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La Repubblica Rassegna Stampa
02.06.2014 Turchia: nuove proteste contro Erdogan, blindati contro i manifestanti
Cronaca di Marco Ansaldo, commento di Elif Shafak

Testata: La Repubblica
Data: 02 giugno 2014
Pagina: 1
Autore: Marco Ansaldo - Elif Shafak
Titolo: «Piazza e web, così riesplode la protesta di Gezi Park - Traditi da uno Stato che si sente onnipotente»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 02/06/2014, a pagg. 1-19, l'articolo di Marco Ansaldo dal titolo "Piazza e web, così riesplode la protesta di Gezi Park" e da pag. 19 l'articolo  di Elif Shafak dal titolo "Traditi da uno Stato che si sente onnipotente".  La scrittrice Elif Shafak nel suo articolo ricorda l'episodio dell'aggressione di un contestatore da parte del premier turco.  Ricordiamo anche che in tale circostanza Erdogan ha  rivolto al contestatore un insulto antisemita
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=4&sez=120&id=53435 .


Manifestanti in fuga a Istanbul

Ecco l'articolo di Ansaldo:


Marco Ansaldo
Due Toma, i famigerati blindati della polizia turca, spuntano a lato di Piazza Taksim, a soli 30 passi dal monumento ad Ataturk. Minacciosi e felpati, si sistemano dietro le transenne, con visuale perfetta sulla spianata centrale di Istanbul. Bianchi e silenziosi, sembrano due giaguari acquattati, pronti a scattare se necessario a un minimo cenno. Ma oggi la piazza è tranquilla, e i disordini dell’altra sera hanno lasciato vaghi segni per terra. Una ruspa resta ai piedi di una scalinata. Un’ambulanza ha i portelloni aperti all’uscita del metro.
Centinaia di poliziotti con i manganelli o addirittura i fucili in mano presidiano una rivolta del tutto pacifica, fatta con i fiori e — massima trasgressione — leggendo dei libri seduti per terra.
Il Gezi Park si apre davanti, con i suoi 600 alberi difesi un anno fa da un taglio sconsiderato per far posto a un centro commerciale, motivo di una repressione sanguinosa costata 8 morti e centinaia di feriti. Il prato è calpestato da agenti in divisa e in borghese. Pochi giovani lo percorrono, addossandosi ai tronchi. Basta infatti accompagnarsi a una borsa poco più che voluminosa, e subito scattano i controlli. Nulla sfugge qui agli occhi dei poliziotti, che paiono vivisezionare ai raggi X ogni passante.
Dietro i Toma e le transenne blu, nella viuzza del garage dove dormono i tramvai rossi che solcano Istiklal Caddesi, via dell’Indipendenza, fino alla torre di Galata, altri blindati ben sorvegliati dagli agenti sono pronti a entrare in azione. Ma la strada teatro poche ore fa di scontri e incidenti appare adesso la solita arteria inzeppata di turisti, e dai ristoranti e i negozi alla moda a esplodere è tutt’al più la musica assordante del pop turco.
Non così però è ad Ankara, dove la polizia ha lanciato lacrimogeni e usato idranti contro centinaia di manifestanti. Cinquecento persone sono state disperse a Piazza Kizilay, il centro della capitale, nel luogo in cui l’anno scorso fu ucciso un giovane di 26 anni dalle pallottole sparate dagli agenti. Solo sabato, a Istanbul, dice Human Rights Association, sono state arrestate 83 persone. I feriti risultano almeno 14, di cui sei sotto i 15 anni. Tra loro un ragazzo che ha perso un occhio per un lacrimogeno.
Due dati colpiscono rispetto al passato. Il primo, la legge voluta dal premier Tayyip Erdogan a febbraio, mirata a punire con il carcere chi soccorre i feriti al di fuori del Pronto soccorso ufficiale. Come ha raccontato l’altra sera lo stesso fotoreporter italiano Piero Castellano, rimasto contuso dal lancio di un lacrimogeno, «questo è un provvedimento fatto proprio per scoraggiare le manifestazioni. Se un dimostrante viene ferito, per la legge dovrebbe rimanere a terra fino a quando non viene trasportato dalle ambulanze al Pronto soccorso». La nuova misura ha portato così, l’altro giorno, all’arresto di 4 medici, costretti a comparire oggi davanti al giudice con l’accusa di aver soccorso i manifestanti a terra. «Speriamo non ci sia anche quello che mi ha medicato», commenta con amarezza Castellano, aiutato da un pronto soccorso clandestino.
L’altra novità è stata invece registrata durante il fermo, solo temporaneo, del giornalista della Cnn, Ivan Watson. Un ufficiale di polizia lo ha interrotto bruscamente mentre era in diretta da Piazza Taksim, tirandolo per la giacca e chiedendogli di mostrare tessera professionale e passaporto: «Sei un giornalista? — gli intimava — facci vedere il passaporto, il passaporto!». Mai è successo in Turchia, almeno negli ultimi decenni, che i reporter siano costretti a mostrare i documenti per realizzare il loro lavoro. Un’ennesima stretta delle autorità.
YouTube, del resto, è tuttora inaccessibile qui, nonostante la decisione della Corte Costituzionale di togliere il blocco per favorire la libertà di espressione. Ma il governo conservatore islamico, forte del risultato elettorale conseguito alle amministrative del 28 marzo (oltre il 46 per cento delle preferenze), impone il suo credo nonostante l’altra metà del Paese critichi con forza i modi spicci del premier. Lo stesso avviene per Twitter, mentre pure Facebook e Google sono entrati nel mirino.
Di fronte a media sempre più omogenei nel seguire il leader, infatti, sono proprio i social network i più attivi nel comportarsi da “cane da guardia” della democrazia, denunciando i fenomeni di corruzione. Erdogan scarica nei loro confronti tutta la sua rabbia, minacciando loro e la stampa straniera.
Eppure, scrive sulla prima pagina del Hurriyet Daily News l’editorialista Guven Sak, «lo spirito di Gezi Park e la guerra di Twitter continuano». I giovani che si annidano dietro gli alberi del parco di Piazza Taksim, impediti a manifestare per strada, si ritrovano sempre più numerosi e attivi sul web e sulle piattaforme sociali mobili. Che cosa potranno fare i Toma dal muso feroce, sistemati ai bordi del monumento al laico Ataturk, contro la forza inevitabile della piazza virtuale?

Ecco l'articolo di Elif Shafak.


Elif Shafak

Dagli eventi di Gezi Park è trascorso un anno intero. In questo tempo la Terra ha percorso intorno al Sole 942 milioni di chilometri, ma in Turchia noi non ci siamo mossi neppure di un centimetro. Non c’è stato alcun progresso significativo nella democrazia e nella libertà di espressione. Al contrario, temo che abbiamo fatto passi indietro.
Il governo usa di continuo l’eccessiva contrapposizione “noi contro loro”, polarizzando ancor più una società già divisa.
Christos Tsiolkas ha ambientato il suo romanzo “ Lo schiaffo ” a un barbecue alla periferia di Melbourne. Una versione di quella sua storia di violenza patriarcale, però, si è verificata nel villaggio turco di Soma, teatro della tragedia che qualche settimana fa ha portato alla morte di oltre 300 minatori. Il paese è sottosopra per le voci secondo le quali il primo ministro Erdogan avrebbe inseguito un contestatore all’intero di un supermercato e gli avrebbe allungato uno schiaffo. Vero o meno che sia l’episodio, il fatto che neanche i più determinati sostenitori di Erdogan non lo trovino inverosimile la dice lunga. In un filmato registrato quello stesso giorno, si sente Erdogan lanciare questo avvertimento: «Se fischi il primo ministro di questo paese, ti becchi uno schiaffo». Se questo episodio si fosse verificato altrove, il governo di qualsiasi paese sarebbe scosso dalle fondamenta. Ma non la Turchia. Nei giorni scorsi per le strade di Istanbul, Ankara e Smirne, la polizia antisommossa ha lanciato gas lacrimogeni contro i giovani che protestavano per le circostanze che hanno portato i minatori alla morte e per le reazioni del governo. Il cordoglio in Turchia si deve vivere passivamente, in silenzio: se osi scendere in strada, lo stato ti prende a schiaffi.
“Lo schiaffo” fa parte della nostra cultura, e compare alla minima provocazione. In Turchia lo stato è onnipotente. I cittadini no. Noi, come nazione, siamo abituati a essere presi a schiaffi da chi ha una certa autorità. In famiglia, a scuola, nell’esercito, in strada, al supermercato…gli schiaffi sono ovunque.

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