Yahya Hassan, poeta danese di origine palestinese, minacciato di morte dal fondamentalismo islamico Intervista di Antonello Guerrera
Testata: La Repubblica Data: 06 giugno 2014 Pagina: 43 Autore: Antonello Guerrera Titolo: «'Io poeta maledetto contro l'islam estremista'»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 06/06/2014, a pag. 43, l'articolo di Antonello Guerrera dal titolo 'Io poeta maledetto contro l'islam estremista'.
Antonello Guerrera Yahya Hassan
C 'è del marcio in Danimarca. Lo diceva Shakespeare nell'Amleto e ora lo dice anche Yahya Hassan. Che della Danimarca non è principe, bensì figlio incompreso. Hassan ha pochi anni ( 18), è un poeta danese di origine palestinese e con la sua prima raccolta in versi ha ottenuto un successo clamoroso: oltre 100mila copie vendute in patria (record di sempre), diritti ceduti in tutta Europa. E oggi arriva anche in Italia grazie a Rizzoli ( pagg. 176, euro 16, trad. di Bruno Berni ). La poesia sarà pure morta, ma Hassan l'ha resuscitata per mutilarla e incidere versi rabbiosi che, dai campi profughi del Libano ai supermarket scandinavi Fakta, raccontano una vita spinosa. È la storia di una famiglia musulmana trapiantata in Danimarca, tra violenze familiari, "dittature educative", donne umiliate, droga, furti e riformatori. Versi spietati e irriverenti che, oltre agli elogi, hanno attirato la fatwa dei fondamentalisti islamici: decine di minacce di morte, poi l'aggressione in una stazione di Copenaghen. Ora Yahya vive sotto scorta. E così, sulla pelle della Danimarca, sono ricomparse vecchie ustioni, quelle delle "empie vignette" di Kurt Westergaard che nel 2005 quasi scatenarono una guerra mondiale. C'è chi dice che questo piccolo maggiorenne dal codino scuro è solo un blasfemo. Chi lo considera un incrocio tra Eminem e Whitman. Più semplicemente, Yahya Hassan è un orfano riottoso della globalizzazione, un cantore smarrito delle acide periferie di Copenaghen. Ed esecra l'ipocrisia. Dell'Islam, ma anche della società occidentale che non integra, non modella, non comunica. Per questo Hassan qualche tempo fa, sul quotidiano danese Politiken, ha lanciato un agghiacciante j'accuse alla «odiata generazione dei padri». Hassan, si aspettava a 18anni un successo simile? «Certo che no. Ma immaginavo che i miei versi sarebbero stati giudicati problematici. O comunque controversi». La sua famiglia come ha reagito? Suo padre, da lei dipinto come un violento, che dice? «A qualcuno è piaciuto, ad altri no. Con qualcuno di loro parlo, con altri no. Ho una famiglia molto numerosa». C'è un motivo particolare per la copertina nera del suo libro e i versi tutti in maiuscolo? «Ho scelto una copertina minimalista perché credo che le parole abbiano molto più senso delle immagini. Il maiuscolo è il mio modo di esprimermi. Ma non perché voglio passare per un ragazzino che strilla. Semplicemente, è per imprimere nettezza. E poi mi piace, a livello estetico». C'è un tatuaggio sulla sua mano: "Ord". Cosa significa? «"Parola", in danese. Perché le parole sono l a cosa più importante oggi». Dicono che il rap abbia influito molto sulla sua poesia. «A 12 anni ho cominciato a scrivere testi in questo genere musicale. C'erano delle lezioni nel quartiere dove vivevo. Sa, una di quelle aree socialmente molto complicate dove a un certo punto qualcuno decide che tutti i ragazzini devono essere "salvati" con il rap. O con il ballo. O con il calcio». E poi cos'è successo? «A poco a poco, il rap è diventato qualcosa che non mi apparteneva. Mi sentivo imprigionato. Sia a livello di contenuti, che di forma. Così sono passato a scrivere racconti, fino ad arrivare alla poesia, anche grazie a un'insegnante. E la poesia è diventato l'unico modo con il quale riesco a relazionarmi alla vita». Nella sua raccolta, si percepisce un evidente senso di smarrimento, religioso ma anche sociale. È così? «Io non mi sento un musulmano. Così come non mi sento danese. E nemmeno un semplice poeta. Secondo lei sembro un danese? L'origine conta. I miei genitori sono palestinesi. Mi sento palestinese. Uso il danese per scrivere, ma in famiglia parlo l'arabo. Più che altro, mi sento un essere umano». Nei suoi versi non pare esserci felicità, di alcun tipo. «Non mi piace parlare della mia adolescenza, né giudicare se sia stata felice o meno. La felicità è molte cose. Spesso irrilevanti, spesso confuse nel quotidiano». Lei è stato molto critico nei confronti dell'integrazione in Danimarca. «Io sono critico più o meno verso tutto. Certo, il multiculturalismo è una realtà. Ma questo non significa che non sia una realtà problematica». Il suo libro è un severo manifesto contro l'ipocrisia, soprattutto quella del-l'Islamche lei ha conosciuto bene. Ma anche quella occidentale, dai "ghetti" al razzismo. «Quello che critico dell'Islam può essere detto anche di altre religioni, sia ben chiaro. Ma spesso la mia ex religione, a differenza di altre, purtroppo non riesce a uniformarsi alla modernità. E per questo trovo ipocrita quando i musulmani integralisti cercano rifugio in un Paese di "infedeli". Trovo ipocrita campare sul welfare danese se non si condividono i principi di quel Paese. Trovo ipocrita, come racconto nel libro, andare in moschea il venerdì, non mangiare maiale e poi picchiare moglie e figli». Questo succedeva anche nella sua famiglia, purtroppo. Ma così si corre il rischio di generalizzare, non trova? «I musulmani danesi sono molto indottrinati. Che non significa essere terroristi, ci mancherebbe. Ma gli viene inculcata una visione del mondo molto tradizionalista, trasmessa di padre in figlio. E a volte risale a secoli fa. Colpa delle vessazioni subite per lunghissimo tempo, certo: campi profughi, povertà, violenze, nessuna istruzione. I problemi delle vecchie generazioni arrivano da lontano. Ma i giovani nati in Danimarca, come me, a volte neanche parlano arabo e non conoscono la storia del loro popolo. Cosi si crea una frattura insanabile». Cosa pensa dei suoi critici? «I musulmani danesi vivono in zone disagiate, dove purtroppo ci sono molti problemi. Se ne parlo, mi accusano di generalizzare sui musulmani. Ma sono loro che generalizzano su se stessi». E cosa pensa di chi la vuole morto? «Non m'importa. Le minacce di morte e la violenza purtroppo fanno parte della nostra società, non sono certo iniziate con il mio libro. Mi spiace solo che molti musulmani colti e capaci non si ribellino a tutto questo». Lei sa bene, però, che le sue accuse verso l'Islam più integralista vengono sfruttate dai politicip opulisti e xenofobi in Danimarca. «Disprezzo i politici populisti di destra. Così come disprezzo i musulmani di destra. I fascisti sono sempre fascisti. Però, allo stesso tempo, rivendico il diritto di esprimere la mia opinione attraverso la poesia». Com'è la sua vita da sorvegliato speciale? «Prima di diventare famoso avevo sempre due tizi dei servizi sociali alle calcagna. Ora, al loro posto, ci sono la polizia e i servizi segreti "Pet". Non c'è molta differenza». Dopo 18 anni così"movimentati", come si immagina il futuro? «Non me lo immagino. Io penso solo a vivere il presente».
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