Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 08/06/2014, a pag.45, con il titolo " Non umiliare: il comandamento di Hanka ", la recensione di Mariapia Veladiano al libro "Nei suoi occhi verdi", di Arnost Lustig, edizioni Keller.
Arnost Lustig la copertina
E' senza fine il racconto della shoah. Questa di Arnošt Lustig è la storia di Hanka, quindici anni, ebrea, che per caso e per determinazione riesce a lasciare Auschwitz insieme alle ragazze tedesche destinate al Feldbordell Nr. 232 Ost. Ragazze che sono tenute a sentirsi grate di poter diventare momentaneo conforto materiale, molto materiale, di soldati sempre più squassati e se possibile resi di ora in ora più cattivi dalla guerra sciagurata che stanno perdendo. Le ragazze hanno soprannomi che le restringono a un solo tratto del loro corpo, di più non serve: la Stangona, la Rossa, la Bella, la Grassa. Lei è la Bambola, metonimia crudelissima, bambola che Hanka potrebbe ancora tenere in braccio, a quindici anni, e invece è lei in braccio, sotto, sopra, schiacciata, contorta, rovesciata, violentata più o meno duecentocinquanta volte nei suoi ventun giorni di Feldbordell. Hanka ce la fa, lo sappiamo fin dalle prime pagine dalla voce narrante che non è la sua ma è, sorprendentemente, interna alla storia. Lei esce viva, nel corpo suo giovane che ha voluto resistere, tirandosi dietro l’anima sovraccarica dei suoi strazi, e proprio il corpo che recupera peso e salute fa da unico residuo altare alla fede nella vita. È peccato voler morire? Il padre di Hanka si è ucciso, e anche la Bella, proprio appena prima che la sconfitta tedesca spazzasse via il Feldbordell e i suoi abitanti, orridi o dolenti, senza distinzione alcuna, perché non c’è giustizia sotto il sole. No, è ovvio che può non essere peccato voler morire, bisogna poterlo dire quando si è rinchiusi dentro le baracche di un macello. Ma voler vivere invece? È peccato voler vivere ad ogni costo? Per dieci giorni, dopo la liberazione, Hanka bambina si concede un asciutto narrare al rabbino Gedeon Shapiro, che ha perso a sua volta moglie e figlia, ma si è salvato preservandosi dal male, e non sa più che Dio pregare la sera e non può più mangiare lui, mentre prepara cibi ricchi e delicati ad Hanka, mentre ciascuno di quei dieci giorni si inghiotte inesorabile uno dei dieci comandamenti. Hanka invece mangia, il suo corpo lo chiede. Quando parte, al rabbino lascia un undicesimo umanissimo comandamento: non umiliare. E per la prima volta al rabbino viene in mente «che quanto la gente come Hanka portava dai lager lo si sarebbe dovuto aggiungere alla Bibbia». Lustig (1926-2011) è un autore ceco sopravvissuto alla shoah e vissuto poi in esilio dalla Cecoslovacchia dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia. Premio Praga nel 2008, è tradotto per la prima volta in Italia con questo romanzo che è un lungo, vigile e ostinato raccontare che la schiera infernale dei malvagi è sempre fatta di singoli nitidi visi e nomi che il male lo hanno fatto di persona, uno ad uno. Tutti i soldati violentatori di Hanka hanno un nome. Par di sprofondare quando si capisce cosa sono quegli elenchi distribuiti nel romanzo. Lustig racconta in modo splendido. Manca il respiro nel seguire i dialoghi fra Hanka e due dei suoi carnefici, due ufficiali che la vogliono in modo del tutto particolare, per tutta la giornata, e vogliono arpionare ad ogni costo la sua comprensione per avere da lei restituita l’umanità che loro hanno persa, omicidio dopo omicidio. E invece lei restituisce parole misuratissime. Una litania cortese diventa il suo ripetuto «non saprei». Lo stesso che spesso chiude le conversazioni con il rabbino di Praga. Non si può sapere perché così grande è il male. Un mare di male a cui è vietato arrendersi perché è già capitato a troppi e allora il silenzio è il peccato, come l’ammiccare al male, raccontarlo come se la malvagità fosse un destino scritto. «La vita è un breve miracolo» pensa la più improbabile delle filosofe, la Bordellmutter, la tenutaria, del Feldbordell poco prima di morire. Il racconto della Shoah è senza fine perché il male lo si può raccontare solo per approssimazione, scrive Lustig. Serve il corpo. Non quello tronfio e rigonfio della razza con cui tutto sembra cominciare e finire in Germania. Serve il proprio unico corpo, che sente i colpi e il dolore. E quando la sorte e l’ostinazione permettono di salvarci, si scopre che ogni risurrezione ha bisogno del corpo per essere vera. È un libro talmente bello questo, che quando lo si è finito si è un po’ diversi per sempre.
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