Perché l'America non può rinunciare a guidare il mondo - Prima parte L'analisi Robert Kagan, indispensabile per capire la politica Usa
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Massimo Gaggi - Robert Kagan Titolo: «Da West Point la dottrina Obama: «Basta con le avventure militari» - Il paese che salvò il mondo e adesso lo sta lasciando solo»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA del 29/05/2014, a pagina 16, l'articolo di Massimo Gaggi dal titolo "Da West Point la dottrina Obama: «Basta con le avventure militari»", che pubblichiamo quale introduzione all'analisi di Robert Kagan, dal FOGLIO del 29/05/2014, a pagg. 1-3 dell'inserto, tradotta dall'ultimo numero di NEW REPUBLIC, dal titolo "Il paese che salvò il mondo e adesso lo sta lasciando solo". La seconda parte del saggio di Kagan può essere letta al seguente link: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=53618
L'articolo di Gaggi è una cronaca della presentazione da parte di Barack Obama dellla sua dottrina strategica, che di fatto riduce il ruolo e la credibilità degli Stati Uniti nel mondo. Il saggio di Kagan è una difesa dell'idea che gli Stati Uniti debbano essere i garanti dell'ordine liberale nel mondo.
A destra, in alto, Robert Kagan
Ecco gli articoli.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi - Da West Point la dottrina Obama «Basta con le avventure militari»
Massimo Gaggi
NEW YORK — «Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio corpo, ma il ruolo speciale, quello di nazione guida, svolto dagli Stati Uniti non ci autorizza a ignorare le regole internazionali, a considerarci al di sopra delle leggi. Né la nostra leadership, una supremazia che tuttora non teme rivali, giustifica l’uso della forza militare ogni volta che c’è una crisi da risolvere. Cercare soluzioni con gli strumenti diplomatici, economici e creando un consenso multilaterale che isola l’aggressore non è segno di debolezza: funziona». Sta funzionando con l’Iran che negozia sul nucleare. Funziona in Ucraina dove Putin «sente la pressione dell’opinione pubblica mondiale che ha isolato la Russia». Barack Obama approfitta del «commencement», il discorso che viene pronunciato in occasione della cerimonia di laurea dei cadetti dell’accademia militare di West Point, per cercare di ridefinire le linee guida della politica estera americana: meno interventismo militare, più cooperazione. Ma anche uso unilaterale della forza quando sono minacciati interessi vitali degli Usa o quando viene attaccato un alleato. E uso delle risorse risparmiate grazie alla fine della guerra in Iraq e Afghanistan per combattere un terrorismo che rimane la minaccia più pericolosa per l’America e che è ormai polverizzato in molti gruppi sparpagliati dall’Africa subsahariana al Medio Oriente, all’Asia centrale e meridionale. C’è spazio anche per due annunci — un maggior sostegno ai ribelli siriani (quelli non legati alle centrali del terrore) che combattono il regime di Assad e uno stanziamento di 5 miliardi di dollari per una rete antiterrorismo nei Paesi più vulnerabili dell’Asia meridionale e del Sahel — in un discorso impegnativo, orgoglioso, ma che a tratti ha anche il sapore di una dolorosa autodifesa di un presidente sotto attacco. Aspramente criticato all’interno dai repubblicani per la riforma sanitaria e la gestione dell’economia, durante il suo primo mandato Obama era stato, tuttavia, «promosso» dai più per quanto riguardava la sua gestione della politica estera. Nell’ultimo anno e mezzo, però, il giudizio è cambiato, e non per il meglio a causa delle incertezze della Casa Bianca nella gestione della crisi siriana, della pressione asfissiante ma fin qui priva di frutti per arrivare una pace stabile tra israeliani e palestinesi e in seguito alla crisi ucraina, con Washington che ha accusato Putin di comportarsi come uno zar del Diciannovesimo secolo, ma non per questo è riuscita ad evitare l’annessione della Crimea da parte di Mosca. I suoi avversari del fronte conservatore, accusano il presidente di aver contribuito a rendere più aggressivi i nemici — i talebani come il presidente russo — dichiarando esplicitamente e solennemente di escludere ogni uso della forza in Ucraina e ufficializzando il calendario del ritiro dall’Afghanistan. Obama considera questi giudizi ingenerosi, è convinto che la sua strategia che punta più sulle alleanze e la costruzione del consenso che sull’uso della forza è meno spettacolare ma più efficace di un attacco militare e cercava da tempo un’occasione per tirare tutti i fili della rete che sta tentando di tessere: un mese fa la missione in Estremo Oriente per rassicurare gli alleati in conflitto con la Cina (Giappone, Corea del Sud, Filippine) e per stringere i rapporti con nuovi amici (Malesia). Tre giorni fa la visita-lampo in Afghanistan e l’annuncio che il corpo militare americano in questo Paese verrà ridotto a 9.800 unità a fine anno e a zero entro il 2016. E la prossima settimana un’altra missione in Europa, a due mesi da quella di marzo, per i 70 anni dallo sbarco in Normandia, un grande sacrifico americano per salvare l’Europa dal nazifascismo. E poi la visita in Polonia, un alleato della Nato che si sente minacciato dal nuovo espansionismo russo, e il G7 che si riunirà a Bruxelles dopo la sospensione-espulsione di Putin dai vertici dell’Occidente industrializzato e la cancellazione del G8 di Sochi. Obama — che aveva parlato ai cadetti già un’altra volta, alla cerimonia di laurea del 2009 — stavolta si è presentato con un messaggio diverso: allora erano i tempi dell’aumento della pressione in Afghanistan, con l’invio di altri 30 mila uomini per cercare di scardinare la resistenza talebana e distruggere la rete terrorista di Al Qaeda. Stavolta il presidente ha spiegato a questi ufficiali freschi di laurea che un buon «commander-in-chief» usa la forza militare solo in circostanze estreme. Una maggior prudenza che, secondo Obama, non intacca la leadership dell’America (alla quale, dalla Nigeria alle Filippine, tutti finiscono per appellarsi) ma, anzi, mette il Paese al riparo da errori gravi: il coinvolgimento in conflitti non essenziali che, quello sì, indebolirebbe gli Stati Uniti. E qui il presidente ha parlato di errori commessi a più riprese nel Dopoguerra. Non è entrato nello specifico, ma è parso riferirsi chiaramente all’occupazione dell’Iraq e alla guerra del Vietnam. Apprezzato da Amnesty International per la promessa di un maggior rispetto della legalità internazionale e di una maggiore trasparenza negli attacchi «chirurgici» antiterrorismo condotti coi droni, Obama non ha tuttavia convinto i suoi critici conservatori e nemmeno molti analisti di politica estera secondo i quali lo scenario disegnato — un Paese diviso tra isolazionisti e interventisti a oltranza — non è realistico. Un discorso, insomma, diretto più agli americani stanchi delle guerre combattute negli ultimi 12 anni che a chi cerca di capire dove sta andando l’America. Come sempre di questi tempi, Obama pensa alla sua «legacy», ma anche alle elezioni di «mid-term», ormai dietro l’angolo.
IL FOGLIO - Robert Kagan - Il paese che salvò il mondo e adesso lo sta lasciando solo
Franklin Delano Roosevelt Barack Obama
Quasi 70 anni fa un nuovo ordine mondiale, costruito dagli Stati Uniti e su di essi imperniato, nacque dalle macerie della Seconda guerra mondiale. Oggi quell’ordine mostra segni di frattura e forse rischia di crollare. La crisi tra Russia e Ucraina, e quella siriana, con la risposta internazionale tiepida, il rivolgimento generale nel medio oriente e nel Nordafrica, la crescita delle tensioni nazionaliste e di grande potenza in Asia orientale, l’avanzata mondiale delle autocrazie e la ritirata delle democrazie: prese una per una, si tratta di questioni non nuove e non ingovernabili. Ma nell’insieme sono un segno che qualcosa sta cambiando, e forse più rapidamente di quanto possiamo immaginare. Possono indicare la transizione a un diverso ordine mondiale o a un disordine mondiale di un tipo non più visto dagli anni Trenta. Se si sta spezzando un ordine mondiale costruito dall’America, non è perché l’America stia declinando: ricchezza, potere e influenza potenziale dell’America sono all’altezza delle sfide presenti. Non è perché il mondo sia diventato più complesso o intrattabile, il mondo lo è sempre stato. E non è semplicemente il prodotto di una stanchezza di fronte alle guerre. E’ abbastanza strano, ma si tratta di un problema intellettuale, una questione di identità e di fini da perseguire. Molti americani e i loro leader politici, compreso il presidente Obama, hanno dimenticato o rigettato ciò su cui si è imperniata la politica estera americana negli ultimi settant’anni. In particolare, la politica estera americana è probabilmente in fase di allontanamento dal senso di responsabilità globale che equiparava gli interessi degli Stati Uniti con quelli di molte altre nazioni nel mondo, e si riavvicina all’idea di interessi nazionali più ristretti, il famoso piede di casa. E’ qualcosa che viene definito “isolazionismo”, ma non è questa la parola giusta. Più correttamente si deve parlare di una ricerca di normalità. Al centro del malessere americano sta il desiderio di dismettere gli inusuali gravami della responsabilità che si sono sobbarcati nella Seconda guerra mondiale e nella Guerra fredda le precedenti generazioni di americani, e di tornare a essere una nazione normale, più in sintonia con i propri bisogni che con quelli del vasto mondo. Se è questo quel che vuole la maggioranza degli americani oggi, allora l’attuale periodo di rinserramento non sarà una pausa temporanea prima di un’inevitabile ripresa dell’attivismo globale. Sarà il marchio di una nuova fase nell’evoluzione della politica estera degli Stati Uniti. E poiché il ruolo dell’America nell’ordine mondiale è stato tanto pervasivo e potente, oltre il livello normale, comincerà un nuovo ciclo del sistema internazionale, che promette di essere non marginalmente diverso ma radicalmente diverso da quello conosciuto negli ultimi settant’anni. O gli americani saranno ricondotti alla comprensione illuminata del loro interesse nazionale, per considerare ancora una volta la loro sorte intrecciata con quella del resto del mondo, oppure sarà oscurata la prospettiva di un pacifico Ventunesimo secolo in cui gli americani e i loro princìpi possano prosperare. PER CAPIRE DOVE SI DIRIGONO L’AMERICA E IL MONDO è utile ricordare a noi stessi che cosa siamo stati ovvero le scelte che gli americani hanno fatto decenni fa e le profonde conseguenze, che hanno cambiato il mondo, di queste scelte. Per gli americani l’alternativa non è mai stata tra isolazionismo e internazionalismo. Con la loro spinta acquisitiva diretta alla prosperità e alla felicità, con il loro amore per il commercio, con la loro espansività economica e (nei primi tempi) territoriale, con la loro ideologia universalistica, gli americani non si sono mai rinchiusi fuori dal resto del mondo. Il Giappone Tokugawa e la Cina Ming furono isolazionisti. Gli americani sono sempre stati più simili alla Roma repubblicana o all’antica Atene, un popolo e una nazione in movimento. Quando, circa settant’anni fa, la politica estera americana subì una trasformazione rivoluzionaria, la direzione non fu quella dall’isolazionismo all’internazionalismo. Ciò che gli americani avevano rifiutato prima della Seconda guerra mondiale era un coinvolgimento globale costante, con impegni verso le altre nazioni e responsabilità per il generale benessere mondiale. Questo era quello che i cosiddetti “internazionalisti” desideravano per gli Stati Uniti. Theodore Roosevelt, John Hay, Henry Cabot Lodge, Elihu Root, Henry Stimson, Woodrow Wilson e molti altri pensavano che gli americani dovessero assumere un ruolo molto più rilevante negli affari mondiali, perché questo corrispondeva al loro crescente potere. Gli Stati Uniti erano diventati “sempre di più il perno dell’equilibrio nel mondo intero”, sosteneva Roosevelt, e dovevano comportarsi coerentemente con questo assunto. In effetti, a partire dalla guerra ispano-americana per i primi due decenni del Ventesimo secolo, gli Stati Uniti perseguirono un più ampio e più profondo convolgimento rispetto a quanto fosse mai accaduto in precedenza, e il tutto culminò con l’invio di due milioni di soldati in Francia. Quando finì la Prima guerra mondiale Wilson, come Roosevelt prima di lui, ebbe l’ambizione di far giocare al paese un ruolo centrale negli affari mondiali. Sotto la pressione di tutti i governi europei del Dopoguerra, che volevano una spinta finanziaria per le loro economie e garanzie americane di sicurezza per proteggersi gli uni dagli altri, Wilson volle che gli Stati Uniti si impegnassero in un duraturo ruolo nel mondo. Il mondo, avvertì i cittadini, sarebbe “in preda a una assoluta disperazione” se gli americani lo abbandonassero. La Lega delle Nazioni di Wilson (ma la prima idea era stata di Roosevelt), sebbene cullata nel linguaggio idealistico dei princìpi universali e della sicurezza collettiva, era intesa prima di ogni altra cosa come il veicolo del potere e dell’influenza americani a sostegno di un nuovo ordine liberale. Ma gli americani rifiutarono questa funzione. Delusi dai compomessi e dall’imperfezione del Trattato di Versailles, in lutto per la morte di centomila soldati, scettici sulla partecipazione americana alla Lega, e spinti dai repubblicani impazienti di sconfiggere Wilson e riconquistare la Casa Bianca, in maggioranza presero a opporsi non solo alla Lega ma anche a una complessiva visione internazionalista del ruolo americano globale. Non fu un irriflesso salto all’indietro verso una inesistente tradizione isolazionista. Fu la decisione deliberata di finirla con il crescente coinvolgimento dei due decenni precedenti, per adottare una politica estera di gran lunga meno impegnata, e soprattutto di evitare futuri interventi militari al di là dell’emisfero occidentale. Il successore repubblicano di Wilson promise, e il popolo americano espresse il suo consenso, quello che Warren Harding chiamò “un ritorno alla normalità”. Negli anni Venti normalità non equivaleva a isolazionismo. Gli americani continuarono a commerciare, a investire e a viaggiare oltre i confini; la loro flotta era di una grandezza eguagliata solo da quella britannica, ed era estesa nell’Atlantico e nel Pacifico; i diplomatici degli Stati Uniti perseguivano accordi per il controllo della corsa agli armamenti e per la messa fuorilegge della guerra. Normalità voleva semplicemente dire che gli interessi dell’America si definivano come si definivano gli interessi delle altre nazioni. Cioè difendere la madrepatria, evitare coinvolgimenti oltreoceano, preservare l’indipendenza e la libertà di azione del paese, e creare prosperità domestica. I problemi dell’Europa potevano essere risolti, o lasciati insoluti, senza l’aiuto americano. Questo valeva anche per le questioni economiche. Harding voleva conseguire “il benessere americano prima di tutto”, e lo fece. Gli anni Venti furono di boom per l’economia americana, mentre le economie europee stagnavano. A una grande maggioranza degli americani la normalità sembrò una risposta ragionevole nel mondo degli anni Venti, dopo l’enorme estensione di ruolo degli anni di Wilson. Non c’erano chiari pericoli all’orizzonte. La Repubblica di Weimar appariva come una democrazia fragile che poteva facilmente crollare piuttosto che lanciare un altro tentativo di dominio continentale. La Russia bolscevica era sconvolta dalla guerra civile e dalla crisi economica. Il Giappone, sebbene crescesse in potere e ambizioni, era una fragile democrazia con un seggio nel consiglio permanente della Lega delle Nazioni. Per la maggior parte degli americani negli anni Venti il rischio più notevole non veniva da poteri stranieri ma da quegli sconsiderati “internazionalisti” e da quegli avidi banchieri e profittatori di guerra che volevano coinvolgere la nazione in conflitti ad essa estranei, che non la riguardavano affatto. Questa corrente d’opinione era massiccia, profonda e bipartisan, e gli americani tennero la rotta della normalità per due decenni tondi. Lo fecero anche se l’ordine mondiale, non più sostenuto dalla vecchia combinazione di potere navale britannico e un equilibrio dei poteri relativamente stabile in Europa e in Asia, cominciava a franare, e alla fine crollò. L’invasione giapponese in Manciuria, nel 1931; l’ascesa al potere di Hitler nel 1933; l’invasione dell’Etiopia da parte dell’Italia di Mussolini nel 1935; il riarmo tedesco in Renania, e la partecipazione congiunta di tedeschi e italiani alla guerra civile spagnola nel 1936; l’invasione della Cina centrale da parte del Giappone nel 1937; l’assorbimento dell’Austria nel Reich hitleriano, seguita dall’annessione e poi dalla conquista della Cecoslovacchia nel 1938 e nel 1939: tutti questi avvenimenti turbarono e in qualche caso crearono irritazione negli americani. Non erano all’oscuro di quanto stava succedendo. Anche allora l’informazione viaggiava con rapidità e si espandeva largamente, i giornali e i cinegiornali erano ricchi di servizi in cui si raccontava l’una o l’altra crisi. Racconti sui bombardieri di precisione di Mussolini che colpivano gli etiopi armati di lance; il bombardamento dell’aviazione tedesca su Guernica; l’ondata di stupri, saccheggi e massacri da parte dei giapponesi a Nanchino: tutto ciò suscitava orrore ed era considerato riprovevole. Ma non erano ragioni capaci di giustificare un coinvolgimento degli Stati Uniti. Al contrario, erano altrettanti motivi per restare fuori da ogni coinvolgimento. Più le cose volgevano al peggio nel mondo, più disperata si presentava la situazione, meno gli americani avevano intenzione di farsi implicare in quanto avveniva. Si credeva decisamente che gli Stati Uniti non avevano interessi vitali in gioco in Manciuria, Etiopia, Spagna o Cecoslovacchia. La verità è che non era chiaro che gli Stati Uniti avevano interessi vitali dovunque fuori dell’emisfero occidentale. Perfino dopo l’invasione tedesca della Polonia nel 1939, con lo scoppio di un conflitto generale europeo che seguì, rispettati pensatori strategici americani, fieri del loro “pensiero realista”, sicuri di dover “bandire altruismi e sentimentalismi” dalla loro analisi, “concentrati intensamente sull’interesse nazionale”, diedero il loro parere in questi termini: con due oceani e una forte flotta interposta tra l’America e le altre grandi potenze del mondo, gli Stati Uniti erano invulnerabili. Era escluso come letteralmente impossibile, per esempio, un attacco giapponese alle isole Hawaii. Il senatore repubblicano Robert A. Taft si diceva fiducioso nel fatto che nessun paese sarebbe stato “abbastanza stupido” da attaccare gli Stati Uniti “dalla distanza di migliaia di miglia attraverso l’oceano”. Né gli Stati Uniti avrebbero patito terribilmente se la Germania nazista ce l’avesse fatta a conquistare l’Europa intera, inclusa la Gran Bretagna, ciò che dal 1940 i realisti considerarono un approdo certo. Taft non vedeva perché gli Stati Uniti non potessero negoziare su normali linee diplomatiche e commerciare con un’Europa dominata dalla Germania nazista, esattamente come avevano fatto con l’Europa guidata da Inghilterra e Francia. Lo storico Howard K. Beale scriveva che “le nazioni non commerciano perché amano i rispettivi governi ma nella misura in cui considerano desiderabile lo scambio dei beni”. Chi diceva queste cose era bollato con la definizione spregiativa di “isolazionista”, ma come ha poi precisato Hans Morgenthau, essi credevano all’epoca di essere nella linea della “tradizione realista della politica estera americana”. Gli Stati Uniti non dovevano “girare il mondo come un Cavaliere errante”, ammoniva Taft, “proteggendo la democrazia e modelli ideali di buona fede e andando all’assalto dei mulini a vento del fascismo come un Don Chisciotte”. Taft insisteva sulla necessità di considerare il mondo per quello che era, non nella rappresentazione degli idealisti. La guerra europea era il prodotto “di animosità nazionali e razziali” che erano esistite “per secoli” e avrebbero continuato a esistere “per i secoli futuri”, così argomentava il senatore. Per vincere la guerra, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inviare oltreoceano milioni di soldati, impegnarsi in uno sbarco anfibio impossibile approdando su spiagge difese dalle forze tedesche, e poi marciare attraverso l’Europa contro la più forte armata del mondo. Al solo pensiero, si trattava di cosa inconcepibile. Per quanto volessero aiutare l’Europa, quindi, gli americani “non avevano il potere, se anche ne avessero avuto la voglia, di essere i suoi salvatori”. Questa visione era tanto dominante che Franklin Roosevelt passò i suoi primi anni da presidente contenendo i suoi istinti internazionalisti e augurandosi di riuscire a tenere l’America fuori da un’altra guerra: “Odio la guerra!”, tuonò in un famoso discorso del 1936. Dopo Monaco, però, entrò nel panico, sentendo che le potenze occidentali, Gran Bretagna e Francia, avevano perduto la volontà di fronteggiare Hitler. E così cominciò a provare a mettere in guardia gli americani da quella che considerava una incipiente minaccia. Ma era difficile contrastare la ferrigna analisi dei pensatori realisti. Roosevelt non poteva provare che la sicurezza americana era direttamente messa in questione da quanto accadeva in Europa. Non gli rimase che sollevare una questione che faceva appello più al sentimento e all’idealismo che a dimostrabili minacce per la madrepatria. Anche se gli Stati Uniti non erano direttamente minacciati da un attacco militare, argomentò Roosevelt, se si fosse consentito a Hitler, Mussolini e al Giappone imperiale di fare come volevano, il mondo sarebbe divenuto “un luogo disordinato e pericoloso da vivere, e questo sì, valeva anche per gli americani”. L’America sarebbe diventata “un’isola solitaria” in un mondo dominato dalla “logica della forza”. Le “istituzioni della democrazia” sarebbero state messe a rischio anche se si fosse preservata la sicurezza dell’America, perché il paese avrebbe dovuto diventare un accampamento militare allo scopo di difendersi. Roosevelt chiese con insistenza agli americani di guardare oltre la loro immediata sicurezza fisica. “Arriva un momento negli affari pubblici”, disse, “in cui gli uomini si devono preparare a difendere non solo le loro case ma i princìpi di fede e umanità sui quali sono fondate le loro chiese, i loro governi e la loro stessa civilizzazione. La difesa della religione, della democrazia e della buona fede tra le nazioni è una sola lotta. Per salvare una cosa dobbiamo prepararci a salvarle tutte”. Questi argomenti, con la caduta della Francia e la Battaglia d’Inghilterra, aiutarono a convincere gli americani che c’era qualcosa in gioco nel risultato del conflitto in Europa, ma non li convinsero a entrare in guerra. La decisione fu presa soltanto dopo Pearl Harbor. L’attacco giapponese, la dichiarazione di guerra di Hitler che ne seguì, e l’entrata in guerra dell’America con un coinvolgimento totale in Europa e in Asia, furono un trauma per gli americani, specialmente per quelli che avevano una posizione di potere. Ciò che era stato considerato impossibile si rivelò possibile, e assiomi a lungo tenuti per certi intorno alla sicurezza americana in un mondo perturbato crollarono in una sola giornata. GLI AVVENIMENTI DEL 1941 PROVOCARONO un ripensamento dalla base non solo della strategia globale americana ma anche del modo di definire gli interessi nazionali. Mentre portavano guerra a Germania e Giappone, Roosevelt e i suoi consiglieri cominciarono a pensare come avrebbe dovuto costruirsi il mondo del Dopoguerra, e presero come modello e guida la lezione che tirarono dai due decenni precedenti. In primo luogo c’era il problema della sicurezza. L’attacco giapponese aveva dimostrato che, nonostante i mari vasti e una forte flotta, una adeguata difesa dagli attacchi non era garantita. Più in generale ci fu la realizzazione, o meglio la riscoperta, di una vecchia certezza: che l’ascesa di una potenza egemonica ostile nel continente eurasiatico alla fine poteva minacciare la basilare sicurezza americana non meno che il benessere economico della nazione. Come corollario valeva la “lezione di Monaco”: chi era potenzialmente aggressivo in Eurasia doveva essere fermato prima che diventasse troppo forte, e questo per evitare lo scoppio di una guerra generalizzata. Altra lezione: gli Stati Uniti avevano un interesse negli sviluppi politici in Eurasia. Walter Lippmann sostenne che gli americani, per godere insieme la “sicurezza fisica” e la preservazione del loro “modo di vivere liberi”, dovevano garantirsi che “sull’altra sponda dell’Atlantico” restassero al potere democrazie “amiche” e “leali”. Per vent’anni il popolo americano aveva snobbato “la richiesta di Woodrow Wilson affinché nel mondo fosse preservata la democrazia”, disse Lippmann, ma Wilson aveva avuto ragione. Sotto il controllo di “liberi governi le sponde e le acque dell’Atlantico” erano divenute “il centro geografico della libertà umana”. La Carta Atlantica e le Quattro Libertà di Roosevelt riflettevano il riemergere della convinzione che il buono stato della democrazia nel mondo non era solo desiderabile in sé, ma una cosa importante per la tutela della sicurezza americana. Poi c’era l’economia mondiale. Negli anni Venti e Trenta gli Stati Uniti avevano cercato rimedi soprattutto domestici per la Grande Depressione, aumentando le tariffe commerciali, cessando di prestare denaro all’estero, rifiutando di unirsi ad altre nazioni in una comune politica monetaria, e proteggendo in generale l’economia americana nell’indifferenza per l’economia mondiale. Nel 1941 però Roosevelt e i suoi consiglieri conclusero che la prosperità domestica e la sicurezza dipendevano entrambe da un’economia mondiale in buona salute. La povertà e il disordine economico avevano avuto un ruolo decisivo nell’ascesa di Hitler e dei bolscevichi. La colpa in gran parte era degli Stati Uniti, perché pur essendo la potenza economica dominante negli anni Venti e Trenta, non avevano giocato un ruolo responsabile e costruttivo nella stabilizzazione dell’economia globale. Infine c’era la questione del consenso pubblico intorno al coinvolgimento globale. Negli anni Venti e Trenta gli americani si erano sentiti autorizzati dai loro leader politici, e anche incoraggiati, a credere che il paese fosse immune dai guai del mondo. Non poteva ripetersi una simile situazione. I cittadini non dovevano più considerare questioni che si svolgevano a migliaia di miglia di distanza come irrilevanti per loro. Per Roosevelt stava diventando una delle più grandi sfide del Dopoguerra l’assicurare il sostegno popolare a un ruolo degli Stati Uniti nel mondo molto più rilevante e coerente. Agli americani doveva essere chiaro che, come scrisse Reinhold Niebuhr nell’aprile del 1943, “i problemi del mondo non sarebbero stati risolti se l’America non avesse accettato l’intera sua parte di responsabilità nel risolverli QUESTA PARTE DI RESPONSABILITA’ ERA COSA GROSSA. Convinti che la Seconda Guerra mondiale non fosse il prodotto di singoli fatti accidentali bensì del crollo generale dell’ordine mondiale, politico, economico e strategico, i leader degli Stati Uniti si attrezzarono per erigere e difendere un nuovo ordine che fosse durevole. Questa volta doveva essere un ordine costruito intorno al potere economico, politico e militare dell’America. Gli europei si erano mostrati incapaci di mantenere la pace. L’Asia era del tutto instabile per parte sua. Un qualsiasi nuovo ordine dipendeva dagli Stati Uniti. E sarebbe diventato il perno di un nuovo sistema economico capace di incoraggiare il libero commercio e di provvedere assistenza finanziaria e prestiti alle nazioni che combattevano per restare a galla. Bisognava attivarsi in modo sostanziale nell’occupazione e nella trasformazione delle potenze vinte, assicurandosi che una forma di democrazia mettesse radici al posto delle vecchie dittature che avevano portato alla guerra queste nazioni. L’America avrebbe anche dovuto garantirsi una preponderanza nella forza militare e, quando necessario, impiegare un potere sufficiente a stabilizzare e assicurare il corso delle cose in Europa, in Asia e in medio oriente. La forza militare giocava un ruolo centrale nei calcoli di Roosevelt e dei suoi consiglieri nel progetto di stabilire e difendere un nuovo ordine mondiale. “La pace deve essere mantenuta con la forza”, insisteva Roosevelt. Non c’era “alcun altro mezzo”. Il presidente anticipò che una forza di occupazione americana di un milione di effettivi sarebbe stata necessaria per mantenere la pace in Europa, per almeno un anno e forse per più tempo. Durante la guerra lo Stato Maggiore programmò di insediare basi militari nel mondo, “in aree ben distanziate dagli Stati Uniti”, in modo che qualunque conflitto eventuale si svolgesse “più vicino al nemico” piuttosto che in territorio americano. Ovviamente Roosevelt si augurava di non dover dislocare oltreoceano, a ripetizione e su larga scala, forze di terra, poiché aveva paura che la gente non lo avrebbe sostenuto. Ma riteneva prevedibile che per lo meno gli Stati Uniti avrebbero dovuto inviare l’aviazione e la flotta ogniqualvolta richiesti dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Come rilevò Cordell Hull alla conferenza di Dumbarton Oaks nel 1944, la forza militare americana doveva essere “disponibile prontamente, in misura adeguata, e con certezza”. Roosevelt capì che le richieste del Consiglio di sicurezza sarebbero state tanto frequenti che sarebbe stato sconsigliabile far passare la faccenda al Congresso per l’approvazione di volta in volta. Il Consiglio di sicurezza doveva avere “il potere di agire velocemente e decisivamente per mantenere la pace con la forza, se necessario”, spiegò Roosevelt, e così il rappresentante americano doveva avere una procura che gli garantisse l’autorità per agire tempestivamente. Roosevelt sostenne le Nazioni Unite ma non credeva granché nella sicurezza collettiva. La potenza americana, ne era convinto, era la chiave di tutto. Vedeva le Nazioni Unite come Wilson vedeva la Lega delle Nazioni, come un veicolo per il coinvolgimento globale degli Stati Uniti. In effetti, come ha notato lo storico Robert Dallek, per Roosevelt le Nazioni Unite erano intese in parte come una cortina di “oscuramento” del ruolo centrale della potenza americana da giocarsi nel nuovo ordine mondiale: oscuramento, questo è il punto, prima di tutto rispetto all’opinione pubblica americana.
Questa nuova grande strategia americana per il mondo post bellico non avrebbe potuto essere un allontanamento più radicale dalla “normalità”. I suoi obiettivi non erano solo la difesa del territorio, la prosperità e l’indipendenza della sovranità del popolo americano, ma anche la promozione di un ordine mondiale liberale che avrebbe difeso non solo gli interessi americani ma anche quelli di molte altre nazioni. L’emergere dell’egemonia eurasiatica avrebbe minacciato le altre nazioni molto prima degli Stati Uniti, per esempio, eppure gli americani accettavano ora la responsabilità principale di prevenire tali minacce. La nuova strategia non era né generosa né altruista. I funzionari americani credevano che fosse nell’interesse degli Stati Uniti. Ma neppure si sposava con la classica definizione di “interesse nazionale”. Come ha spiegato Dean Acheson, gli americani dovevano imparare a “operare secondo un modello di responsabilità più grande dei propri interessi”. Era la vera rivoluzione della politica estera americana. La nuova strategia non era diretta a nessuna nazione in particolare e neppure a una specifica minaccia – almeno non all’inizio. L’Unione sovietica non era ancora emersa come l’antagonista del nuovo ordine globale. Durante la Seconda guerra mondiale, Roosevelt e la gran parte degli altri alti funzionari si aspettavano una cooperazione reciproca con i sovietici dopo la guerra e, fino al 1945, Acheson ancora credeva nella possibilità di collaborare con Mosca. Invece di rispondere a una minaccia in particolare, la nuova grande strategia mirava a prevenire il collasso generale dell’ordine mondiale, il che significava sostenere un sistema economico internazionale aperto, applicando princìpi internazionali di comportamento, aiutando, dove possibile, i governi democratici, incoraggiando un minimo rispetto dei diritti umani, definiti dalla Carta delle Nazioni Unite, e promuovendo generalmente un mondo adatto agli americani e a coloro che condividevano i loro valori. Questo ampio insieme di obiettivi e responsabilità cambiò completamente l’orientamento della politica estera americana. Invece di indietreggiare, aspettando che le minacce si manifestassero, per poi rispondere e respingerle, la nuova strategia richiedeva un coinvolgimento costante e invasivo negli affari mondiali. La nuova strategia economica puntava a scoraggiare i potenziali aggressori prima che diventassero tali o, come diceva Roosevelt, a “finire le guerre future strangolandole prima che si sviluppassero”. La nuova posizione più protratta in avanti diventò particolarmente marcata quando l’èra post bellica sfociò nella Guerra fredda. Il piano Marshall puntava a sostenere le economie dell’Europa occidentale prima che queste soccombessero al comunismo. La dottrina Truman puntava a incoraggiare Grecia e Turchia prima che cadessero nel sovvertimento comunista. Quando la rivoluzione trionfò in Cina nel 1949, i critici americani contestarono l’Amministrazione Truman per non aver fatto abbastanza per prevenirla – un’accusa, giusta o no, che nessuno avrebbe mai pensato di avanzare prima della Seconda guerra mondiale. L’inattesa invasione nordcoreana della Corea del Sud scatenò il panico a Washington e, nella mente di Truman e dei suoi consiglieri, si rafforzò la “lezione di Monaco”. Da quel momento in poi gli Stati Uniti sarebbero dovuti restare vigili e pronti ad agire, con la forza, ovunque nel mondo. Si trattava esattamente di ciò che i critici degli anti interventisti avevano chiesto di fare negli anni Trenta. Taft, un uomo ragionevole e intelligente, aveva previsto che, una volta inviate in guerra, le forze americane non sarebbero più tornate in patria. La vittoria avrebbe rappresentato sia una maledizione sia una benedizione. Le truppe americane, aveva ammonito Taft, “avrebbero vigilato in Europa mantenendo l’equilibrio di potenza con la forza delle armi” indefinitamente. Beale aveva avvisato che, se gli obiettivi erano la libertà e la democrazia, come sosteneva Roosevelt, allora gli Stati Uniti avrebbero dovuto “sostenere la democrazia con le Forze armate nel continente europeo” mantenendo “una flotta navale grande abbastanza per la libertà dei mari… in tutti gli oceani del mondo”. Era la ricetta allo stesso tempo per la bancarotta e il militarismo in patria e per “l’imperialismo puro” all’estero. Roosevelt e gli altri statisti speravano all’inizio che gli Stati Uniti non avrebbero fatto tutto da soli. Roosevelt pianificò di condividere una gestione globale tra i “Quattro poliziotti” – Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione sovietica e Cina. E Truman nel 1945 era determinato a tagliare il budget per la Difesa riportando a casa il maggior numero possibile di truppe. Eppure, nel giro di due anni dopo la fine della guerra, il nuovo ordine mondiale stava già barcollando sull’orlo del collasso insieme con le speranze per una cooperazione globale con le altre grandi potenze. In breve tempo, la Gran Bretagna dimostrò di non essere in grado di svolgere il suo ruolo storico, nemmeno nel Mediterraneo. La Cina sprofondò nella guerra civile, verso la rivoluzione. E l’Unione sovietica si manifestò non come sostenitore del nuovo ordine mondiale, bensì, agli occhi degli americani, come il suo principale antagonista. Il risultato fu la desolante presa di coscienza che gli Stati Uniti avrebbero dovuto sostenere la maggior parte dei costi, proprio come Taft aveva pronosticato. Come avrebbe detto Acheson in seguito, gli Stati Uniti sarebbero stati la “locomotiva alla guida dell’umanità”, mentre il resto del mondo sarebbe stato “la cambusa”. Roosevelt era sempre preoccupato dal fatto che il popolo americano non avrebbe mai accettato un simile ruolo globale, così costoso e senza termine. Tre mesi prima di morire, durante il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione nel gennaio del 1945, tentò di mobilitare il popolo per l’impegno che lo attendeva. “Nella nostra delusione dopo l’ultima guerra”, ricordò agli americani, “abbiamo abbandonato la speranza del raggiungimento graduale di una pace migliore perché non abbiamo avuto il coraggio di assumerci le nostre responsabilità in un mondo, a dire il vero, imperfetto. Non dobbiamo permettere che ciò accada di nuovo, o dovremo seguire ancora una volta la stessa tragica strada – la strada per una Terza guerra mondiale”. ERA L’ULTIMA VOLTA, PRIMA DEL 1989, che uno statista americano avrebbe pensato alle responsabilità globali dell’America senza far riferimento all’Unione sovietica o al comunismo. L’arrivo della Guerra fredda, la concitata risposta americana alle politiche sovietiche nell’Europa orientale e in medio oriente e la ricorrente paranoia statunitense a proposito del pericolo comunista in patria furono la risposta ai timori di Roosevelt circa il sostegno del popolo. A molti americani, il comunismo sovietico appariva come una minaccia ancor più diretta al loro stile di vita rispetto a Hitler o al nazismo. Combatterlo, quindi, rappresentava una strategia più facile da comprendere e sostenere piuttosto che spalleggiare “responsabilità in un mondo, di fatto, imperfetto”. Sebbene ci fosse un dibattito intenso e contraddittorio sulla politica estera durante la Guerra fredda, e nonostante il dissenso di alcuni critici del contenimento anti comunista, specialmente durante e subito dopo la guerra in Vietnam, la gran parte degli americani era largamente favorevole al contenimento del comunismo. Verso la fine degli anni Quaranta e Cinquanta, garantirono miliardi di dollari per la ricostruzione europea stringendo alleanze militari con vecchi nemici, come il Giappone, la Germania e altre potenze europee che un tempo avevano disdegnato e verso cui fino ad allora non avevano mai avuto fiducia. Estesero anche le garanzie nucleari per scoraggiare un’invasione convenzionale dell’Europa da parte dei sovietici, rendendoli volontariamente obiettivi per le armi nucleari di Mosca in caso di una guerra europea. Negli anni Cinquanta e Sessanta, spesero oltre il dieci per cento del pil per la Difesa. Schierarono centinaia di migliaia di truppe oltreoceano, senza limiti di tempo, in Europa e Asia – quasi un milione durante gli anni di Eisenhower. Combatterono guerre costose in Corea e Vietnam, con risultati incerti e non soddisfacenti. Giustificare tutto in termini di lotta al comunismo potrebbe essere stato, prendendo in prestito la frase di Acheson, “più chiaro della verità”, ma funzionò. La paura del comunismo, assieme a quella dell’Unione sovietica come minaccia geopolitica, permise a gran parte degli americani e dei politici statunitensi di vedere ogni politica diretta contro le forze comuniste, ovunque nel mondo, concretamente al servizio degli interessi vitali della nazione. Nel 1965, anche David Halberstam ritenne che prevenire una vittoria comunista in Vietnam fosse “vitale per il nostro interesse nazionale”. Quindici anni dopo, Jimmy Carter, che assunse la carica ammonendo, non del tutto senza ragioni, contro la “disordinata paura del comunismo”, fu costretto ad annunciare decisi cambiamenti politici in risposta all’invasione sovietica dell’Afghanistan, un paese che nemmeno due americani su un milione sarebbero stati in grado di individuare sulla mappa e dove nessun diretto interesse americano era identificabile, oltre al fatto che lì c’erano i sovietici. Sì, il sentimento generale se n’era andato, gli Stati Uniti avevano assunto responsabilità globali senza precedenti, ma lo avevano fatto perché gli interessi americani erano minacciati direttamente da sfide globali senza precedenti. Così gli americani per più di quarant’anni furono decisi a sostenere la costosa ed estesa politica estera che Roosevelt e i suoi consiglieri avevano ideato – probabilmente molto più di quanto loro stessi idearono – e i risultati furono straordinari. Nella metà del secolo che seguì la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti crearono, difesero e migliorarono con successo un nuovo ordine mondiale liberale, ritagliando un vasto “mondo libero” entro il quale un’èra di pace e prosperità senza precedenti fiorì nell’Europa occidentale, in Asia orientale e nell’emisfero occidentale. Sebbene le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica raggiungessero a volte livelli pericolosi, il periodo fu caratterizzato soprattutto dalla pace tra le grandi potenze. Gli Stati Uniti e l’Unione sovietica non arrivarono allo scontro e, cosa ugualmente importante, la presenza americana in Europa e Asia orientale pose fine alle guerre che avevano segnato entrambe le regioni dalla fine del Diciannovesimo secolo. Il numero di democrazie nel mondo crebbe enormemente. Il sistema commerciale internazionale si estese e si approfondì. La gran parte del pianeta visse in una prosperità senza precedenti. Non mancarono disastri o quasi-disastri, così come le due costose guerre in Asia – ma la strategia fu vincente, tanto che l’impero sovietico alla fine collassò o si ritirò di sua volontà, pacificamente, sotto la pressione del successo economico e politico dell’occidente, e l’ordine liberale si estese fino a includere il resto d’Europa e gran parte dell’Asia. Tutto questo fu il risultato di molte forze – l’integrazione politica ed economica dell’Europa, il successo di Giappone e Germania, e l’emergere di altre economie asiatiche di successo – ma nessuna di queste sarebbe stata possibile senza la volontà degli Stati Uniti di giocare un ruolo abnorme e inusuale come difensore dell’ordine mondiale liberale. L’ABILITA’ AMERICANA DI GIOCARE QUESTO RUOLO non fu tanto dovuta alle virtù speciali del popolo americano, bensì ad alcuni vantaggi notevoli che misero gli Stati Uniti in una situazione storica unica. Il vantaggio più importante era la geografia. Per secoli, i campi di battaglia dei conflitti del mondo erano stati l’Europa, l’Asia e il medio oriente, dove poteri molteplici condividevano le stesse frontiere, si contendevano il primato, e si sfidavano in confronti militari senza fine. Quando gli Stati Uniti emersero come grande potenza alla fine del Diciannovesimo secolo, loro soltanto potevano godere della fondamentale sicurezza in un’area in cui erano già egemoni incontrastati. Questo, insieme con la sua ricchezza e una popolazione numerosa, diede agli Stati Uniti la possibilità di inviare in massa le sue forze armate a grandi distanze, in prolungate missioni militari. Permise anche agli Stati Uniti, quando volevano, di stanziare grandi contingenti permanentemente oltreoceano. E avrebbero potuto fare tutto ciò senza restare vulnerabili di fronte a una potenza vicina. Nessun’altra nazione nel mondo è mai stata in una posizione tanto vantaggiosa. Anche l’altra grande superpotenza insulare, la Gran Bretagna, era troppo vicina al continente europeo per essere invulnerabile agli attacchi, specialmente quando gli aerei e i missili a lunga gittata divennero strumenti bellici diffusi. Né la Gran Bretagna riuscì a mettere in sicurezza i suoi bisogni strategici: prevenire la comparsa di un egemone nel continente. Sebbene sia stata in grado per due secoli di mantenere e gestire un impero oltreoceano, la Gran Bretagna fallì nel prevenire l’avvento dell’egemonia tedesca due volte nel Diciannovesimo secolo, conducendo a due guerre devastanti che alla fine vanificarono la potenza britannica. La Gran Bretagna ha fallito perché ha provato a giocare il ruolo del bilanciere in Europa “dall’estero”. La sua principale preoccupazione è sempre stata la difesa delle estreme periferie dell’impero e ha così scelto, quando possibile, di restare lontana dall’Europa. L’incapacità o la mancanza di volontà dei britannici di dispiegare un numero sufficiente di truppe di terra sul continente, o almeno di garantire che queste potessero giungere velocemente in caso d’emergenza, portò i potenziali aggressori a calcolare che la forza militare britannica non sarebbe giunta in tempo o non sarebbe giunta affatto. Dopo la Seconda guerra mondiale, il solo vantaggio geografico degli americani rese possibile una strategia globale senza precedenti. Gli Stati Uniti furono in grado di spostarsi oltre la tradizionale difesa nazionale e oltre l’“equilibrio offshore”. Sono stati in grado di diventare sia una potenza europea sia una potenza asiatica, con truppe stanziate permanentemente “on-shore” in entrambi i teatri contemporaneamente. La presenza delle truppe americane ha fatto sì che i potenziali aggressori non dubitassero del fatto che gli Stati Uniti avrebbero combattuto se gli alleati fossero stati attaccati. Per i successivi settant’anni, la presenza americana ha garantito una pace e una stabilità generali in due regioni che per almeno un secolo avevano conosciuto un conflitto quasi costante tra grandi potenze. Allo stesso modo fu notevole il livello di generale accettazione del potere americano. Ancora, il motivo aveva molto più a che vedere con la potenza e la geografia piuttosto che con l’affinità ideologica. Era vero che per molte nazioni nel mondo gli Stati Uniti sembravano essere un egemone relativamente bendisposto. Ma la reale motivazione geopolitica fu che le altre nazioni affrontarono minacce più grandi e immediate dai loro vicini che dai lontani americani. Quando i loro vicini minacciarono sempre di più, guardarono agli Stati Uniti come partner naturale – incoraggiati dalla loro abilità di proiettare la propria potenza per difenderli, ma anche dalla loro distanza. Gli Stati Uniti infatti violavano alcune regole cardinali delle relazioni internazionali. Per decenni, i realisti avevano creduto che la stabilità e la pace nel mondo potessero solo dipendere da un equilibrio di potenze multipolare, un “concerto” di nazioni in equilibrio precario in seno a un sistema che tutti gli attori guardavano come necessario e legittimo – come l’Europa negli anni del Congresso di Vienna. Questo era il mondo con cui Henry Kissinger si sentiva a suo agio e che prevedeva, anche negli anni Sessanta, fosse dietro l’angolo. L’unipolarità era considerata intrinsecamente instabile e di vita breve, perché altre grandi potenze si sarebbero sempre raggruppate tra loro per bilanciare un’altra potenza diventata troppo forte – come era successo in Europa in seguito all’affermarsi di Francia e Germania nel Diciannovesimo e nel Ventesimo secolo. Richard Nixon esternò questa che considerava una realtà lapalissiana in un discorso, senza dubbio scritto sotto l’influenza di Kissinger, nel 1972. “Dobbiamo ricordare”, disse Nixon, che “l’unico momento nella storia del mondo in cui abbiamo avuto un esteso periodo di pace è stato quando c’era equilibrio tra le potenze. E’ quando una nazione diventa infinitamente più forte dei suoi potenziali avversari che il pericolo di guerra aumenta. Così io credo in un mondo dove gli Stati Uniti sono potenti. Penso che sarà un mondo migliore e più sicuro quello in cui Stati Uniti, Europa, Unione sovietica, Cina e Giappone sono forti e in salute, ciascuno bilanciando l’altro”. Ma gli Stati Uniti stavano già confutando questa tesi. L’ampia accettazione della potenza americana, meglio dimostrata dal suo vasto numero di alleati e dall’assenza di nazioni forti al fianco dell’Unione sovietica, creò una situazione unica al mondo. Nessun’altra nazione nella storia aveva mai giocato un ruolo simile su scala globale, e forse nessun’altra avrebbe potuto. Una condizione che non si sarebbe potuta conformare a una teoria perché non replicabile. La geografia rese possibile agli Stati Uniti di giocare un ruolo unico al mondo, ma come hanno dimostrato gli anni Venti e Trenta, l’interrogativo sulla sua volontà di sobbarcarsi questo compito spettava solo al popolo americano. Nessuno chiese loro di rivestire questo ruolo assumendo una posizione anomala rispetto agli affari mondiali. Durante la Guerra fredda lo fecero prima di tutto per paura del comunismo. Ma cosa sarebbe accaduto una volta scomparse l’Unione sovietica e la minaccia comunista? La domanda è sembrata controversa per quaranta angosciosi anni, quando nessuno davvero si aspettava che l’Unione sovietica abbandonasse la competizione geopolitica. Ma la caduta imprevista dell’impero sovietico e il collasso del comunismo internazionale nel 1989 inevitabilmente sollevarono nuove domande su come definire l’obiettivo dell’America e i suoi interessi in assenza di una minaccia evidente. Improvvisamente, gli americani erano tornati dove Roosevelt li aveva lasciati all’inizio degli anni Quaranta, quando la sfida era stata quella di evitare gli errori degli anni Venti e Trenta. Ma qualcuno si sarebbe ricordato la grande strategia originale, congegnata subito prima che l’Unione sovietica si manifestasse per dominare il pensiero strategico americano? Sarebbe stata ancora rilevante l’originaria grande strategia americana alla fine del Ventesimo secolo? Oppure, come il politologo Robert Osgood si chiedeva negli anni Cinquanta, gli americani “sarebbero diventati tanto paralizzati dalle loro paure del comunismo” da dimenticare “quello per cui sono a favore nella loro ossessione per quello cui sono contro”?
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