Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/01/2014, a pag. 31, l'articolo di Pierluigi Battista dal titolo "La retorica fa male alla memoria".
Elena Loewenthal presenterà il suo libro lunedì 27 gennaio alle ore 18 al Circolo dei Lettori di Torino. Intervengono: Ernesto Ferrero, Mario Calabresi, Angelo Pezzana.
Elena Loewenthal
Malgrado il tono perentorio e assertivo del titolo appena pubblicato dall’editore Add, Contro il giorno della memoria , di Elena Loewenthal, non è un pamphlet scritto per «suscitare polemiche», né per «scandalizzare e indignare» alla vigilia del 27 gennaio. È invece un tentativo sofferto e intelligente di capire ciò che disturba un’intellettuale ebrea nata un po’ di anni dopo la Shoah, e che coltiva con la Shoah quella che chiama un’ossessione e che su quest’ossessione scrive romanzi, e che ironicamente afferma che la Shoah è nella sua vita e nella sua mente «una presenza costante di cui farei volentieri a meno», come «un’ombra greve che mi pesa addosso facendo di me, così come di chi mi ha messo al mondo, una sopravvissuta», è un tentativo dunque di capire perché «il Giorno della memoria mi disturba».
Nato da una decina d’anni come ricorrenza civile che vuole segnare un «tributo di civiltà a chi è stato vittima della barbarie», gli ebrei, e come «progetto educativo» che deve coinvolgere scuole, istituzioni, agenzie pubbliche chiamate a svolgere un ruolo di pedagogia morale e nazionale, il «Giorno della memoria» coltiva in sé un’insopprimibile contraddizione. Obbliga a ricordare sempre la stessa tragedia storica, la Shoah, ma ogni anno cercando sempre una forma nuova per non ripetersi identica a se stessa. Ogni anno che passa, osserva Elena Loewenthal che infatti si è programmaticamente dichiarata indisponibile a partecipare a qualsivoglia manifestazione commemorativa nelle 24 ore di quel Giorno, gli editori, i giornali, le istituzioni cercano con un po’ di anticipo «trovate» originali che rinnovino il senso di una memoria, senza scivolare nell’ovvio, nel già visto, nel convenzionale.
Quella di Elena Loewenthal non è insomma l’osservazione critica, che pure si sente in una sfera del non detto pubblico e privato, e che non si esprime in forme esplicite per la paura di toccare una sensibilità troppo sovraccarica di emozioni tragiche, sul fatto che ogni anno la ricorrenza si possa prosciugare, ossificare, diventare banale e ripetitiva routine. No, è soprattutto un’analisi impietosa dell’assunto che sta a base di una iniziativa lodevole e nata con le migliori intenzioni: l’assunto secondo il quale il ricordo pubblico, mentre i sopravvissuti se ne vanno e svanisce fatalmente l’esperienza di una memoria diretta dello sterminio, possa fare da antidoto alla ricaduta nella barbarie. Sapere e conoscere per non commettere mai più quei crimini che hanno macchiato indelebilmente la coscienza e l’umanità intera. La Loewenthal costruisce questo suo libretto appassionato e feroce sferzando le parole vuote della retorica. E ricorda che in Israele la Shoah viene ricordata ogni anno senza parole: «un minuto di sirene» che squassano l’aria in tutto il Paese contemporaneamente, mentre tutto si ferma «in assoluto e immobile silenzio». Un lungo minuto («non vedi l’ora che sia passato») che dice molto più di tante parole vacue e convenzionali. Questo è il senso della «provocazione» di Elena Loewenthal.
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