Egitto: il momento della verità
Analisi di Mordechai Kedar
(Traduzione dall'ebraico di Sally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz)
Martedì 24 dicembre 2013 gli abitanti della città di al-Mansoura, capoluogo del Governatorato di Dakahlia, nella parte settentrionale del delta del Nilo, sono stati svegliati da una violenta esplosione che si è sentita a venti km dal centro della città. La deflagrazione dell’autobomba carica di esplosivi ha colpito la sede della Polizia regionale, ucciso 14 poliziotti e causato più di cento feriti.
I gravi danni ai palazzi vicini testimoniano la potenza dell’ordigno. Fino al momento in cui scrivo, nessuna organizzazione ha rivendicato la responsabilità dell’attacco, ma il giorno precedente il salafita Ansar Bayt al-Maqdis (Sostenitori di Gerusalemme) aveva lanciato un avvertimento agli addetti alla Sicurezza, accusandoli di essere infedeli poiché collaborano con un regime laico.
E’ comunque certo che l’attacco è stato opera di professionisti, jihadisti molto ben addestrati, con un solido centro di Intelligence e infrastrutture tecnicamente avanzate. Il Governo egiziano ha immediatamente portato al massimo il livello di allerta in tutte le stazioni di Polizia, nei centri di sicurezza e nelle istituzioni governative di tutto il Paese. Infatti lo stile operativo delle organizzazioni jihadiste è quello di sferrare una serie di attentati programmati uno vicino all’altro, in modo da intensificare il terrore nella popolazione.
Ma il Paese non è in grado di proteggere totalmente le sue istituzioni senza ledere la libertà di movimento della popolazione. Se si decidesse di imporre il coprifuoco la sera, come avvenne dopo la rivolta del gennaio 2011, ne farebbero le spese i venditori ambulanti più poveri, che vendono le loro mercanzie per le strade a tutte le ore, soprattutto la sera, piuttosto che i negozi, e il Governo non vuole che si crei un clima di ostilità tra di loro. Chi sono i responsabili dell’attacco? Ci sono due candidati naturali. Il primo è un gruppo di jihadisti che ha base nel Sinai, che negli ultimi sei mesi ha subìto numerosi colpi per opera dell’esercito, ma non in modo tale da essere eliminato definitivamente. Il secondo potrebbe essere una qualsiasi organizzazione attiva in Egitto, non nel Sinai, che combatte con l’uso della violenza contro la deposizione del Presidente Morsi. Il movimento dei Fratelli Musulmani, dal canto suo, ha condannato l’attacco. Ci sono poi quelli che considerano la condanna come appropriata, sostenendo che il movimento non è interessato a intensificare la battaglia con il regime, per cui non possono essere definiti una organizzazione terroristica, e quindi essere esposti a misure punitive.
Poi ci sono quelli che considerano la condanna solo come un’adesione formale, poiché secondo quanto sostengono, il movimento è ostile con il regime che ha deposto Morsi e portato in tribunale i capi della Fratellanza con accuse definite false. Sei mesi fa, il 4 luglio 2013, il giorno dopo che l’esercito aveva deposto il Presidente eletto Mohamed Morsi, io avevo pubblicato su queste colonne un articolo dal titolo “Il momento della verità si avvicina”, in cui si legge:
“ I nomi di organizzazioni quali “al-Takfir wal-hijra” (Scomunica ed esodo) e “al-Nagun min al-Nar” ( La salvezza dagli inferi) terrorizzano gli ufficiali più anziani della polizia egiziana, poiché questi ultimi sanno bene che molti egiziani s’identificano con le idee radicali di queste organizzazioni, capaci quindi di far esplodere delle autobombe e commettere assassinii di massa tra coloro che essi sospettano di corresponsabilità nell’aver tolto il potere ai Fratelli Musulmani, dopo che questi avevano vinto le elezioni democratiche in modo legittimo e pulito”.
Non sono un profeta, le autobombe sono un mezzo diffuso in tutto il Medio Oriente, dall’Iraq all’oceano Atlantico, dalla Siria alla Somalia, per esprimere rabbia e risentimento contro un regime o contro chiunque sia inviso solo perché appartiene a una religione, comunità o gruppo etnico o tribale diversi. Usare un’autobomba consente l’uso di grandi cariche di esplosivo in un luogo molto vicino al bersaglio senza destare sospetti; l’effetto che si ottiene, a persone o a proprietà, e influenza sull’opinione pubblica, è enorme.
E’ così in Medio Oriente, e ciò che è successo martedì mattina ad al-Mansoura non è fondamentalmente diverso da quello che sta succedendo in tutta l’area. Del resto l’uso dell’auto-bomba non è una novità per l’Egitto: circa tre anni fa, nella notte del primo gennaio 2011, un’auto-bomba era esplosa davanti ad una chiesa ad Alessandria e trenta cristiani che stavano uscendo dopo la messa di vigilia del nuovo anno furono uccisi. Questa volta però l’autobomba non era indirizzata a colpire cristiani, ma contro musulmani, non contro una minoranza religiosa ma contro un simbolo del regime: il palazzo amministrativo della polizia di Dakahlia.
Dopo l’attacco, i media egiziani si sono mobilitati come in guerra, dal momento che “il fine giustifica i mezzi”: i gruppi islamici, dai Fratelli Musulmani fino alle organizzazioni terroristiche attive in Egitto e nel Sinai, sono stati presi di mira come il nemico da colpire, e la loro religione, secondo i portavoce del governo, non è l’Islam, perché l’Islam non ammette che vengano uccisi dei musulmani. Nessuno dei media egiziani ufficiali prova a esprimere comprensione per le ragioni degli aggressori o alcuna giustificazione per l’ attacco al regime.
Sono semplicemente l’incarnazione del Male, “il terrore nero” per dirla con un’espressione egiziana. I media non danno spazio a chi cerca di giustificarli, perché il popolo sa molto bene che l’Egitto, come società e come Stato, riuscirà a resistere al radicalismo islamico solo se avrà il consenso della maggioranza degli egiziani, per poter scatenare una guerra totale, per vincerlo e distruggerlo definitivamente.
Nell’ambito della guerra mediatica contro i Fratelli Musulmani e i loro sostenitori, lo Sceicco di al-Azhar, parlando in un programma radiofonico, ha ribadito ciò che ripete da circa dieci anni: colui che si fa saltare in aria per uccidere altri, non è un martire ma un assassino, che andrà nell’inferno per l’eternità, e il suo atto non è ispirato all’ istashhad (intenzione del martirio) ma è un omicidio per il quale sarà giudicato con estrema severità.
La radio egiziana cita anche i saggi religiosi dell’Arabia Saudita, Paese considerato leader della corrente salafita dell’Islam, che vietano ogni forma di terrorismo, in particolare gli attacchi suicidi. Quella tra i sostenitori dell’Islam politico, guidato dai Fratelli Musulmani, e i loro oppositori è una battaglia per vincere la posta in gioco: non solo perché erano stati deposti dalla presidenza dopo che avevano vinto in legittime elezioni, ma per le centinaia di loro sostenitori che durante le manifestazioni in Piazza al-Rabaa al-Adawiya, sono stati gettati in carcere. In celle infestate da blatte, giacciono in umilianti condizioni di sovraffollamento, dove non vedono la luce del giorno e dove molti hanno iniziato uno sciopero della fame.
Il regime considera i fratelli Musulmani e i loro sostenitori come terroristi, ecco perché si comportano come loro.
La costituzione
E’ importante anche la motivazione storica dell’attacco: è probabile che a metà gennaio si terrà in Egitto un referendum per l’approvazione della nuova costituzione, scritta da un comitato di cinque intellettuali, per sostituire la precedente filo-islamica voluta da Morsi.
L’auto-bomba aveva lo scopo di impaurire la popolazione minacciando attacchi terroristici, per dissuaderla così dal mettersi in fila ai seggi elettorali. I gruppi islamici sono divisi su come affrontare il referendum: la Fratellanza Musulmana e le altre organizzazioni che l’appoggiano sono contrarie a partecipare a un referendum che garantirebbe al regime attuale e alle sue azioni il consenso popolare. Ecco perchè premono perchè gli egiziani che non lo approvano boicottino il referendum. Inoltre la Fratellanza non approva che nella prima bozza della nuova costituzione, venga assegnato all’esercito e al Presidente più potere a spese del Parlamento. Sono contrari all’autorizzazione a porre i civili sotto l’autorità di un tribunale militare e al divieto ai partiti d’ispirazione religiosa o etnica, perché credono - e in larga misura a ragione - che questa costituzione riporterà l’Egitto ai tempi bui di Mubarak, negando in questa maniera le conquiste della rivoluzione del 25 gennaio 2011 che consentì alla Fratellanza la conquista del Parlamento e la presidenza.
Sull’altro fronte, i Salafiti, che si oppongono alla Fratellanza, pensano invece che si debba partecipare al referendum e approvare la costituzione, in modo da indebolire il prestigio della Fratellanza. Ciascuna parte arruola autorità religiose che emettano editti secondo la Shasri’a, a sostegno delle loro posizioni. Tuttavia è importante notare che, anche tra la popolazione liberale e laica, ci sono molti contrari alla costituzione per i limiti che pone al diritto di dimostrare, alla libertà di parola e di espressione.
Recentemente alcuni attivisti dei diritti umani – uomini e donne – sono stati condannati al carcere per dimostrazioni contro il regime a causa della pubblicazione su internet di articoli contrari ad iniziative del governo.
Anche se la costituzione sarà approvata, con la formazione di un Parlamento e del Presidente, ci saranno molti – liberali e islamici – che non accetteranno i risultati, denunceranno frodi e agiranno in modi anche illegali per destabilizzare il paese.
Nei giorni scorsi per le strade dell’Egitto circolavano diverse voci, che ci siano gruppi che stanno distribuendo false versioni sul progetto di costituzione, in modo da spingere i cittadini a votare in modo diverso da quello che sceglierebbero sulla base della versione reale. Un'altra, che il generale al-Sisi sia stato ucciso in un attacco terroristico due mesi fa e che il regime l’ha sostituito con un sosia che gli assomiglia e parla come lui.
Questa voce rende credibile la candidatura del generale al-Sisi alla presidenza.
La situazione araba
L’attacco terroristico di al-Mansoura non può essere visto separatamente dagli avvenimenti che stanno avvenendo nel mondo arabo: la terribile distruzione del Paese e l’inconcepibile sofferenza che ha colpito i cittadini siriani, il gran numero di attacchi terroristici che avvengono quasi giornalmente in Iraq, la guerra senza fine tra le tribù in Libia, e negli ultimi giorni la guerra tra le tribù nella Repubblica del Sudan del Sud. Tutti questi avvenimenti vengono ampiamente diffusi dai media e la realtà che presentano è “ il mondo è un campo di battaglia e tutti i popoli si stanno combattendo”.
Con la situazione interna in Egitto sempre più drammatica e quella esterna che incombe, con crisi che aumentano sempre d’intensità nella regione, si affievolisce la possibilità che la gente cominci a pensare su basi razionali. S’intensificano le reazioni emotive, aumenta la scelta della vendetta.
La “ Primavera Araba “ ha eliminato gli esponenti dell’elite che aveva gestitoil potrere in questi paesi, lasciando le popolazioni nelle mani di personaggi estremisti che non hanno avuto nessuno scrupolo a imporre il loro potere.
Il Medio Oriente sembra una palude ribollente di fuoco, sangue e lacrime, e Israele deve mantenersi distante da questo calderone infuocato. La realtà prova che non è Israele il problema del Medio Oriente, ma la politica e la cultura dei paesi musulmani. Allah nella sua saggezza scrisse nel Corano: “ Allah non cambia quello che è nell’anima della gente, fino a quando la gente non cambia quello che è nella sua propria anima “ (sura 13, versetto 11)
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
Link: http://eightstatesolution.com/
http://mordechaikedar.com/