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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
11.06.2014 Effetti della dottrina Obama: i terroristi dello 'Stato islamico' conquistano Mosul
Cronaca di Lorenzo Cremonesi, intervista di Viviana Mazza a Ian Bremmer, analisi di Daniele Raineri

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Lorenzo Cremonesi - Viviana Mazza - Daniele Raineri
Titolo: «La bandiera di Al Qaeda su Mosul: 200 mila in fuga, Iraq nel caos - 'Il disimpegno Usa ha lasciato un vuoto colmato dalla jihad' - Good job Obama in Iraq: lo Stato islamico si mangia pure Mosul»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/06/2014, a pagg. 12-13, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "La bandiera di Al Qaeda su Mosul: 200 mila in fuga, Iraq nel caos", a pag. 13 l'intervista di Viviana Mazza a Ian Bremmer (politologo, fondatore e presidente di Eurasia Group, docente alla New York University), dal titolo "Il disimpegno Usa ha lasciato un vuoto colmato dalla jihad" e dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "Good job Obama in Iraq: lo Stato islamico si mangia pure Mosul". 



Terroristi dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante

Di seguito, gli articoli:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi -  La bandiera di Al Qaeda su Mosul: 200 mila in fuga, Iraq nel caos


Lorenzo Cremonesi


GERUSALEMME — Bandiera nera sventola su Mosul. E l'Iraq sprofonda ancor più nel caos settario. Dopo una battaglia durata almeno sei mesi, le milizie sunnite pro Al Qaeda condotte dal gruppo operante anche in Siria, noto come «Stato Islamico dell'Iraq e del Levante» (Isis), tra lunedì notte e ieri mattina hanno sbaragliato le unità scelte dell'esercito (per lo più sciite) inviate dai comandi di Bagdad. I testimoni raccontano di interi battaglioni lealisti che abbandonano le armi, si sfilano le uniformi e sbandano verso sud o in direzione dell'enclave curda I fondamentalisti hanno già fatto scappare i 2.725 prigionieri nel carcere regionale. Pare che oltre 200.000 civili siano in fuga Depositi di anni sono metodicamente saccheggiati, l'aeroporto catturato, dati alle fiamme gli edifici governativi, le caserme, le stazioni di polizia. L'incubo del premier sciita Nouri Al Maliki si è infine realizzato nella seconda città del Paese e in uno dei poli petroliferi principali. Come dichiara Osama Al Nujaifi, portavoce sunnita del parlamento, è un'evoluzione «disastrosa» della guerra civile strisciante che, sin dai mesi seguenti l'invasione americana della primavera 2003, brucia nel Paese. Si fa ora molto più concreta la possibilità della divisione in tre enclave dell'Iraq: sciita, sunnita e curda. Una rivoluzione epocale che cancellerebbe il Medio Oriente così come disegnato dagli accordi Sykes-Picot del 1816. «Questi terroristi minacciano non solo la nostra unità e sicurezza, ma tutta la regione», denuncia Al Nujafi: il momento più drammatico dal ritiro Usa del 2011. In una breve conferenza stampa ieri Maliki ha chiesto che il parlamento annunci lo «stato d'emergenza» in tutta Niniveh, la provincia settentrionale confinante con la Siria e con le zone curde dove è situata Mosul. Da Bagdad sono partiti gli F16 che nel pomeriggio hanno cominciato a bombardare alcuni obiettivi conquistati dai qaedisti. Il premier appare scosso, nervoso. Agli occhi della maggioranza dei commentatori sua è la colpa di non aver saputo inglobare la minoranza sunnita (circa il 30 per cento dei 30 milioni di iracheni) nel sistema di governo. Maliki sperava tuttavia che le elezioni parlamentari dello scorso 30 aprile costituissero il viatico per il suo terzo mandato. Il suo partito, «Lo Stato della Legge», ha ottenuto 92 dei 328 seggi al parlamento, garantendogli il quorum per ricostruire la vecchia coalizione dominata dagli sciiti. Ma adesso lo spettro del fallimento diventa ancora più concreto. «I militanti sunniti controllano alcune zone vitali di Mosul. Faccio appello alle forze politiche perché lavorino per l'unità e combattano questi elementi che minacciano ogni iracheno», ha aggiunto chiedendo aiuto ai Paesi amici, all'Onu e persino agli americani. Giovedì il parlamento è convocato per adottare misure eccezionali, che potrebbero comportare anche il coprifuoco e la legge marziale. Sul campo la situazione è disperata. Dai combattimenti del novembre scorso, le milizie sunnite irachene hanno rafforzato la cooperazione con quelle aventi un ruolo centrale tra gli oppositori del regime di Bashar Assad in Siria. De facto tra Aleppo, Mosul, Homs e le regioni sunnite irachene di Al Anbar e Niniveh è nata ormai una enclave transnazionale cementata dalla prossimità religiosa, tribale e territoriale. Lo scorso dicembre l'Isis era già riuscito a impadronirsi di Ramadi e Falluja, sino alla zona di Abu Ghraib, e persino a infiltrare alcuni quartieri occidentali di Bagdad. Ora i sunniti estremisti controllano almeno metà del Paese. La svolta di Mosul mette in allarme anche i curdi iracheni. Asserragliati nella loro regione a ridosso della Turchia e nei fatti già uno Stato indipendente (è di solo due settimane fa la scelta di esportare petrolio senza alcun rapporto con il governo centrale), i dirigenti curdi hanno ordinato alle loro forze militari (i Peshmerga) di intensificare le pattuglie sulla frontiera con Niniveh. Da sempre considerano i pozzi petroliferi di Mosul come una loro proprietà nazionale. E ciò potrebbe adesso spingerli a cooperare con Maliki.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza - Good job Obama in Iraq: lo Stato islamico si mangia pure Mosul

     
Viviana Mazza   Ian Bremmer


 L'avanzata dei qaedisti dell'Isis in Iraq è il risultato di un fallimento della politica estera americana?
«In parte, i successi dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante possono essere attribuiti alla politica americana». Risponde il politologo Ian Bremmer, presidente del think tank «Eurasia Group», lo studioso che nel 2011 coniò l'espressione «mondo del G-zero», in riferimento all'attuale mancanza di leadership globale. « Le istituzioni distrutte e inadeguatamente ricostruite — oppure non ricostruite affatto — come pure il vuoto successivo al ritiro militare americano hanno lasciato uno spazio in cui i miliziani hanno potuto estendere le proprie capacità operative».
Quali sono le responsabilità del premier iracheno Nouri Al Maliki?
«Con la sicurezza in deterioramento così drammatico, Al Maliki ha il dovere di tendere la mano aldilà delle divisioni settarie, per assicurarsi che sia possibile governare il Paese in modo unito e competente, ma ha mostrato davvero poca volontà di farlo. E questo non fa che complicare gli sforzi per garantire una sicurezza adeguata nel Paese».
Che effetti avrà sulla regione il potere crescente che l'Isis sta acquistando in Iraq e in Siria ?
«Innanzitutto, garantirà una situazione di guerra civile continua in Siria, anche dopo che Assad si è trincerato e ha consolidato il suo dominio. Ma questa situazione spinge anche l'Iraq verso nuovi livelli di conflitto interno: gli eventi di Mosul dimostrano le capacità sempre più estese dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante, al di là della irrequieta provincia di An-bar. Ed è chiaro che le forze di sicurezza e il governo centrale incontreranno crescenti difficoltà ad andare avanti. L'attacco a Mosul aiuta poi a sostenere i miliziani perché, liberando i detenuti del carcere della città, si sono procurati nuovi combattenti, e possono usufruire delle riserve di denaro delle banche e dell'equipaggiamento militare delle basi. Queste risorse li aiuteranno a continuare la loro battaglia. Nella regione più in generale, poi, vedremo sempre maggiori divisioni settarie e violenze, ma gli eventi recenti avranno comunque uno scarso impatto di breve termine sulla produzione petrolifera».
Quail possibilità di azione restano agii Stati Uniti e all'Europa?
«Purtroppo, l'America e l'Europa hanno ben poche opzioni, data la scarsa popolarità di un intervento e coinvolgimento militare. In seguito alla politica fallita di Obama relativa ad un possibile attacco in Siria — sulla quale ha finito col tomare indietro sulla base di considerazioni di politica interna — il presidente americano è particolarmente riluttante e incapace di impegnarsi». • 

Il FOGLIO - Daniele Raineri - Good job Obama in Iraq: lo Stato islamico si mangia pure Mosul

                
Daniele Raineri











 

 

 

 

 

 

 




Omar al Shishani, un comandante dello 'Stato islamico', mentre esamina un veicolo blindato fornito dagli americani all'esercito iracheno, e ora nelle mani del gruppo terroristico

La foto in questa pagina spiega che da Aleppo, in Siria, a Mosul, in Iraq, il territorio è diventato tutto un enorme campo di battaglia unificato sotto il controllo di un unico gruppo sunnita, lo Stato islamico. E’ uno spazio senza più alcuna autorità che si estende per almeno 500 chilometri attraverso il vecchio confine nazionale tracciato da Sykes e Picot che ormai esiste soltanto sulla carta – ma si tratta di una stima prudente, perché si potrebbe anche mettere nel conto Deir ez Zor in Siria e Fallujah in Iraq. L’uomo nella foto è un comandante dello Stato islamico di etnia cecena, Omar al Shishani, arrivato a combattere ad Aleppo nel 2011: sta esaminando un veicolo blindato Humvee, donato dagli americani all’esercito iracheno alla fine della loro presenza nel 2011, catturato ora dallo Stato islamico in Iraq e subito portato al di là del confine – se quest’espressione ha ancora senso – in Siria. In questo spazio senza nazionalità, fazioni diverse attaccano lo Stato islamico: i curdi, al Qaida, il governo iracheno, i ribelli siriani e il governo siriano, senza però riuscire per ora a ridimensionarlo.
Ieri dopo cinque giorni di combattimenti lo Stato islamico si è ancora allargato a est in Iraq, ingoiando quasi interamente la città di Mosul. Il centro è a nord della capitale Baghdad di circa 360 chilometri ed è il secondo più grande del paese, con un milione e mezzo di abitanti. Gli scontri sono cominciati sabato e ieri c’è stato un crollo improvviso. Il governo locale è collassato, il governatore ha parlato mentre era in fuga verso una località segreta. L’esercito e le forze di sicurezza si sono ritirati, spogliandosi delle divise per non essere riconosciuti, lasciando indietro i mezzi anche blindati (come quelli poi finiti in mano a Omar il ceceno). Le reti satellitari arabe di mattina hanno faticato a dare la notizia, forse perché incredule, forse per non fare propaganda a favore dei jihadisti.
Lo Stato islamico (al dawla al islamiya) ha conquistato grandi parti nell’ovest e nel sud di Mosul, compresi il palazzo del governo locale, l’aeroporto internazionale, le prigioni, alcune banche. Più di duemila detenuti sono stati liberati e molti hanno ingrossato il gruppo degli attaccanti (lo Stato islamico nel 2012 annunciò una campagna per far evadere i compagni di prigione che ha funzionato molto per far risorgere il gruppo). All’aeroporto anche alcuni elicotteri e jet da guerra sono diventati bottino di guerra, non si sa quanto utile perché si ignora se ci siano piloti qualificati tra i ranghi dello Stato islamico – per ora è in dubbio. Circa centocinquantamila persone, molte a piedi, hanno abbandonato la città, per non essere prese in mezzo nei combattimenti.
Il Dawla è l’erede diretto del gruppo comandato da Abu Musab al Zarqawi, il giordano ucciso in un raid americano nel giugno 2006 – ma non è affiliato ad al Qaida, anzi ne è diventato nemico mortale. Gli Humvee un tempo americani catturati alle forze irachene saranno in parte riutilizzati proprio contro al Qaida in Siria – che usa il nome di Jabhat al Nusra – soprattutto nella regione di Deir ez Zor. L’idea alla base è la stessa, in comune ai due gruppi: la fondazione di un Califfato che applichi la sharia rigidamente, riporti i credenti allo splendore originario dell’impero, ignori i confini tracciati dagli occidentali e faccia da base per l’espansione militare e politica dell’islam (il loro portavoce, Abu Mohammed al Shami al Adnani, si riferisce frequentemente a Roma come obbiettivo simbolico e definitivo della guerra). Sul campo, questi pilastri ideologici si sono trasformati in una guerriglia spietata contro gli sciiti che governano a Baghdad e contro i sunniti che rigettano l’estremismo, che considera i civili come bersagli legittimi.

La disfatta di Maliki

Ora c’è da vedere se Mosul resterà sotto il controllo dello Stato islamico. Un’altra città quattro volte più piccola, Fallujah, è stata presa a gennaio e da allora nulla è cambiato. I guerriglieri sunniti si sono trincerati dentro, la vita ha ripreso a scorrere nella normalità eccezion fatta per i bombardamenti del governo. Più a ovest, l’esercito ha quasi ripreso del tutto Ramadi, ma l’equilibrio sul campo è ancora incerto, potrebbe cambiare ogni giorno. E’ vero che lo Stato islamico ha addentato più terreno di quanto possa sperare di tenere sul lungo termine, ma riprendere Mosul completamente potrebbe essere difficile. Il primo ministro Nouri al Maliki ieri ha convocato il Parlamento per chiedere la dichiarazione dello stato d’emergenza (legge marziale) e ha invocato l’aiuto di tutti gli alleati, compresi gli Stati Uniti e l’Unione europea. Ha anche annunciato che tutti i cittadini che volontarimente intendono combattere contro il Dawla saranno armati dal governo. La caduta di Mosul è però un fallimento di Maliki, che in questi anni al potere non ha cercato il compromesso con i sunniti in minoranza, li ha trattati male, non ha rispettato gli impegno di assumerli nelle forze di sicurezza e ha soffocato con violenza inaudita le proteste. Se a questo si aggiunge che le forze di sicurezza sono in pessimo stato, poco motivate, inclini alla corruzione e alla diserzione e non a resistere di fronte ai raid dei guerriglieri, si capisce in parte perché l’apparato militare di Mosul si è dissolto in meno di una settimana. Ma quello di Maliki è un fallimento condiviso con l’Amministrazione Obama: l’inerzia su Siria e Iraq ha generato questo scenario. Gli iracheni chiedono droni americani in azione, come in Pakistan e in Yemen, e se continua così saranno accontentati presto.

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