Pakistan: uccisa per aver scelto il marito. Sudan: partorisce in carcere Meriam, condannata a morte per apostasia Scontro di civiltà ? Nooooo !
Testata: Corriere della Sera Data: 28 maggio 2014 Pagina: 18 Autore: Viviana Mazza - Alessandra Muglia Titolo: «Sposa l'uomo che ama, lapidata dalla famiglia - Una culla in carcere. Due anni per cresecere la figlia»
Riprendiamo, dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/05/2014, a pag. 18, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo "Sposa l'uomo che ama, lapidata dalla famiglia" e quello di Alessandra Muglia dal titolo "Una culla in carcere. Due anni per cresecere la figlia".
Ecco l'articolo di Viviana Mazza:
Viviana Mazza
Sul luogo dell'omicidio di Farzana Parveen
"Davanti al tribunale di Lahore, la venticinquenne Farzana giaceva ieri coperta da un velo a fiorellini. Accanto al suo corpo senza vita, una scarpa rosa e nera da triste Cenerentola. Farzana Parveen aveva sposato l'uomo che amava, Mohammed Igbal Ma la famiglia di lei era contraria, l'aveva promessa in sposa ad un cugino: un matrimonio combinato, come spesso accade nelle famiglie conservatrici. Farzana aveva confidato nella giustizia: era andata in tribunale per difendere il marito dall'accusa di averla rapita, per ripetere che l'aveva sposato per scelta. All'uscita una ventina di membri della sua stessa famiglia l'ha assalita, prima sparando e tentando di strapparla alle braccia del marito, poi colpendola con mattoni e sassi. A lapidarla, secondo la polizia, sono stati i suoi due fratelli, il promesso sposo e il padre, l'unico arrestato. «Era una questione d'onore — ha detto —. Non provo rimorso». Questa storia ha scioccato molti perché, nonostante i delitti d'onore siano frequenti in Pakistan, la lapidazione di Farzana non è avvenuta nella notte in un remoto villaggio, ma in pieno giorno nel centro della città di Lahore. Sono un migliaio l'anno i casi come questo riportati dai giornali, secondo le Ong locali, che ritengono però il numero reale sia più alto. I delitti d'onore sono illegali ma è difficile ottenere giustizia per due ragioni: la mancanza di testimoni e la scarsa motivazione della polizia a perseguire i sospetti. Quei pochi casi che arrivano in tribunale ci mettono anni prima di essere ascoltati, e anche quando finiscono con la condanna, gli assassini vengono spesso messi in libertà poiché la legge permette alla famiglia della vittima (la stessa che ha voluto il delitto) di perdonarli, come spiegava ieri il quotidiano locale Dawn. Molte donne condannate dalle famiglie scelgono di morire anziché cercare aiuto. Farzana, invece, no. Aveva deciso di combattere. E non è la sola Le denunce un tempo rarissime si stanno facendo più frequenti. Come ha spiegato una giovane di nome Rukhsana, sopravvissuta ad un delitto d'onore nel nord, «la nuova generazione sta cambiando. Abbiamo solo bisogno di un piccolo aiuto da parte dei tribunali e del governo».
Ecco l'articolo di Alessandra Muglia:
Alessandra Muglia
Meriam con il marito
Nonostante le catene e l'aria asfittica della prigione, ce l'ha fatta Meriam a dare alla luce la sua bambina. Maya è nata con qualche giorno di anticipo nelle prime ore di ieri tra le celle sporche e roventi di Omdurman, la città che guarda la capitale sudanese dalla riva opposta del Nilo. E qui dovrà restare con la madre, la donna condannata all'impiccagione dopo che si era rifiutata di convertirsi all'Islam. «Sono cristiana da sempre e lo rimango» aveva risposto al giudice che le aveva concesso quattro giorni per «pentirsi» ed evitare l'accusa di apostasia visto che è figlia di un musulmano. La sentenza di morte è stata accompagnata da l00 frustate per «adulterio»: il giudice non ha infatti riconosciuto il suo matrimonio con un cristiano, Daniel Wani, celebrato tre anni fa. E ieri il marito non ha potuto abbracciare la moglie né vedere la sua piccola: non è stato autorizzato. «E un trattamento crudele in una situazione del genere», ha lamentato da un ufficio del carcere. La scorsa settimana l'uomo aveva denunciato le condizioni di salute precarie di Meriam, tenuta incatenata nonostante la gravidanza. Ora questo sudanese con cittadinanza americana sta cercando in tutti i modi di ottenere un permesso speciale per una visita extra oltre a quella settimanale. Intanto continua la mobilitazione internazionale per chiedere l'annullamento di questa condanna assurda e l'uscita immediata della donna e dei suoi due piccoli dalla prigione. Oltre a Maya, con la mamma c'è anche il primogenito, Martin, di soli 20 mesi. Appena verrà dimessa dall'ambulatorio del carcere dove è stata trasferita per il parto, la aspettano di nuovo la cella e le catene. I suoi avvocati hanno chiesto che Meriam possa essere visitata da un medico di fiducia. Nel penitenziario le condizioni igienico-sanitarie lasciano a desiderare, il rischio di infezioni è alto. La giovane dovrebbe restare reclusa per due anni — il tempo consentito dalla legge per l'allattamento — prima che la sentenza sia eseguita In forte imbarazzo per l'assedio diplomatico e mediatico globale, il governo di Karthoum in questi giorni ha più volte lasciato a intendere che la sentenza non è definitiva, che potrà essere rivista nei successivi gradi di giudizio. Del resto dall'entrata in vigore del codice penale del 1991 che include la sharia, nessuna condanna a morte per apostasia è stata eseguita finora. Ma per le associazioni per i diritti umani c'è comunque poco da stare tranquilli: «Due anni fa una donna sudanese è rimasta paralizzata per le frustate e ridotta in fin di vita», ricorda Antonella Di Napoli di «Italians for Darfur», la ong che per prima ha lanciato l'allarme fuori dal Sudan dopo la denuncia della condanna da parte di una associazione locale. «Abbiamo raccolto oltre 40 mila adesioni alla nostra campagna #SaveMeriam, rilanciata anche da Avvenire. Se la mobilitazione internazionale continua possiamo sperare anche in un atto di clemenza del presidente Bashir». Cautela anche da parte di Amnesty International, che ha raccolto oltre 660 mila firme nella sua petizione online: «Nonostante alcune dichiarazioni del presidente della Corte Suprema sudanese, secondo cui non ci sarebbe nessuna intenzione di applicare la legge della sharia nei confronti di Meriam, il nostro appello rimane valido fino all'annullamento formale della condanna attraverso una sentenza», precisa il portavoce italiano, Riccardo Noury. Intanto giovedì scorso l'avvocato di Meriam ha presentato ricorso in corte d 'Appello. Se andasse male, l'idea è quella di andare fino in fondo e portare il caso alla massima autorità giudiziaria, la Corte Costituzionale. Con buone chance di successo visto che la Costituzione sudanese prevede la libertà di religione. Anche se in Sudan, dopo la separazione dal Sud cristiano, sono in molti a pensare che il Paese debba abbracciare un'applicazione più rigida della sharia. A iniziare dai due zii musulmani di Meriam, che per primi l'hanno denunciata, incolpandola di essere una «convertita», e quindi per la sharia una «apostata».
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