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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.06.2014 'Stato islamico' in marcia verso Baghdad: il Califfato e la jihad prossima ventura
le analisi di Domenico Quirico e Daniel Pipes. E quella di Sergio Romano, che sbaglia tutto

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Domenico Quirico - Francesco Semprini - Sergio Romano
Titolo: «Ci porteranno la loro guerra - L'errore di Bush? L'accordo del 2008 non l'invasione - La rinascita del califfato»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/06/2014,  a pagg.1-31, l'editoriale di Domenico Quirico dal titolo "Ci porteranno la loro guerra", da pag. 19 l'intervista di Francesco Semprini a Daniel Pipes, dal titolo  "L'errore di Bush? L'accordo del 2008 non l'invasione" e dal CORRIERE della SERA , a pag. 1, l'editoriale di Sergio Romano dal titolo "La rinascita del califfato".
Sulla conquista di Mosul segnaliamo anche le  analisi, in parte insoddisfacenti, raccolte in un'altra pagina della rassegna di IC, che possono essere lette al seguente link
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=53770

Domenico Quirico e  Daniel Pipes sono analisti che gettano luce sul futuro, non limitandosi a prendere atto del corso degli eventi: Romano, che denuncia il pericolo dell'instaurazione del Califfato solo dopo la presa di Mosul, farebbe bene a leggerli. Per quanto riguarda, poi, la sua tesi che vede nella guerra americana ed alleata del 2003  l'origine dell'attuale situazione irachena, la migliore risposta è fornita da Pipes: l'errore non è stato abbattere il regime di Saddam Hussein, ma abbandonare l'Iraq . Così come un errore sarebbe seguire le indicazioni di Romano per evitare l'affermazione degli islamisti, ovvero il sostegno al regime siriano, alla Turchia del fondamentalista  Erdogan e  all'Iran, il principale sostenitore del terrorismo internazionale, impegnato nella corsa all'atomica.
Chi fosse realmente interessato a una soluzione dei problemi del Medio Oriente dovrebbe leggere le analisi di Mordechai Kedar, che da tempo  segnala la necessità di superare gli Stati e i confini artificiali creati dagli accordi Sykes-Picot  del 1916, e di tornare a un'organizzazione tribale della regione, l'unica capace di contrastare il terrorismo islamista. 
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=320&id=39149

In alto a destra, la copertina del libro di Bat Yeor "Verso il Califfatto universale", di cui consigliamo la lettura a chi voglia comprendere la strategia del fondamentalismo islamico

Ecco gli articoli:

LA STAMPA
- Domenico Quirico - Ci porteranno la loro guerra


Domenico Quirico

Se si guarda al passato di solito si capisce qual è il momento in cui è nata una nuova epoca, mentre il giorno in cui la cosa si è verificata non era altro che uno dei tanti, attaccato alla coda del giorno seguente. Un giorno i profeti dell’accaduto lo diranno per la conquista di Mosul, in Iraq. C’erano stati segni, in primavera e ancor più in questo inizio d’estate, il subbuglio mai era stato così universale nel continente islamico di sofferenze e di calura; ma di queste cose ci si accorge sempre dopo.
In Siria le forze islamiste avevano ormai cancellato nel «Qaidistan» che va dai confini della Turchia all’Eufrate i soldati di Bashar e soprattutto la vecchia Armata libera della rivoluzione laica siriana, e continuavano a vomitare brigate di combattenti stranieri. In Iraq, dall’altra parte di una frontiera che non esiste più, l’esercito che gli americani hanno lasciato a puntellare il plumbeo Saddam era in rotta davanti a un feroce emiro del Levante. Gli aizzati dal fanatismo scuotevano la Libia, riguadagnavano terreno nel Sahel, insanguinavano il Nord della Nigeria, non cedevano con titanica protervia in Somalia e in Centrafrica. Storie minori, frammenti separati, fastidi periferici per il distratto tiepidume dell’Occidente. Se non ci fosse l’impiccio dei profughi sbarcanti chi, nelle cancellerie, perderebbe tempo per la Siria? Eppure è un solco di orrore che cento anni non basteranno a cancellare. E l’Iraq? Non l’abbiamo regolata la faccenda irachena privatizzandola? Forse tutto ciò non significa nulla, non ci si accorge di queste cose se non dopo. Come se fosse qualche indiscernibile Futuro.
E invece la presa di Mosul da parte di quella che ci ostiniamo a definire al Qaida (gli incubi sono conservatori), cacciando davanti a se decine di migliaia di profughi pazzi di terrore, segna l’inizio di una nuova epoca: ovvero la creazione del primo Stato islamico conficcato nel cuore del vicino oriente, saldando le zone «liberate» e restituite alla legge spietata di dio della Siria e dell’Iraq. Quello di Mosul non è un raid di bande, o un gigantesco atto terroristico: è l’avanzata di un esercito che occupa territorio e si insedia per restare. Ora l’Insorgenza Globale Islamista ha un luogo dove organizzarsi, produrre nuovi mujahedin col buio nel profondo degli occhi, fatti affluire da tutto il mondo, e spedirli attraverso frontiere fragilissime a incendiare come un fuoco ardente i territori vicini. E’ la prima pietra del Califfato, che dovrà ricalcare le frontiere di quello del sesto secolo, dalla Spagna all’Asia centrale. Che, nutrito non di spiritualità ma di risentimento, dovrà sfidare, potenza dinamica contro potenza declinante, gli stanchi ruggiti dell’Europa e dell’Occidente.
Non ci siamo accorti che i conflitti afgano, iracheno e gli altri all’interno del mondo arabo musulmano, il dopo primavera araba sono in realtà tasselli di una insurrezione, di un progetto globale di Rivoluzione e di conflitto. Ci è sfuggito perché i vari ribelli di questo mondo bollente non combattono in apparenza tutti per la stessa causa, anzi spesso i legami con la globalità servono come aiuto esterno e cassa di risonanza . Il capo tribù tuareg lotta contro gli sfruttatori neri del governo sudista e i suoi complici francesi, l’emiro fanatico di Boko haram nigeriani sfida il governo centrale corrotto e brutale, il jihadista libico si batte per l’indipendenza della sua tribù e del suo petrolio, il volontario ceceno in Siria cerca la vendetta contro i russi… Spesso i combattenti di questo Jihad universale non si rendono nemmeno conto che sono all’interno di una guerra globale. Il filo lo tengono i rifondatori di al Qaida, per i quali Bin Laden e i suoi terroristi sono preistoria: vecchi, canuti veterani del Male e giovani lupi scelgono le aree turbolente, sfruttano il vuoto politico che i nostri interventi malaccorti ipocriti e frettolosi hanno seminato in Libia, Iraq, Afghanistan; vi entrano con mezzi indiretti e subdoli, i matrimoni con le ragazze delle tribù locali, il radicalismo religioso della versione salafita, la corruzione, i traffici come il contrabbando di droga e di uomini, l’industria dei sequestri. L’eredità maledetta di Gheddafi lega le ribellioni nel Sahel, in Nigeria nel Centrafrica in somalia, dove armi provenienti dai magazzini libici continuano a scendere lungo le piste del deserto verso sud.
Non è più terrorismo: è l’invasione, lo scontro diretto, la guerra. E’ la rivendicazione del potere sulla base di una identità perduta, la legge di dio. Il territorio non è fondamentale, la chiave della vittoria è il controllo della popolazione, con la violenza, la predicazione, il conformismo, l’odio attizzato contro l’Occidente e i suoi corrotti proconsoli locali. Non è compito difficile. Il Califfato ha ormai un esercito, i finanziamenti arrivano dall’Arabia saudita, grande padrino, per paura e interesse, della guerriglia sunnita, i forzieri li riempiamo noi ogni volta che compriamo petrolio, le armi le inventiamo noi e le vendiamo per avidità. Come ai tempi dei sultani turchi, erano mercenari occidentali che forgiavano i micidiali cannoni ottomani che smantellavano l’Europa. I soldati del Califfato sono più esperti e decisi delle forze occidentali: ci è lecito combattere solo guerre senza morti, guerre ordinate, pulite, distanti, meccaniche. Il miglior combattente occidentale è più un tecnico di computer che un guerriero o gira protetto come un bruco da strane corazze. I soldati del Jihad globale, ragazzi per cui l’età tramonta di colpo, come il sole, prima sono adolescenti un attimo dopo già vecchi, cercano la morte, non la temono. Per loro la Storia è lo svolgimento di una trama di eternità sotto occhi temporali e transitori.
Ecco il nostro errore: rassegnati a una religione tiepida, adagiata nell’abitudine, deposito di una cultura morta, ci siamo dimenticati di Dio, non abbiamo creduto che qualcuno potesse battersi per Dio, gente cresciuta baciando il Libro e il pane. Gettano l’Infinito nella gramola del Finito, seguono le bandiere di un Dio guerriero, aggressivo, che fulmina i nemici invece di perdonarli. Il meglio di loro collabora ai loro delitti: il Male è davvero un mistero e questo è il suo aspetto più sconcertante. L’idea del sacro è semplicemente una delle nozioni più conservatrici perché tenta di trasformare altre idee, Incertezza Progresso Mutamento Pluralità, in crimini. Noi pensiamo di poter scegliere le nostre guerre. Ora altri ci imporranno la loro.

LA STAMPA - Francesco Semprini - L'errore di Bush? L'accordo del 2008 non l'invasione


Francesco Semprini   Daniel Pipes

Daniel Pipes, direttore del Middle East Forum, cosa accade in Iraq?
«Quello a cui assistiamo è la certificazione del fallimento degli Stati Uniti in Iraq. Riflette inoltre l'impressionante forza e la particolare violenza dell'estremismo, specie quello dello Stato islamico di Siria e Iraq, e il grande vuoto delle istituzioni politiche di Baghdad».
Tutta colpa della Siria?
«Solo in parte, nelle confinanti Giordania e Turchia non sta certo accadendo la stessa cosa».
È stata un errore la guerra di George W. Bush o il ritiro con Obama?
«Eliminare Saddam Hussein è stata la cosa giusta da fare, l'errore è stato voler trasformare l'Iraq in un Paese occidentale libero e florido. Il grande sbaglio in particolare è stato lo "Status of force agreement" firmato da Bush nel 2008, o l'atto col quale si è deciso che le forze combattenti Usa sarebbero state ritirate dalle città nel 2009, e avrebbero lasciato il Paese nel 2011».
Intende dire che Bush ha vanificato i suoi stessi sforzi?
«Certo, io sono repubblicano e devo ammettere che l'errore lo ha compiuto Bush, Obama ha dato attuazione a quello che il suo predecessore aveva stabilito».
Al Qaeda cerca di prendere il controllo dei pozzi di greggio?
«AI Qaeda tenta di occupare qualsiasi città dove il governo è debole, se ci sono siti petroliferi è anche meglio. Mi impressiona la forza dell'organizzazione, mentre l'Iraq è abbandonato a se stesso. Sono molto pessimista»

CORRIERE della SERA - Sergio Romano - La rinascita del califfato


Sergio Romano


Quando decise l’invasione dell’Iraq, agli inizi del 2003, George W. Bush, presidente degli Stati Uniti, sostenne di avere due buone ragioni: il regime di Saddam Hussein nascondeva nei suoi arsenali armi di distruzione di massa e i Servizi iracheni avevano rapporti organici con Al Qaeda, l’organizzazione di Osama bin Laden che aveva lanciato un attacco terroristico contro le Torri gemelle nel settembre di due anni prima. Non era vero. Le armi non furono mai trovate e i rapporti con Al Qaeda non vennero provati. Oggi, undici anni dopo, una costola di Al Qaeda, lo «Stato islamico dell’Iraq e del Levante», ha conquistato Falluja, ha espugnato Mosul, ha costretto il governo di Bagdad a proclamare lo stato di emergenza e controlla un territorio, a cavallo della frontiera siriana, dove potrebbe risorgere il Califfato sognato da bin Laden.
Le responsabilità non sono interamente americane. Non saremmo a questo punto se la rivolta contro il regime siriano di Bashar Al Assad non avesse chiamato in Siria una legione islamista molto più numerosa e agguerrita delle cellule di Al Qaeda che operavano nella regione dieci anni fa. Ma un nucleo importante si è addestrato probabilmente nelle montagne dell’Afghanistan, dove la guerra americana, combattuta per tredici anni, non è riuscita a impedire il ritorno dei talebani; mentre altri provengono dal Pakistan, ambiguo alleato degli Stati Uniti, o addirittura dalla Libia, a un tiro di schioppo dalle nostre coste, dove gli americani, sollecitati dalla Francia e dalla Gran Bretagna, hanno abbattuto il regime di Gheddafi per lasciarsi alle spalle un Paese distrutto e ingovernabile, devastato da una guerra civile fra milizie tribali e islamiste.
Non è certamente questo che Barack Obama voleva quando pronunciò il suo generoso discorso nell’aula magna dell’Università del Cairo, all’inizio del primo mandato. Sapeva che la guerra irachena era stata un errore e nessuno più di lui sperava di archiviare la sciagurata politica di Bush per consentire al suo Paese d’imboccare una strada diversa. Ma cercò di mascherare la sconfitta con qualche successo militare, rafforzò i due contingenti americani e sperò di andarsene dall’Iraq e dall’Afghanistan dopo una decorosa, anche se temporanea, vittoria. Con il fallimento di questa ultima operazione, la responsabilità dell’insuccesso appartiene, inevitabilmente, anche all’uomo che occupa ora la Casa Bianca.
Spetterà a lui quindi, nei prossimi due anni, impedire la rinascita del Califfato. Può contare sulla collaborazione della Turchia e ha due carte, entrambe difficilmente confessabili e terribilmente scomode. È costretto a sperare che la guerra siriana non venga perduta da Assad. Deve concordare un’azione comune con l’Iran, lo Stato sciita che ha una considerevole influenza sul regime di Bagdad e un forte interesse a impedire la vittoria dell’estremismo sunnita. Ma dovrà battersi contro quella fazione della società politica americana che ha ispirato la politica di Bush e che lo detesta. I neo conservatori dicevano di volere cambiare la carta del Medio Oriente: un obiettivo, purtroppo, perfettamente raggiunto.

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