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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.06.2014 Ghetti e giudecche d'Italia: una guida di Anna Foa
Recensione di Gian Antonio Stella

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 giugno 2014
Pagina: 33
Autore: Gian Antonio Stella
Titolo: «Quella Madonna del Mantegna pagata dal banchiere ebreo»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 04/06/2014, a pag. 32, l'articolo di Gian Antonio Stella dal titolo "Quella Madonna del Mantegna pagata dal banchiere ebreo".

              
Gian Antonio Stella   Anna Foa

Andare per ghetti e giudecche  
                                       A. Mantegna, Madonna della Vittoria (1496)
 
Sul mezzo dì, pe' la città se sparze/ sta nova appena, e la sentì la plebbe/ ch'arrabbiata de collera tutt'arze,/ e li Giudii, già lapidà vorrebbe./ Cominzano i regazzi a radunarze,/ marciano verzo il Ghetto...». Così Giuseppe Berneri, nell'opera in versi Meo Patacca, racconta come i romani più esagitati e pronti (a parole, almeno) a partire in soccorso di Vienna, saputo che i turchi avevano tolto l'assedio alla città, avevano deciso di dirottare il loro furore, gonfiato dal vino, contro gli ebrei. Che cosa c'entravano? Girava voce che stessero dalla parte degli ottomani. E tanto bastava... Quella dei ghetti ebraici, del resto, è una storia segnata da prepotenze, insulti, assalti, stragi... Come quella del 1547 ad Asolo, nella Marca trevisana. 0 del 1475 a Modica, in Sicilia, dove gli ebrei assassinati in una spaventosa caccia all'uomo furono addirittura 360. Fino alla retata del 16 ottobre 1943 a Roma, che vide i nazisti caricare sui camion anche centinaia di bambini, descritti in Roma clandestina da Fulvia Ripa di Meana: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nel loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l'ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva». Eppure non sono stati solo questo, i luoghi in cui sono stati costretti a vivere per secoli gli ebrei italiani. Non solo dolore, non solo «condotte» di soldi a prestito, non solo piccoli traffici commerciali per sopravvivere. Lo dimostra Anna Foa in Andare per ghetti e giudecche, che esce domani per il Mulino. Una piccola e preziosa guida che aiuta i viaggiatori curiosi ad orientarsi, ricostruendo i percorsi storici, i traslochi geografici e gli aneddoti che hanno intessuto la rete dei quartieri ebraici italiani da Venezia a Ferrara, da Ancona a Trani, da Milano a Livorno. Non è un'uscita editoriale una tantum. Quella di Anna Foa è la prima di una serie di guide che il Mulino ha destinato al viaggiatore colto. Quello che magari dà un'occhiata anche alle trattorie, aile caffetterie, alle gelaterie dl spicco perché pure il palato vuole la sua parte. Ma è interessato soprattutto a quanto può titillare le sue papille gustative culturali. Ed ecco che assieme a quella sui ghetti esce La Roma dei Templari di Barbara Frale, che racconta ad esempio come «il cavaliere templare che, proveniente da Gerusalemme, entrava nell'Urbe dalla via Tiburtina, si trovava dinanzi un'antica porta di pietra che aveva scolpite due teste di toro; quella esterna, rivolta verso la campagna, era un lugubre teschio mentre l'altra, prospiciente la città, raffigurava un animale vivo. Le due teste simboleggiavano i viandanti che giungevano alla Città Eterna: affamati e deperiti nell'entrarvi, rifocillati e vigorosi nel lasciarla». Seguiranno altre guide, tutte «firmate». Una guida alla Roma fascista di Ernesto Galli della Loggia, una ai grandi campi di battaglia di Alessandro Barbero, e poi all'Italia etrusca di Valerio Massimo Manfredi e alle stazioni ferroviarie dl Enrico Menduni e alle cattedrali di Puglia di Sergio Valzania e all'Italia dei misteri e delle superstizioni di Marino Niola... Per non dire di «chicche» come la guida alle «Gerusalemme d'Italia», nella quale Franco Cardini accompagnerà i curiosi in un viaggio attraverso le riproduzioni del Santo Sepolcro, i Sacri Monti, le cappelle o i santuari che nel Medioevo riprendevano a Bologna, Aquileia, Acquapendente o Firenze le forme della chiesa o dell'edicola visitate in Terrasanta... È o non è, il nostro Paese, il primo al mondo per abbondanza di siti Unesco e il primo per il «marchio» culturale secondo il Country Brand Index edito da FutureBrand? Le nuove guide tappano un buco lì. Nel settore delle curiosità rimaste a chi, dopo aver già visitato i principali musei e le più prestigiose residenze e i più ricchi siti archeologici, ha ancora il desiderio di scoprire qualcosa di nuovo. Di diverso. Un esempio? La storia, nella guida ai ghetti e alle giudecche, di un quadro celeberrimo, la «Madonna della Vittoria» di Mantegna, oggi conservato al Louvre. Racconta Anna Foa: «Nel 1493, il banchiere ebreo mantovano Daniel Norsa fece cancellare dalla facciata della casa che aveva appena comprato un'immagine della Vergine. Non lo fece di nascosto, ma apertamente, ottenendo prima il permesso del vescovo e pagando una pesante tassa. Ma questo non bastò a proteggerlo, perché tre anni dopo, per celebrare la vittoria su Carlo V nella battaglia di Fornovo, il marchese Francesco Gonzaga, obbedendo a un voto, fece confiscare e demolire la casa dell'ebreo, facendo innalzare al suo posto la chiesa della Madonna della Vittoria». Peggio: il povero Norsa «fu inoltre obbligato a erigere a sue spese una cappella dentro la chiesa e a pagare il costo della pala della Madonna della Vittoria, commissionata dai Gonzaga ad Andrea Mantegna»... Mazziato e cornuto, il banchiere è raffigurato in un dipinto anonimo del XV secolo nella basilica di Sant'Andrea a Mantova: lui e il figlio portano cuciti sulla veste dei cerchi di stoffa gialla, la moglie indossa il velo giallo: i segni distintivi imposti agli ebrei. Insomma, prosegue la guida, il dipinto «più che la vittoria di Fornovo sembra voler celebrare la sconfitta del banchiere ebreo, uno dei più ricchi e importanti della città, come ribadisce il cartiglio posto sul quadro in alto che recita: "Debellata Hebreorum temeritate"». «Questi della fine del Quattrocento erano anni duri per gli ebrei italiani, e non solo a Mantova», spiega Anna Foa. «Nella città dei Gonzaga aveva predicato nel 1484 il francescano Bernardino da Feltre, aizzando gli animi dei cittadini contro gli ebrei, un ostilità che resterà viva in città e che non mancherà di condizionare la politica dei Gonzaga verso gli ebrei. Erano, gli ebrei di Mantova, una comunità molto antica, che risaliva al XII secolo, importante tanto per la sua grandezza quanto per la sua rilevanza culturale». Quanti furono i quartieri ebraici, compreso il primo vero e proprio ghetto, quello di Venezia istituito nel 1516, che prese il nome appunto dal «geto» o «gheto», vale a dire dal sistema di fonderie che c'era prima in quel rione di Cannaregio? Centinaia. Solo in Calabria, «in età normanna e angioina si possono individuare quattordici giudecche, mentre nell'età aragonese le giudecche documentate sono centodue», sia pure alcune «molto piccole». In Sicilia, prima della cacciata decisa dai sovrani spagnoli nel 1492 insieme con quella degli ebrei del loro regno, gli israeliti erano ancora di più: «Circa trentamila, sparsi in circa sessantacinque giudecche tanto all'interno quanto lungo le coste». Con alcune roccaforti come Trapani o Sciacca, dove gli ebrei «erano un terzo degli abitanti». Era nata per essere una sinagoga perfino la Mole Antonelliana, che oggi svetta sulla città ed è il simbolo stesso di Torino. Doveva essere, dopo i diritti concessi agli ebrei da Carlo Alberto di Savoia nel 1848, l'emblema grandioso «dell'avvenuta emancipazione», che «doveva ergersi alto nel cielo dopo i secoli dell'oppressione e della chiusura, quando le sinagoghe non potevano superare in altezza le case circostanti e non dovevano avere nulla sulla facciata che ne indicasse la destinazione». Ma i soldi non bastarono. E la comunità fu costretta a cedere l'edificio in costruzione al Comune...

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