitato i suoi servizi. Le basi giordane possono poi diventare fondamentali per sostenere le probabili incursioni aeree. E poi i rapporti con i peshmerga curdi iracheni, unico schieramento compatto e motivato. Quella del Kurdistan è una enclave dove in passato hanno operato con successo francesi, britannici e israeliani. Affari e intelligence per tenere d'occhio il Sud, ma anche il vicino Iran. Torniamo così da dove siamo partiti. Teheran ha mezzi e interessi (enormi) per contenere la spinta dell'Isis. Una leva che potrebbe entrare anche nei negoziati sul nucleare in corso con gli Usa. Scenari globali che si sovrappongono a quelli regionali. I mullah hanno costituito da decenni un network all'interno dell'Iraq, sono 'in grado di spostare volontari sciiti schierati in Siria e mobilitare quelli locali. Dispongono di forze di pronto intervento alla frontiera. Il contrattacco nella zona di Tikrit — ha rivelato il Wall Street Journal — è stato condotto proprio dai battaglioni della Qods. Così come ha un grande valore la presenza di Suleimani. Lo dimostra una foto pubblicata da un deputato con la didascalia: «Haji Qasim è qui . Come dire, ecco il salvatore. Che non lavora però gratis e un giorno chiederà la sua parcella.

LA STAMPA - Paolo Mastrolilli - Obama: pronti a colpire gli islamisti


Paolo Mastrolilli

NEW YORK «Non escludo nulla». Così ha parlato ieri il presidente Obama, davanti alla minaccia che l'Iraq precipiti nella guerra civile. Lo Stato islamico dell'Iraq e della Siria, gruppo terroristico sunnita legato ad al Qaeda, punta su Baghdad e minaccia le città sacre sciite di Najaf e Karbala. I curdi hanno occupato Kirkuk, per riempire il vuoto lasciato dall'esercito del premier al Maliki, che a Mosul ha abbandonato le sue posizioni. Proprio Maliki aveva chiesto a Washington di intervenire, a metà maggio, per fermare l'offensiva dell'Isis. La Casa Bianca aveva bocciato il suo appello, ma ora che i terroristi sono alle porte della capitale sta considerando raid aerei e attacchi con i droni, per aiutare le truppe regolari irachene a fermarli. La colpa della crisi, secondo gli americani, ricade sulle spalle di Maliki, per tre ragioni: non ha firmato lo «status of forces», che dopo il ritiro avrebbe consentito agli Usa di lasciare un contingente per prevenire queste emergenze; ha affidato le forze armate a comandanti sciiti non all'altezza; ha governato escludendo la minoranza sunnita, privilegiata all'epoca di Saddam, spingendola a saldarsi con Isis. Molti militari del vecchio esercito iracheno sono passati con i terroristi, dopo aver perso il posto in seguito alla caduta del regime, e fra i leader dei militanti ci sono anche personaggi come Izzat Ibrahim al Douri, ex vice presidente sfuggito alla cattura. Le operazioni dell'Isis erano cominciate in Siria, dove gli estremisti sunniti combattono contro Assad, alleato degli sciiti iraniani. Approfittando del vuoto di potere in entrambi gli stati, e dei confini porosi nel deserto, i terroristi si sono trasferiti nella zona centrale dell'Iraq. Gli errori commessi da Maliki hanno consentito all'Isis di consolidare la presenza, fino a lanciare l'attacco di martedì contro Mosul, seconda città irachena e centro petrolifero. Ora sta marciando verso Sud, dove hanno preso la città natale di Saddam, Tikrit, e ha circondato Samarra, che si trova solo 100 chilometri a Nord di Baghdad. I portavoce di Isis dicono che vogliono invadere la capitale, «per saldare alcuni conti», e minacciano poi di spingersi fino a Karbala e NajaI le due città sacre agli sciiti dove aveva vissuto anche Khomeini. In pratica è la riscossa della minoranza sunnita, che attraverso Isis vuole riprendere il controllo del suo territorio, spaccando l'Iraq nel Nord curdo, il Sud sciita e la parte centrale controllata dagli eredi di Saddam per creare uno stato islamico. Questo progetto ha provocato subito la reazione dei curdi, che al Nord hanno occupato l'altra città petrolifera Kirkuk, e dell'Iran, che ha inviato due battaglioni delle Quds Forces della Guardia Repubblicana per aiutare Maliki a difendersi. In teoria il governo avrebbe i mezzi per prevalere: oltre 200.000 uomini nelle Forze armate, più di 400.000 poliziotti, circa 300 carri armati, una settantina di elicotteri. Però non ha la forza politica, l'organizzazione e la competenza per farlo. L' 11 maggio scorso Maliki aveva incontrato il generale Lloyd Austin, capo del Central Command americano, chiedendo di mandare più armi al governo, o intervenire direttamente per fermare Isis. Il 16 ne aveva parlato col vice presidente Biden e aveva inviato una richiesta scritta. La Casa Bianca, occupata dalla crisi ucraina e dai programmi per il ritiro dall' Afghanistan, aveva bocciato la domanda. Obama non voleva essere nuovamente coinvolto in Iraq, mentre elaborava la sua dottrina dell'interventismo limitato illustrata nel discorso a West Point, e nessuno pensava che la situazione fosse così vicina al collasso. Mercoledl alla Casa Bianca si è tenuto un vertice di emergenza, e ieri Obama ha detto che «l'Iraq ha bisogno di più aiuto. La mia squadra sta lavorando senza sosta per identificare l'assistenza più efficace. Dobbiamo garantire che i jihadisti non ottengano una presenza permanente in Iraq o in Siria». Parte della sfida - ha poi aggiunto - «è politica», perché il governo sciita dovrebbe includere sunniti e curdi, creando un interesse comune a sconfiggere i terroristi. Ma lo speaker della Camera Boehner ha attaccato il presidente per il ritiro affrettato, dicendo che «stava dormendo», e il senatore McCain ha chiesto di richiamare in servizio il generale Petraeus. Gli Usa hanno già stanziato 14 miliardi di dollari per rifornire Baghdad di armi, che però non sono ancora arrivate: la consegna di 2 caccia F-16 e 6 elicotteri Apache è prevista in autunno. Il portavoce della Casa Bianca Carney ha detto che il Pentagono sta considerando raid aerei e droni, non truppe sul terreno. L'ambasciata americana a Baghdad, però, ha preparato anche i piani per l'evacuazione.

Il FOGLIO - Daniele Raineri -  Iraq arrangiati da solo


Daniele Raineri


L’Amministrazione Obama respinge per ora la richiesta pressante del governo iracheno, che vorrebbe di nuovo bombardamenti aerei americani in Iraq per fermare l’avanzata dello Stato islamico. E intanto fa evacuare con tre aerei gli istruttori militari americani a nord di Baghdad, come se fosse Saigon nel 1975. L’Iran manda la Brigata Quds, le forze speciali delle Guardie della rivoluzione, a combattere con gli iracheni per riprendere Tikrit, secondo fonti del Wall Stret Journal. Baghdad aveva cominciato già l’anno scorso a chiedere una campagna con i droni sul modello di quelle in Pakistan e in Yemen, A marzo la richiesta è stata rinnovata a una delegazione americana di esperti di sicurezza in visita a Baghdad.
L’11 maggio il primo ministro Nouri al Maliki ha chiesto al generale che presiede il Central Command (il settore del Pentagono che si occupa del medio oriente) che gli americani dessero all’Iraq i droni e il 16 maggio ha telefonato al vicepresidente Joe Biden, per dire: fate voi, usate i vostri droni liberamente per colpire in Iraq. Alla telefonata è seguita una richiesta scritta, che non ha portato a nulla. Obama l’anno scorso ha concesso due mesi di voli di droni – a novembre e dicembre – in ricognizione sulla provincia di Anbar, che è una zona dove la guerriglia è forte, ma erano droni disarmati.
Se Maliki chiedeva droni e bombardamenti il 16 maggio, chissà oggi che la situazione in Iraq è decisamente più grave. C’è stata una escalation dei combattimenti e lo Stato islamico, il gruppo militare che vuole fondare un Califfato islamista, dopo avere preso tre città nel nord ora dichiara di volere conquistare la capitale Baghdad.
Il presidente americano Obama si trova davanti un’alternativa impossibile. Se interviene e ordina di bombardare apre un ennesimo fronte di guerra, getta via tutta la narrativa della promessa rispettata sul ritiro americano dall’Iraq nel 2011 e si schiera al fianco del primo ministro iracheno – che con la sua odiosa politica antisunnita ha creato le condizioni per questa esplosione di violenza (su questo Dexter Filkins ha scritto un articolo importante pubblicato ad aprile sul New Yorker). Se Obama non fa nulla, rischia che la situazione peggiori, che comincino combattimenti nelle strade di Baghdad, che l’intero paese precipiti in una fase d’instabilità assai pericolosa (anche per il commercio del petrolio, tra le altre cose), che potrebbe persino obbligare Washington a schierarsi con il presidente siriano Bashar el Assad (come ipotizzano alcune fonti del governo americano sentite dal Wall Street Journal).
Ieri il presidente americano ha detto che “non esclude alcuna opzione” e che sta monitorando da lungo tempo la situazione sul terreno e anche che l’America sente l’impegno a fare sì che “questi jihadisti non mettano radici né in Iraq né in Siria”. Se Obama non annuncia misure specifiche, il presidente iraniano Hassan Rohani ha detto che il paese “è pronto a combattere il terrorismo in Iraq”. Il governo di Teheran ha piazzato la linea rossa che lo Stato islamico non deve attraversare all’altezza della città di Samarra, 150 chilometri a nord della capitale. Il capo della Brigata Quds, l’unità specializzata nelle operazioni all’estero dei Guardiani della rivoluzione, il generale Qassem Soleimani, in questi giorni è stato avvistato a Baghdad per organizzare la resistenza allo Stato islamico. Da notare che una delle misure annunciate dal primo ministro iracheno – la creazione di squadre armate di cittadini volontari – ricalca un modello già sperimentato da Soleimani con successo in Siria contro i ribelli.
Per ora, scrive il New York Times, l’Amministrazione non è interessata ad agire militarmente. “Alla fine, questo è un problema che devono risolvere il governo e le forze di sicurezza dell’Iraq”, dice il portavoce del Pentagono, l’ammiraglio John F. Kirby. Un funzionario anonimo dice al Wall Street Journal che la volontà della Casa Bianca di intervenire dipenderà da quanto lo Stato islamico sarà considerato una minaccia diretta alla sicurezza americanai. “Ci sarebbe bisogno di un enome impegno militare per fare la differenza, e non c’è nessuna voglia”.
Washington potrebbe accelerare sulla linea tenuta finora, quella di un appoggio esterno con armi, addestramento e intelligence. Il pacchetto d’aiuto militari americani a Maliki è costato per ora 14 miliardi di dollari e include jet F-16 (però i primi due arriveranno soltanto a settembre), sei elicotteri da guerra Apache in leasing (non ancora arrivati), fucili M-16 ( che i soldati iracheni in fuga spesso lasciano nelle mani dei nemici) e missili Hellfire, che servono per i bombardamenti mirati (100 a dicembre e adesso, secondo le notizie di due giorni fa, altri trecento). Questa settimana in Giordania comincia un corso d’addestramento per truppe irachene condotto da istruttori delle Forze speciali americane, ma si tratta di numeri bassi. I soldi investiti nell’esercito iracheno sono finiti in un disastro, notava il New York Times due giorni fa, con un articolo devastante che implicitamente ridicolizzava la linea dell’Amministrazione sull’Iraq. I soldati disertano in massa oppure sono feriti o uccisi al ritmo insostenibile di 300 al giorno, diecimila al mese. James Dubik, un generale in congedo che durante la guerra si occupava di addestrare gli iracheni, dice al Nyt le parole proibite: “Dovremmo mandare droni, aerei e consiglieri militari su terreno, in grado di aiutarli prima a difendersi e poi a passare al contrattacco”.
Il Wall Street Journal ieri ha raccontato di un’Amministrazione Obama colta completamente di sorpresa dall’avanzata lampo dello Stato islamico in Iraq. Mercoledì pomeriggio c’è stato un incontro d’emergenza alla Casa Bianca per capire cosa fare. “L’Amministrazione Obama, incapace di agire direttamente in Iraq dopo il ritiro e senza alcuna voglia di intervenire in Siria per timore di invischiarsi in un altro conflitto, non ha più molte opzioni secondo funzionari di alto livello della Difesa e dell’intelligence”, scrive il quotidiano americano.
Per ora, in Iraq, il contenimento contro lo Stato islamico è rimasto nelle mani della minoranza semiautonoma curda, che ieri ha occupato la città di Kirkuk dopo che i soldati sono fuggiti e hanno abbandonato le loro caserme. Al contrario dell’esercito del governo centrale, i peshmerga curdi sono motivati e disciplinati, ma non combatteranno per Baghdad senza chiedere i cambio ancora più autonomia

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