Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/01/2014, a pag. 11, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Iraq, nuovo rebus per l’America. Aiuti per contrastare Al Qaeda ". Da REPUBBLICA, a pag. 14, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo " La rinascita di Al Qaeda: ora la strategia del terrore riparte da Siria e Iraq ", l'intervista di Alix Van Buren a Bruce Reidel dal titolo " Quel sogno di califfato che spazza via i vecchi confini ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Iraq, nuovo rebus per l’America. Aiuti per contrastare Al Qaeda "
Guido Olimpio
WASHINGTON — Colin Powell, che pure aveva ratificato come segretario di Stato l’invasione di Bush, era stato molto chiaro sull’Iraq: «You break it, you own it», vale a dire, «una volta che lo hai rotto, i cocci sono tuoi». Era dieci anni fa. E i cocci non hanno mai finito di rompersi in quel Paese, anche se oggi gli Usa vorrebbero tenersi alla larga. Ieri lo ha ribadito l’uomo che guida il Dipartimento di Stato, John Kerry: è la «loro» guerra, non la nostra, però siamo pronti ad aiutarli contro i successi di Al Qaeda.
Washington ha escluso il ricorso alle truppe, ha già inviato dei missili, fornito dati di intelligence e promesso droni da ricognizione. Troppo poco per fermare un movimento ben organizzato e coeso. Servirebbero i droni veri, quelli con gli artigli. Reaper e Predator, in grado di esercitare una pressione continua sui militanti. La Casa Bianca, dopo molte resistenze, potrebbe autorizzarne l’impiego usando la Giordania come punto d’appoggio. Però tutti hanno ben chiaro che sono solo un mezzo. Il «mietitore di Obama» è un’arma e non una strategia in una regione che si è decomposta tra spinte incontenibili, errori, guai cronici.
Gli Usa si sono illusi (o hanno finto di farlo) che le autorità locali fossero in grado di gestire la situazione dopo che proprio le forze americane, con l’aiuto delle milizie locali, avevano ridimensionato l’Isis, la sigla che rappresenta i qaedisti in Iraq. Al tempo stesso la dottrina obamiana ha portato gli Stati Uniti ad una estrema diffidenza verso una regione che porta solo disastri. La Casa Bianca, per dirla brutalmente, non voleva altre rogne irachene. Al tempo stesso gli Stati Uniti hanno imboccato un sentiero ambiguo.
Vogliono contenere l’Iran sciita senza perdere di vista le vie del dialogo e, al tempo stesso, combattere il radicalismo sunnita alimentato da sauditi e kuwaitiani, ossia dagli «amici» storici dell’America.
La confusione statunitense si è saldata con l’inettitudine dei dirigenti di Bagdad, sciiti e quindi vicini a Teheran, e la spirale violenta della rivolta in Siria. L’Iraq, pur disponendo di un apparato di oltre 900 mila uomini, ha ceduto progressivamente terreno all’Isis, rinvigorito da quanto avveniva nello scacchiere siriano e riorganizzato da Abu Bakr Al Baghdadi, il leader chiamato a rilanciare la formazione qaedista dopo la perdita di molti esponenti. E nel luglio 2012 ha lanciato la campagna per la «Distruzione del muro» contro il potere sciita a Bagdad. I suoi uomini non si sono più fermati. Anzi, hanno allargato il raggio d’azione in Siria favorendo la nascita di formazioni affini. Il progetto è la nascita di un Emirato sunnita che comprende una parte dell’Iraq, le aree «liberate» sul territorio siriano e magari raggiungerà domani il Libano dove operano frange estremiste. Il gigantesco vuoto di potere creato dalla caduta dei dittatori e dall’instabilità permanente, l’inasprirsi del duello sciiti-sunniti, la facilità nell’uso della violenza (perché paga) hanno rappresentato le condizioni per la tempesta perfetta. Il momento propizio per i qaedisti, capaci come pochi di inserirsi nello spazio.
Chi tiene la contabilità del terrore ha calcolato che l’Isis ha raggiunto una media di 68 autobomba al mese. La pausa tra un attacco massiccio e l’altro si è ridotta ad una settimana, una finestra «riempita» con azioni minori ma comunque devastanti. I kamikaze, usciti a dozzine dalla fabbrica della morte, hanno affinato le loro tattiche infiltrando pellegrini e forze armate. Il flusso di armi proveniente dalla Siria ha permesso ai mujaheddin un salto di qualità nella guerriglia, così come i fondi dal Golfo hanno allargato il forziere del movimento. Talpe all’interno dell’establishment militare hanno favorito trappole complesse. E, in chiusura, è arrivata la conquista di Ramadi e Falluja. Luoghi con un doppio ricordo per gli americani. Qui i marines hanno combattuto non troppo tempo fa. Qui giacciono le vite spezzate da una guerra mai finita e che non doveva essere mai iniziata.
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " La rinascita di Al Qaeda: ora la strategia del terrore riparte da Siria e Iraq "
Alberto Stabile
BEIRUT — La vittoria più sorprendente, un vero capovolgimento della storia, è arrivata in questi giorni, quando i miliziani dello stato Islamico dell’Iraq e del Levante, Isil, sono riusciti a piantare le bandiere nere di Al Qaeda su Falluja e Ramadi, le due città roccaforti della minoranza sunnita irachena, per strappare le quali dalle mani dei jihadisti gli Stati Uniti avevano bruciato miliardi di dollari e sacrificato la vita di migliaia di soldati e di civili iracheni nella cosiddetta “war on terror”, la guerra al terrorismo scatenata da George W. Bush contro l’organizzazione di Osama Bin Laden. Evidentemente, la morte del capo supremo ha scosso ma non piegato la capacità combattiva del gruppo che torna improvvisamente a rappresentare una minaccia globale.
Siria e Iraq sono oggi il campo di battaglia principale in cui l’estre-mismo radicale sunnita ha deciso di lanciare la sua rinnovata sfida: innanzitutto, all’altra grande, seppur minoritaria, componente del popolo musulmano, gli sciiti, considerati degli eretici indegni di appartenere alla Umma, la comunità islamica; in secondo luogo ai “crociati”, vale a dire all’Occidente guidato dalla superpotenza americana cui non resta che piegarsi al disegno di riportare in auge il califfato di Omar (VIII secolo d. c.) o perire.
I nemici non mancano: sciiti sono, infatti, gli Hezbollah che combattono a fianco delle truppe fedeli a Bashar el Assad, assieme alle milizie sciite irachene e ai “consiglieri” inviati in aiuto del raìs di Damasco dalla potenza regionale sciita per eccellenza, l’Iran. Sciita è il primo ministro iracheno Nouri al Maliqi, accusato (non senza fondamento) di aver messo in atto una politica discriminatoria nei confronti della minoranza sunnita irachena. E anche se la famiglia di Bashar el Assad appartiene alla setta alawita, si tratta pur sempre di una ramificazione eterodossa dello sciismo.
Forte di 5000 effettivi (che hanno prestato giuramento di fedeltà) e dell’alleanza con un altro gruppo jihadista, Jabat al Nustra, l’Isil e i suoi alleati sarebbero riusciti acreare una zona sicura nella terra senza legge al confine tra Siria e Iraq, da dove dirigono le operazioni, spostano uomini e mezzi, decidono gli attentati e le azioni di guerra.
Così pare che i jihadisti siano riusciti ad infiltrare decine di attentatori suicidi anche in Libano. Giovani destinati al martirio e pronti adentrare in azione, come è successo con il doppio attentato del 19 novembre contro l’ambasciata iraniana a Beirut (25 morti, oltre 150 feriti), cui la settimana scorsa è seguito un altro attacco suicida nella roccaforte degli Hezbollah, il quartiere di Dahyeh, a Sud di Beirut, (5 morti, 70 feriti) vicino ai palazzi della nomenclatura del Partiti di Dio.
Qualche volta sono i jihadisti a subire dei colpi. Ma non sempre i nemici ne sanno approfittare. Majed bin Mohammed al Majed, il terrorista saudita a capo delle Brigate “Abdallah Azzam” che aveva rivendicato su Twitter l’attentato all’ambasciata iraniana ed era stato arrestato nel campo profughi palestinese di Ein al Hilweh, a Sidone,avrebbe potuto rappresentare una fonte preziosa di informazioni. Invece, è morto improvvisamente per insufficienza renale mentre era nelle mani delle autorità libanesi. Mistero La struttura organizzativa della rete, simile ad una chiave a stella guidata da un comando generale, permette alla “rete” terroristica globale di essere presente e attiva su molti fronti. Uno può momentaneamente spegnersi, come ad esempio nello Yemen, ma un altro si accende: in Pakistan, nel Mali, nel deserto algerino, in Somalia, dove gli Shabab sopravvivono alle divisioni interne e agli assassini mirati dei loro capi, in Sinai, da dove i qaedisti muovono guerra al regime egiziano, nel Caucaso russo dove danno corpo agli incubi di Putin in vista delle Olimpiadi invernali di Sochi.
Un recente studio sulla efficacia organizzativa di Al Qaeda attribuisce la sua capacità di mantenersi attiva e minacciosa al miglioramento del suo servizio di counterintelligence, il controspionaggio. Ma bisogna aggiungere che la sua popolarità presso le masse islamiche sunnite non è affatto scemata, anzi, con la guerra in Siria è aumentata. E’ grazie alla crisi siriana che l’Islam radicale ha potuto godere di nuovi aiuti militari ed economici dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del golfo che hanno inteso opporsi all’indifferenza dell’Occidente verso la rivolta contro Assad, finanziando quelli che consideravano fino a ieri i loro peggiori nemici.
La REPUBBLICA - Alix Van Buren : " Quel sogno di califfato che spazza via i vecchi confini "
Bruce Reidel
«La terza generazione di Al Qaeda, all’ennesima potenza, prospera attraverso il mondo arabo: dalla Fertile mezzaluna allo Yemen, dalla Libia all’Egitto, vecchie frontiere svaporano nel disegno estremista di un unico Califfato. E noi, l’Occidente, stiamo a guardare mentre la casa è divorata dalle fiamme».
Dal suo pulpito di ex analista Cia, esperto di Intelligence alla Brookings e consulente della Casa Bianca, Bruce Reidel non tenta affatto di addolcire «il cupo orizzonte » che va dipingendo.
Professore Reidel, qual è il nuovo epicentrodel jihadismo?
«È la Fertile mezzaluna, dove il ramo di Al Qaeda più pericoloso e violento si è radicato in un santuario che va da Bagdad aDamasco a Beirut, con celle dormienti ad Amman: un unico grande campo dove si combatte la guerra civile fra sciiti e sunniti. I jihadisti dello Stato islamico di Iraq e Al Sham si spostano liberamente. Hanno cancellato i confini di Sykes-Picot tracciati da Londra e Parigi dopo la Prima guerra mondiale».
C’è il rischio di un califfato islamico nell’ultimo avamposto storico d’Occidente?
«La Siria è la calamita anche di gruppi indipendenti, affiliati ad Al Qaeda. Attira combattenti dall’Arabia Saudita, dai Paesi islamici fino a Malaysia, Indonesia, Pakistan e Afghanistan con un buon numero di Taliban. Se questi consolideranno la presa, sposteranno l’obiettivo su Israele, l’Europa e l’America. E c’è un secondo epicentro ».
Quale?
«L’Egitto può rivelarsi ancora più esplosivo. È il Paese più popoloso del mondo arabo con 80 milioni di abitanti, e il terrorismo dilaga dal Cairo ad Alessandria. L’ira e l’umiliazione del popolo, che aveva votato per il presidente islamista Morsi o aveva creduto nella Primavera araba, alimenta il qaedismo, cioè l’idea che solo la jihad violenta porti un cambiamento, e non la democrazia, che ha fallito. Bin Laden predicava proprio questo, e l’Egitto è il trofeo più ambito da al-Zawahiri, il successore».
Ci sono responsabilità da attribuire, a suo avviso?
«In primo luogo c’è il fallimento delle Primavere arabe: le speranze in governi riformisti sono naufragate fra guerre civili, caos, controrivoluzioni. Una parte l’hanno anche Paesi come l’Arabia Saudita, che coltivano rapporti complessi con Al Qaeda: bandita in casa ma incoraggiata in Siria, contro Hezbollah e l’Iran. Molti jihadisti condividono l’ideologia wahabita nata in Arabia un secolo fa».
La Turchia ha una parte?
«Ha aperto il passaggio di armi e combattenti verso la Siria. Il governo non ha un’ideologia estremista quanto i wahabiti ma non frena l’espansione di Al Qaeda. È un gioco pericoloso: è impossibile controllarnel’esito».
Quale sarà l’esito, secondo lei?
«Bisognerà attendere l’evoluzione delle Primavere arabe. Il qaedismo avanzerà. L’Occidente, stanco di guerre, consapevole d’avere perso influenza, non invierà eserciti. Tenterà la diplomazia. Ma il vaso di Pandora è già scoperchiato».
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