Muhammad Idrees Ahmad Seymour HershMuhammad Idrees Ahmad (suo il saggio “The Road to Iraq: The Making of a Neoconservative War”).
Questo è articolo è stato pubblicato dalla Los Angeles Review of Books il primo giugno scorso. Questa pubblicata è una versione riadattata per Il Foglio.
Nel giorno in cui la London Review of Books ha pubblicato l’articolo in cui il veterano del giornalismo Seymour Hersh assolveva il regime siriano dall’attacco chimico dell’anno scorso, 118 siriani, tra cui 19 bambini, morivano a causa di un bombardamento aereo e del fuoco dell’artiglieria. Solo il regime possiede aerei e artiglieria pesante. Dallo scorso novembre, Aleppo è stata l’obiettivo di elicotteri che lasciavano cadere da alta quota barili pieni di esplosivo. Tra lo scorso novembre e la fine di marzo, Human Rights Watch ha registrato 2.321 civili uccisi da queste armi. Solo il regime possiede elicotteri. Per molti mesi dopo l’attacco chimico, il quartiere che ne era stato vittima e il campo rifugiati di Yarmouk sono stati tenuti sotto assedio e ridotti alla fame. Alle agenzie umanitarie era vietato entrare. Solo il regime controlla gli accessi
La spietatezza del regime non è mai stata in dubbio. I report di Human Rights Watch, di Amnesty International, della Commissione indipendente di inchiesta delle Nazioni Unite, i moltissimi giornalisti e i testimoni sul campo ne hanno dato conferma. Il regime ha mostrato la volontà e la capacità di portare a termine violenze di massa. La repressione sta andando avanti. Così quando lo scorso agosto si è verificato un attacco in cui erano usate armi che sono notoriamente in possesso del regime, con un sistema di lancio tipico dell’arsenale del regime, in un luogo che era tra gli obiettivi del regime e contro la gente che il regime odia, non era insensato pensare che la responsabilità fosse del regime. Questa conclusione è stata corroborata dai primi soccorritori, dagli ispettori dell’Onu, dalle organizzazioni per i diritti umani e da analisi indipendenti.
Quando un giornalista vincitore del premio Pulitzer e una rivista letteraria rispettabile decidono di mettere in dubbio il consenso su questa responsabilità, sarebbe ragionevole aspettarsi che lo facciano con accuratezza. La tragicità della materia richiede una grande quantità di prove. Le fonti devono essere verificate, le affermazioni controllate, bisogna dare risposta alle prove contrarie. Non è quello che la London Review ha fatto. Ha preferito la narrazione al racconto della verità. Ha trascurato le prove disponibili e, sulla base delle affermazioni non verificate di una singola fonte, ha assolto l’esecutore di una terribile atrocità, ha accusato i suoi oppositori e calunniato un capo di governo straniero. Peggio ancora, usando Hersh per attirare click, ha fornito un paravento a nuove violazioni. Cinque giorni dopo la pubblicazione dell’articolo di Hersh, un elicottero militare ha sganciato una “barrel bomb” su Kfar Zeita. Il barile conteneva cloro tossico al posto del solito esplosivo. Il regime, come Hersh, ha accusato il gruppo islamista Jabhat al Nusra. Ma solo il regime possiede mezzi aerei. Il massacro va avanti, e coprire la ben documentata responsabilità del regime per un crimine di guerra aiuta il regime nell’immediato, e per il futuro. Finché rimangono dubbi sulle atrocità avvenute, ci sarà sempre esitazione ad avanzare nuove accuse, e il riconoscimento delle responsabilità sarà rimandato.
Di solito la propaganda segue due schemi predefiniti: o crea sostegno in favore di una strategia desiderata o indebolisce quello in favore di una strategia avversa. Nel primo caso fa leva sulla persuasione, nel secondo sull’offuscamento. “Il dubbio è il nostro prodotto”, dicevano negli anni 50 le agenzie di pubbliche relazioni all’industria del tabacco preoccupata per l’accumularsi delle prove scientifiche che legavano il fumo di sigaretta al cancro. Le compagnie energetiche che tentano di impedire nuove leggi sull’ambiente usano la stessa strategia. E’ anche il metodo di Hersh. Spesso il dubbio è un’arma utile contro le credenze prive di fondamento. Lo scetticismo fa bene. Ma quando si trasforma in volontà di non credere a nulla, finisce per nutrire la paranoia.
La sala degli specchi Non sempre i giornalisti sono esperti delle aree di cui scrivono. Anche i reporter alle prime armi però sanno come verificare la plausibilità di una storia, la credibilità di una fonte e la validità di una prova: si verificano le affermazioni e si mettono a confronto con le conoscenze esistenti. Solo se la notizia regge a queste verifiche è giusto pubblicarla. Sembra che gli editor di Hersh non si siano preoccupati molto di tutto questo. Hersh sostiene che il regime di Assad non è colpevole per il massacro del 21 di agosto, e che invece l’attacco fu provocato dal gruppo ribelle Jabhat al Nusra, come parte di quella che la fonte di Hersh definisce “un piano segreto deciso dagli uomini del [premier turco Recep Tayyip] Erdogan per spingere Obama oltre la linea rossa”. Prima ancora di analizzare le prove di Hersh, i suoi editor avrebbero dovuto farsi una domanda ovvia: se gli oppositori di Assad sono in possesso di sarin e di missili balistici, perché non li hanno mai usati prima in battaglia? Se l’opposizione era determinata a provocare l’intervento occidentale con ogni mezzo, compreso il fratricidio, non sarebbe stato più probabile che a compierlo in segreto fosse l’Esercito libero di Siria, vicino all’occidente, piuttosto che il gruppo estremista Jabhat al Nusra, un gruppo che è lui stesso nel mirino dell’occidente? (Gli Stati Uniti lo hanno inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere). Se gli Stati Uniti erano decisi a intervenire, come Hersh sostiene che fossero, si sarebbero davvero concentrati su un pretesto pieno di dubbi come quello delle armi chimiche quando c’erano così tante ragioni umanitarie per farlo? E se il regime era innocente, perché ha negato agli investigatori dell’Onu l’accesso al sito dell’attacco per quattro giorni e ha sottoposto l’area a un incessante bombardamento di artiglieria? [1] Perché la Turchia, un paese che non ha un programma di armi chimiche, dovrebbe rischiare la sua membership nella Nato – e forse anche l’ingresso nell’Unione europea – per produrre sarin, e farlo specificamente per una maldestra operazione sotto falsa bandiera? Immaginiamo anche che le affermazioni di Hersh siano vere. In che modo però la Turchia avrebbe contrabbandato una tonnellata di sarin in una zona sotto assedio? Che meccanismo di lancio è stato impiegato per il carico tossico? In che modo i lanci, effettuati su zone separate geograficamente, erano coordinati in modo da sembrare provenienti da aree controllate dal regime?
Nessuno si aspetta che un giornale di letteratura possieda le capacità di verificare gli aspetti tecnici, ma qualsiasi testata deve attenersi a standard minimi. L’uso di fonti anonime, in sé, non è un problema. Ma è pratica comune tra i giornali seri trovare una seconda fonte nota che dia credito alle informazioni della fonte anonima. Le accuse schiaccianti di Hersh sono tutte attribuite a un’unica fonte. Non c’è verifica indipendente, anzi, innovando la procedura del cross checking, Hersh lascia che la sua fonte accrediti la propria storia. La fonte sostiene che un documento della Defense Intelligence Agency (Dia) conferma la sua versione. La Dia e l’Office of the Director of National Intelligence (Odni) negano che questo documento esista. Dovrebbe essere facile prevedere queste smentite e controbattere, ma Hersh non fornisce nessun’altra conferma. Non spiega nemmeno come mai alla sua fonte, un “consulente”, sia stato dato accesso a un documento che è “highly classified”. In assenza di verifiche, ci sono buone ragioni per dubitare dell’autenticità di questo documento.
Il secondo cameo di Hersh è un funzionario di intelligence russo. Ci si aspetterebbe che questa fonte dica qualcosa di nuovo. Ma il funzionario russo conferma la posizione di Mosca secondo cui l’alleato della Russia è innocente. Hersh e la London Review of Books ritengono che le sue ragioni siano persuasive – perché il “consulente d’intelligence” alla cui storia il russo dovrebbe dare conferma lo ritiene “affidabile”. La sala degli specchi di Hersh lascia intendere un mondo di mistero, intrighi e inganni. Ma l’unico inganno è quello dello stesso Hersh. Scrive, per esempio, che secondo la sua fonte “pochi giorni dopo l’attacco del 21 agosto (…) alcuni membri dell’intelligence militare russa hanno recuperato campioni dell’agente chimico” e che in seguito lo avrebbero consegnato a un laboratorio inglese di armi chimiche a Porton Down. Secondo la fonte di Hersh, gli inglesi avrebbero confermato che il sarin non veniva dall’arsenale del regime. Hersh non fornisce alcun elemento per confermare questa affermazione. In realtà, il laboratorio si è limitato a dire che il sarin è stato usato – e per i suoi rilevamenti si è servito di campioni di terra e di vestiti trafugati dai siti attaccati. (Hersh non dice perché secondo lui il laboratorio dovrebbe considerare validi campioni forniti dalla Russia, uno stato determinato ad assolvere il suo alleato con ogni mezzo possibile, anche se contraffatto). Alcuni campioni sono stati raccolti anche dall’Onu, ma Hersh non li cita mai. Qualsiasi scoperta possano aver fatto i ricercatori di Porton Down è superata dai campioni di prima mano raccolti e studiati dagli ispettori dell’Onu. Il mandato dell’Onu non prevedeva la ricerca dei colpevoli, ma il verdetto finale lascia poco spazio al dubbio. Chi ha fatto l’attacco chimico, si legge, “aveva accesso all’arsenale delle armi chimiche dell’esercito siriano, e aveva l’esperienza e l’equipaggiamento necessari per gestire in sicurezza una grande quantità di agenti chimici”. Queste scoperte sono state rafforzate dalle dichiarazioni dello stesso regime siriano alla Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opcw) come parte degli accordi per rinunciare al suo arsenale chimico. Il regime ha dichiarato di possedere 80 tonnellate di esammina, un componente specifico della formula del sarin usata dal regime, di cui sono state trovate tracce nei campioni raccolti dagli ispettori dell’Onu. Hersh descrive in seguito le indagini dell’Onu, ma solo affinché una fonte anonima “che conosce le attività dell’Onu” insinui che le Nazioni Unite avrebbero censurato le loro scoperte su un precedente attacco chimico a Khan al Assal. Evidentemente Hersh non ha letto il report. “Riguardo agli attacchi del 18 marzo a Khan al Assal”, si legge, “gli agenti chimici usati in quell’attacco hanno le stesse caratteristiche fondamentali di quelli usati ad al Ghouta”.
Per comprendere il metodo di Hersh, si legga questa frase rappresentativa sugli ispettori dell’Onu: “[Il loro] accesso ai luoghi dell’attacco, cinque giorni dopo l’uso dei gas, è stato controllato dalle forze dei ribelli”. Nel far credere che le Nazioni Unite avrebbero potuto essere influenzate dalla presenza dei ribelli, Hersh vuole che i suoi lettori tralascino un dettaglio chiave: la visita è avvenuta “cinque giorni dopo l’uso dei gas”, perché il regime si è rifiutato di concedere l’accesso ai siti e li ha sottoposti a un incessante fuoco d’artiglieria. Questo non è il lavoro di un giornalista, è la distorsione della propaganda.
Il metodo ideologico Émile Durkheim definiva il metodo usato da Hersh “metodo ideologico” – cioè far derivare il rapporto tra i fatti da nozioni predefinite piuttosto che far derivare le nozioni dai fatti. Hersh ignora o copre fatti verificati che contraddicono la sua teoria: il fatto che il sistema di lancio usato negli attacchi è tipico del regime, o che l’Onu ha stabilito che il sarin poteva provenire solo dai depositi del governo. Invece si affida a una serie di frottole inventate da una fazione interessata e rinuncia a ogni verifica. Per Hersh, il fatto che la Dia e l’Odni abbiano smentito la sua storia è ulteriore prova di un complotto. Non spiega però, perché anche le agenzie d’intelligence inglese, francese e tedesca sono arrivate alle stesse conclusioni. Non cita in nessun modo le indagini di Human Rights Watch o le analisi di Eliott Higgins o dell’esperto di armi chimiche inglese Dan Kaszeta.
Perché? Che cosa spinge una pubblicazione letteraria rispettabile a impantanarsi in improbabili teorie del complotto per screditare un singolo (benché notevole) crimine di guerra la cui portata è stata superata dalla frequenza degli altri? Al tempo degli attacchi chimici erano morti 60.000 siriani. Da allora ne sono stati uccisi altri 80.000. Forse la London Review ritiene che questo evento abbia avuto importanza non tanto per il numero di civili uccisi quanto per l’intervento militare che stava per scatenare. La minaccia di un intervento, però, è stata transitoria – ed è passata. Se ci fosse stato un intervento militare, non siamo certi che le sue conseguenze sarebbero state peggiori di quelle dell’inazione. La repressione dello stato siriano nel frattempo continua a essere forte. Cosa spiega questa gerarchia distorta delle priorità? Se per il mondo Barack Obama è un vacillante Amleto, per Hersh è un intransigente Coriolano. L’Obama di Hersh stava premendo sull’esercito per lanciare un “monster strike” che comprendeva “due bombardieri B-52”. Non ci viene detto perché le intenzioni di Obama – il presidente dei droni – fossero così lontane dal suo carattere. Le sue preferenze di solito vanno ai missili Tomahawk o agli Hellfire, non ai Black Hawks e ai B-52.
Hersh potrà anche essere ingenuo, ma alcune sue frasi lasciano pensare che ci sia in gioco qualcosa di poco benevolo. Non solo assolve il regime e ne addossa i crimini ai suoi oppositori, ma ne fa il pretesto per il mantenimento dell’arsenale di Assad. “Il regime siriano continua il processo di eliminazione dell’arsenale chimico” ma, mette in guardia Hersh, “dopo che le riserve di agenti precursori di Assad saranno distrutte, al Nusra e i suoi alleati islamisti rimarranno l’unica fazione dentro la Siria ad avere accesso agli ingredienti che possono produrre il sarin, un’arma strategica come nessun’altra nella zona di guerra”. Gli editor della London Review non hanno contestato questa frase! Per la London Review of Books, sembra, i siriani sono i burattini di una battaglia ideologica. E’ più facile concepire una teoria del complotto, benché esagerata, che accettare che Obama e la comunità d’intelligence possano aver ragione sui tormenti del popolo siriano. La rivista ha già pubblicato quattro articoli che gettano la colpa dei crimini di Assad sulle sue vittime, ma non ha lasciato che un solo siriano scrivesse a proposito del conflitto. Avrebbe potuto, per esempio, pensare di parlare con i primi soccorritori; avrebbe potuto lasciare che i sopravvissuti raccontassero le loro storie. Accettare che Assad possa essere responsabile dei suoi crimini significa mettere in dubbio, o quanto meno precisare, l’assioma per cui gli Stati Uniti sono la fonte esclusiva di ogni male. Ormai anche i più rigidi tra coloro che pubblicano Hersh devono aver capito che sono stati presi in giro. L’inclinazione ideologica e la ricerca di click hanno reso l’inganno più semplice. Sono stati beffati – si sono fidati di quella che in realtà è propaganda filofascista. Se avessero ancora a cuore la loro credibilità, dovrebbero rivelare il nome della loro fonte – o essere associati per sempre a una truffa mostruosa.
[1] Il cospirazionismo ha le sue domande e la sua logica distruttiva. A poche settimane dagli attacchi, un autore della London Review aveva già applicato il test del cui bono per difendere l’innocenza del regime. “E’ chiaro”, aveva scritto, che a beneficiare dell’attacco non era “il regime siriano”. E’ chiaro, secondo questa logica, che l’America non ha mai invaso l’Iraq.
Il FOGLIO - Daniele Raineri - Barbara Spinelli e 'l'accuratissima inchiesta'
Daniele RaineriSono passati due mesi da quando Barbara Spinelli ha chiesto in un editoriale su Repubblica lo scioglimento della Nato perché uno stato membro, la Turchia, è colpevole di avere fatto gassare millequattrocento civili siriani a Damasco – non direttamente, ma fornendo il gas nervino al gruppo Jabhat al Nusra. Spinelli citava, come fondamento di questa sua accusa, “l’inchiesta, pubblicata ieri nel nostro giornale e come sempre accuratissima, condotta da Seymour Hersh”. Da allora non è successo nulla. Per i lettori di Repubblica da due mesi la Turchia – che due giorni fa ha sbattuto Jabhat al Nusra nella lista dei gruppi terroristi, informazione che Hersh-Spinelli non daranno – continua a essere responsabile dei bombardamenti con il gas nervino sui civili siriani nelle aree di Damasco fuori dal controllo del regime. Una notizia che è stata snobbata dalla stampa internazionale e di cui non si trova ancora traccia – per fare qualche esempio – sul New York Times, il Monde, il Washington Post, il Times of London, El País e altre testate, che da mesi si ostinano a prendere questo buco da Repubblica e a ignorare “l’accuratissima inchiesta, come sempre”. Chissà perché.
Nel frattempo lo “scoop” di Hersh è stato smontato in tanti articoli di risposta – come
quello di Idrees Hamad che trovate in questa pagina. Nel cosmo immutabile degli opinionisti italiani, nulla però è cambiato. Spinelli conserva il suo standing di autorevole commentatrice sui fatti del mondo, autorevolezza che potrebbe resistere più a lungo della Nato.
Oltre a smontare la povertà del “metodo Hersh”, però, il pezzo che qui traduciamo solleva una questione nuova e più importante: nel propalare notizie che non reggono alle verifiche standard e minime di credibilità, e quindi nel coprire con una cortina fumogena di parole le responsabilità del governo di Assad, si sono create le condizioni per la continuazione della guerra chimica in Siria. Ieri il Monde ha pubblicato un lungo articolo sulle bombe al cloro usate contro i civili siriani e sulle prove raccolte “che imbarazzano l’occidente”. Perché non ricominciare da questa notizia?
L'UNITA' - Armi al cloro in Siria, l'Occidente non vuole vedere Una inchiesta che smaschera l'ipocrisia della comunità internazionale e il silenzio imbarazzato dell'Occidente. Un documentato j'accuse nei confronti di un dittatore che oggi festeggia su un Paese in macerie la sua rielezione a presidente. Le Monde versus Bashar al-Assad. L'atto d'accusa è pesantissimo: nemmeno un anno dopo l'attacco chimico con il gas sarin lanciato dall'esercito di Assad alla periferia di Damasco il 21 agosto 2013 (almeno 1500 le vittime) il quotidiano francese ha raccolto prove documentali sull'uso da parte delle forze lealiste di armi chimiche contro la popolazione, dall'ottobre 2013 ad oggi. Tutto questo dopo che il regime di Damasco aveva dovuto sottoscrivere, sotto minaccia di un'azione armata internazionale, la Convenzione sull'interdizione dell'uso delle armi chimiche. Era il 14 settembre 2013. Neanche un mese dopo l'esercito di Assad tornava a colpire con armi chimiche, non più con gas sarin ma con gas di cloro.
ROTTO IL SILENZIO. Stando all'inchiesta di Le Monde, che si avvale di più fonti, le autorità francesi sarebbero in possesso da almeno quindici giorni di elementi che provano l'utilizzo del cloro, da parte dell'esercito di Assad in ripetuti bombardamenti di aree controllate dai ribelli. Queste conclusioni sono frutto delle analisi del Centre d'étude du Bouchet, che dipende dalla Direction générale de l'armement. II silenzio calato su queste clamorose rivelazioni è frutto, stando agli autori dell'inchiesta, delle pressioni esercitate dai servizi di sicurezza francesi, statunitensi e britannici sui rispettivi governi perché le informazioni in loro possesso non fossero rese pubbliche. Stando ad un alto funzionario dell'intelligence francese, Parigi sarebbe tenuta a non pubblicizzare queste informazioni senza aver prima ricevuto «luce verde» da Washington, in quanto una parte degli elementi di prova sarebbéro stati acquisiti dagli americani.
ALTRE DENUNCE Non solo Le Monde. Human Rights Watch riferisce di avere «forti prove» che a metà aprile l'esercito della Siria abbia usato armi chimiche in tre città del nord del Paese in mano ai ribelli. Precisamente, secondo quanto risulta a Hrw, le forze leali a Bashar al-Assad hanno utilizzato gas di cloro. La sostanza, racchiusa in bombole, sarebbe stata inserita in barili carichi di esplosivo, che sono stati sganciati dagli elicotteri dell'esercito sulle zone in mano ai ribelli. L'organizzazione spiega che le sue affermazioni si basano su interviste ai testimoni, immagini video e fotografie. Human Rights Watch ha intervistato 10 testimoni. «Le prove suggeriscono con forza che elicotteri del governo siriano hanno sganciato barili bomba con bombole di gas cloro su tre città», afferma l'Ong americana. «Questi attacchi hanno usato una sostanza chimica industriale come arma, azione proibita dal trattato internazionale che vieta le armi chimiche, al quale la Siria ha aderito nel settembre del 2013», prosegue Hrw. Alla fine di aprile l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) ha annunciato che avrebbe indagato sulle notizie del presunto uso di gas cloro. L'Opac successivamente non ha più rilasciato dichiarazioni sull'argomento. In un caso il governo siriano ha accusato il Fronte al Nusra, gruppo legato ad al-Qaeda, di aver usato gas cloro nella città in mano ai ribelli di Kafrzeita. Damasco non ha commentato gli altri attacchi. Un'ampia inchiesta di Associated Press alla fine di aprile ha riscontrato denunce compatibili con queste informazioni, secondo le quali sarebbe stato usato del gas cloro a Kafrzeita. L'uso del gas cloro nelle bombe non è molto efficace come arma per uccidere. Tuttavia Hrw ha aggiunto che sembra che l'esercito siriano abbia usato il gas cloro per terrorizzare i residenti facendo credere loro che sarebbero stati uccisi con il gas, anche se molte delle persone colpite non sono morte. Ora è la volta di Le Monde. Altre prove, altri casi denunciati. La Casa Bianca e le cancellerie europee hanno fatto a gara nel giudicare le elezioni presidenziali una «farsa». II comunicato finale del G7 di Bruxelles evoca una Siria senza Assad. Parole che lasciano il tempo che trovano. Perché mai seguite da atti conseguenti. Oggi l'autorevole quotidiano francese pubblicherà con grande risalto l'inchiesta sui nuovi crimini del regime di Damasco. Staremo a vedere se vi saranno reazioni ufficiali. O se assisteremo all'ennesima vergogna del silenzio. Un silenzio complice.
LA STAMPA - Francesca Paci - In fuga da Assad e Al Qaeda. Il mondo ci ha dimenticati
Francesca PaciII mezzo è sempre Skype. Chi Io usa, però, i ragazzi siriani che tre anni fa lanciarono il guanto di sfida ai signori di Damasco sull'esempio dei coetanei egiziani e tunisini, è cambiato: resta in campo, raccoglie documenti che spera un giorno di mostrare al mondo, ma l'umore è cupo. Mentre le zone sotto il controllo lealista hanno rieletto quell'Assad che secondo un'inchiesta di «Le Monde» continua a bersagliare ribelli e civili con gas cloro, gli attivisti della prima ora si leccano le ferite incapaci di ritagliarsi uno spazio tra il regime e al Qaeda, i due mattatori della scena siriana prossimi a legittimarsi a vicenda. «Siamo nelle retrovie» ammette Omar, pioniere della rivolta disarmata Si scalda: «Per 3 anni, 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana i ragazzi come me hanno mostrato al mondo i crimini di Assad prima che arrivasse al Qaeda. Invano. Nonostante il regime e i terroristi siamo vivi, ma impotenti. ti. Fino all'inizio del 2012 gli unici qaedisti in Siria erano quelli liberati dalle galere del regime. I media internazionali trattano le vittime siriane come numeri ma si sono tuffati sulla storia dell'Isis, lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante. Scusate la rabbia, ma ci sentiamo abbandonati». Omar è uno tra i molti che rispondono ancora al telefono. La sua storia e i suoi sentimenti sono quelli di tutti gli altri. Ha 25 anni e ha passato gli ultimi tre nella trincea politica (non armata) della rivolta contro Assad: «Ero ricercatore all'università di Homs, avevo la laurea in letteratura inglese, dovevo perfezionarmi in Gran Bretagna. Poi è scoppiata la rivoluzione, mi sono dato anima e corpo al media attivismo che in Siria si è rivelato inutile. Il mio nome adesso è nella lista nera, sono stato cacciato dall'ateneo. Un anno fa mio padre e mio fratello sono stati uccisi e io, mia madre e le mie sorelle siamo scappati in Turchia. Allora era facile, adesso Ankara ha messo molte restrizioni, ci sono migliaia di disperati che non riescono a passare il confine. Collaboro con una organizzazione umanitaria qui a Gaziantep che si occupa dei rifugiati. Tengo un profilo basso, ho la carta d'identità ma niente passaporto. Volevo chiederlo quando ero studente ma non avevo soldi per viaggiare e aspettavo. Ora è difficile ottenerlo. Ci sto provando sotto banco, perché il regime è corrotto fino al midollo e perfino ora uno come me può aggirare i veti pagando tanti soldi. Ma intanto sono irregolare, se il governo turco voltasse le spalle ai siriani sarei nei guai». La rivoluzione siriana non è morta, lo ripete. Ma dopo i primi mesi è precipitata e ora sopravvive nella resilienza di chi non può mollare: «Non c'è spazio per quelli come me in una Siria in mano ad Assad. Anche se dopo queste elezioni-farsa annunciasse la riconciliazione nazionale non tornerei. Il regime aspetterebbe e poi ci ammazzerebbe tutti, non distingue tra me e i macellai dell'Isis, va più d'accordo con al Qaeda che con noi». La guerra di Omar non coincide con la narrazione ufficiale che vede Assad in recupero sul terreno ma anche nella considerazione internazionale, baluardo estremo contro i nuovi Bin Laden: «I moderati pacifici sono scappati dalla Siria ma i moderati armati sono ancora lì. Sono deboli, la comunità internazionale ha scelto di non fare nulla per sostenerli e loro hanno perso terreno rispetto ai terroristi che prima o poi l'Occidente si ritroverà in casa, ma resistono». Omar racconta per sentirsi vivo: «Molti attivisti hanno ripiegato sull'aiuto ai rifugiati. Prima avevamo di fronte solo Assad adesso ci sono anche i terroristi, invasati provenienti da mezzo mondo che hanno memorizzato gli hadit in cui si parla della Siria come della terra del Levante da liberare un giorno dagli infedeli e si sono convinti che quel giorno sia ora I terroristi hanno ideologia e soldi. Siamo sempre stati un popolo non estremista, la ferocia contro i cristiani e gli alawiti non ci appartiene. Non ho perduto la mia vita per questo inferno, ma nessuno ricorda più perché ci siamo ribellati al regime».
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