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La Stampa Rassegna Stampa
16.01.2014 Io ebrea contro il Giorno della Memoria
commento di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 16 gennaio 2014
Pagina: 1
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Io ebrea contro il Giorno della Memoria»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 16/01/2014, a pag. 1-28, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Io ebrea contro il Giorno della Memoria ".

Come si fa a scendere a patti con una storia così? Come si fa a farci i conti? A togliersela dalla testa, a non trasformarla in un’ossessione, a evitare che ti si aggrovigli dentro?
A pensare che possa lasciarti in pace anche soltanto un momento, per tutti i giorni della tua vita?

Contro il giorno della memoria

                                           Elena Loewenthal

Niente da fare.
Te la trascini dietro. Sai che ci stai dentro e non ne esci più anche se sei nata dopo.
Forse, ogni tanto speri di poterla dimenticare. È pura illusione, è un auspicio che affidi, caso mai, alle generazioni successive. Ma altro che memoria, culto della memoria, celebrazione della memoria, moralità della memoria. Per te che sei nata dopo, cioè per me, il vero sogno sarebbe poterla dimenticare, questa storia. Rimuovere la Shoah dall’universo della mia coscienza e dal mio inconscio, soprattutto. Smettere, ad esempio, di sentirmi l’intestino in gola ogni volta che vedo e sento passare un treno merci con il suo sferragliare pesante, la lentezza del moto e del suono che assorda, la parete impenetrabile dei vagoni.
Altro che GdM. Ci vorrebbe quello dell’oblio, per me. O almeno la possibilità di sistemare tutta quella memoria su una nuvola, come si fa adesso. Non perché sia vuoto, anzi. L’oblio non si fa con il vuoto, ma con il pieno, come il troppo pieno. È una forma di difesa dall’angoscia, una pulsione di vita, l’oblio: così spiega Simon Daniel Kipman in L’Oubli et ses vertus. Anche lui, che è psicoanalista, al dovere della memoria contrappone il diritto all’oblio e soprattutto il diritto alla trasformazione in tracce meno tossiche e più confortevoli dell’«iscrizione traumatica e traumatizzante del ricordo».
Se solo la si potesse dimenticare, questa storia. Non i suoi morti, che poi sono miei, ma la storia in sé. Le leggi razziali, le persecuzioni, i treni con i deportati, le camere a gas, le torture, le fucilazioni di massa, le violenze assurde. Perché mai coltivarne la memoria, se non per continuare a star male? Ma l’autolesionismo non fa parte della mia identità, né del mio bagaglio morale o teologico. L’ebraismo è una cultura della vita, ha fede nella vita. Non coltiva la morte.
Pensare che gli ebrei ambiscano a celebrare questa memoria significa non provare nemmeno a mettersi nei loro panni. Quella memoria è scomoda, terribile, respingente.
Ne farei tanto volentieri a meno, non finirò mai di ripeterlo.
È la prima cosa da chiedere, appuntata nella mente, se mi capitasse di nascere un’altra volta, con la possibilità di opzione: grazie, questo no. Né prima né durante né dopo. Mettetemi in un mondo dove non c’è la Shoah.
Anche per questa ragione, o forse in primo luogo per questa ragione, io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile. A un passo di lì ci sono quel dolore, quelle paure. Lo so, ma non posso far nulla per condividerlo, per sentirlo, per renderlo comunicabile. Non lo è né lo sarà mai. Come non è veramente condivisibile alcuna sofferenza al mondo, del resto. [...]
Ma ovviamente l’oblio non è una terapia culturale accettabile. Viviamo in un tempo che celebra la memoria come valore e l’oblio come difetto. Ricordare è un bene di per sé. Siamo portati a considerare questo come un assunto indiscutibile. Ma forse non è così. Forse anche le società hanno bisogno di dimenticare – le ferite, i torti perpetrati e quelli subiti. Come l’individuo, che per riprendersi deve rimuovere i traumi almeno in parte, almeno per un certo tempo.

Al di là di questo, il GdM sta dimostrando, purtroppo, che la memoria non porta necessariamente un segno positivo, non è utile o benefica di per sé. Può rivoltarsi e diventare velenosa. Scatenare il peggio invece di una presa di coscienza. Come aiuta molti a capire, come fa opera istruttiva, così il GdM è diventato il pretesto per sfogare il peggio, per riaccanirsi contro quelle vittime, per dimostrare che sapere non rende necessariamente migliori. Di fronte ad alcuni, diffusi fenomeni, la reazione istintiva è ormai quella di rammaricarsi della conoscenza acquisita: se circolasse meno memoria, se di Shoah non si parlasse tanto e disinvoltamente, forse si eviterebbero esternazioni verbali – e a volte non solo verbali – che sono un insulto rivolto a tutti. Ai morti, ai sopravvissuti, ma soprattutto alla società civile contemporanea. In sostanza, in questi ultimi anni la memoria non si è dimostrata particolarmente terapeutica: se di certe cose si parla molto più che in passato, è anche vero che non di rado se ne parla offendendo la memoria – sempre che abbia senso, l’espressione «offendere la memoria»: caso mai si offendono i vivi, perché i morti, purtroppo per loro, non si offendono più. È quasi come se la celebrazione della memoria avesse autorizzato la sua stessa violazione. Per questo ogni tanto il silenzio sarebbe auspicabile.
Ma la violazione peggiore, quella più grave e sicuramente più gravida di conseguenze, è quella di considerare il GdM come l’occasione di un tributo agli ebrei, un postumo e ovviamente simbolico risarcimento.
Non è, non dovrebbe essere nulla di tutto questo.
Il GdM riguarda tutti, fuorché gli ebrei che in questa storia hanno messo i morti. Che non l’hanno ispirata, ideata, costruita e messa in atto. Che non l’hanno neanche vista, in fondo: ci sono precipitati dentro. Era buio. Gli altri sì che hanno visto. È questo sguardo che dovrebbe celebrarsi nel GdM. Allora nel presente, oggi verso il passato.
E non è uno sguardo nemmeno consolatorio. [...] Ma non certo per far sì che non accada mai più. La memoria non porta con sé alcuna speranza. La cognizione del male non è un vaccino. «Ricordare perché non accada mai più» è una frase vuota. Se anche non dovesse accadere mai più, non sarà per merito della memoria, ma del caso.

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