Riprendiamo dalla STAMPA del 28/11/2013, a pag.39 la recensione al film “Wolf” proiettato al Torino Film Festival, regia di Claudio Giovannesi con la partecipazione alla sceneggiatura di David Meghnagi:
David Meghnagi con Wolf Murmelstein
Per dire che le colpe dei padri ricadono sui figli, che non c’è modo di sfuggire all’eredità del passato, che non c’è pace per chi è cresciuto all’ombra dell’orrore nazista. Diretto da Claudio Giovannesi, classe 1978, regista, l’anno scorso, del premiatissimo Alì ha gli occhi azzurri, Wolf ricostruisce il tormentato percorso esistenziale di Wolf Murmelstein, figlio di Benjamin, «Le dernier des injustes», protagonista dell’ultimo film di Claude Lanzmann in cartellone al Tff dopo l’anteprima all’ultimo Festival di Cannes. Alla fine della guerra i Murmelstein si trasferirono a Roma dove furono emarginati dalla Comunità ebraica. Per Wolf iniziò, da quel momento, un’esistenza interamente «occupata dalla vita del padre». Il documentario segue l’itinerario dei suoi dialoghi con lo psicanalista David Meghnagi, esperto della psicologia dei sopravvissuti alla Shoah: « Non volevo realizzare un altro film sull’Olocausto - spiega Giovannesi -, m’interessavano piuttosto i temi legati al conflitto interiore di Wolf, l’isolamento di un uomo dalla propria comunità, il significato della colpa in assenza di libero arbitrio....». Senza mostrare sedute di analisi con Meghnagi, cosa che per motivi di deontologia professionale non sarebbe mai potuta accadere, il film (prodotto da Istituto Luce Cinecittà con la Repubblica Ceca, in uscita nei primi mesi del 2014) descrive soprattutto una relazione umana, il tentativo dello psicanalista di «lenire un trauma, di pacificare il rapporto tra un figlio e la figura di suo padre». La narrazione è divisa in due capitoli, nel primo c’è la storia del rabbino Murmelstein dal «momento in cui i nazisti lo misero a capo del ghetto di Terezin, fino alle accuse di collaborazionismo e all’emarginazione da parte della comunità ebraica». Nel secondo «l’ossessione di Wolf» e i tentativi per superarla: «Nessuno poteva disobbedire all’ordine dei nazisti - ripete più volte il protagonista del film - , la pena era lo sterminio della famiglia». Il senso di emarginazione ha spinto Wolf nel territorio dell’isolamento totale. Tutta una vita nel buio di un incubo.
Abbiamo chiesto a David Meghnagi un commento che aiuti a capire la natura della tragedia che si è sviluppata intorno allo ‘Judenrath”, ovvero il Consiglio ebraico imposto dai nazisti nei paesi occupati.
Eccolo:
David Meghnagi Terezin, l'ingresso del campo
Dopo essere stati sterminati nel silenzio del mondo, i sopravvissuti sono stati accusati per lungo tempo di non essersi difesi, peggio di avere collaborato alla loro autodistruzione.
Alla tragedia seguì la beffa e solo dopo il Processo Eichmann, reso possibile da un’azione eroica dei servizi segreti israeliani, le cose cominciarono a cambiare.
In realtà l’accusa falsa ai sopravvissuti era un comodo alibi per non interrogarsi sulle cause profonde della tragedia e sulle sue sequenze più inquietanti. Gettando fango sulle vittime, si cancellava la realtà più profonda dello sterminio. Lo si banalizzava.
Un esempio di questa perversa logica è stata la tentazione di inscrivere l’azione disperata dei Consigli ebraici nell’Europa occupata da nazisti in quella del collaborazionismo. Chi collabora col nemico lo fa per scelta. Tradisce la sua gente per avere dei vantaggi. I Consigli ebraici erano al contrario imposti dai nazisti. Dopo avere sciolto d’ufficio le leadership ebraiche, i nazisti nominavano d’ufficio delle persone che dovevano eseguire i loro ordini.
Si trattava di prigionieri che venivano picchiati regolarmente e umiliati. Erano anche loro destinati a morire anche se dopo gli altri. Chi rifiutava era ucciso sul posto insieme ai famigliari. Intrappolati dentro la macchina di distruzione nazista, isolati dal resto del mondo, che aveva altro cui pensare ed era indifferente alle sorti degli ebrei, gli esponenti dei Consigli si trovarono ad agire in situazioni impossibili. Artur Zigelboim, un alto esponente del Bund, si dette alla macchia. Era un alto leader della resistenza, un eroe dello spirito che rientrò più volte nel ghetto di Varsavia per dare informazioni ai compagni e riceverne notizie. Come lui i combattenti della resistenza se avessero voluto, avrebbero potuto salvarsi. Restarono nei ghetti e combatterono sino alla fine, non per la vita, ma per una morte diversa. La scelta era disperata. L’alternativa era di morire ad Auschwitz o bruciati dai lanciafiamme nazisti.
La resistenza polacca stette a guardare. I tempi per la sollevazione di Varsavia non erano “maturi” e quando ai suoi occhi i tempi maturarono, l’esercito sovietico ormai alle porte di Varsavia non intervenne lasciando che i nazisti facessero “per procura” un “lavoro utile” per il dopoguerra.
Nel corso della guerra per non dare adito all’accusa nazista che la guerra si combattesse esclusivamente per gli ebrei, per indifferenza o per antisemitismo, l’idea di bombardare le ferrovie che conducevano ad Auschwitz non fu mai presa in seria considerazione. Qualunque azione che non avesse un obiettivo specificamente militare, o che potesse “rallentare” la fine della guerra, era da scartare. Nemmeno la minaccia di bombardare più a fondo le città tedesche, o per contrasto la possibilità di risparmiarle nel caso si fossero ribellate contro lo sterminio nei campi, fu mai presa in seria considerazione. Per le stesse ragioni, le forze della Resistenza non furono mai chiamate ad agire per salvare gli ebrei. La salvezza degli ebrei era per gli Alleati un obiettivo che veniva dopo.
Eppure il bombardamento delle reti ferroviarie che portavano ad Auschwitz, la disarticolazione delle retrovie naziste attraverso appelli alla Resistenza per azioni di sabotaggio, unite ad azioni militari mirate, soprattutto tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944 quando era chiaro l’esito della guerra, avrebbero potuto salvare decine di migliaia di persone e rafforzare i nuclei del- la Resistenza affrettando la sollevazione delle popolazioni oppresse in Europa.
Le difficoltà tecniche e l’alto numero di vittime che i bombardamenti sui campi avrebbero comportato senza garanzia di risultati (Novick, 1999) non eliminano il dato più certo e inquietante. Il salvataggio di milioni di persone era un elemento secondario della strategia bellica. L’aviazione alleata non si pose problemi quando si è trattato di bombardare le fabbriche della Buna, situate a pochi chilometri dai campi di sterminio, mentre per questi ultimi si è limitata a fotografare dall’alto. Inoltre, per non rendere pubblica la penetra- zione dei servizi di comunicazione nazista, le radio alleate non denunciarono l’imminente deportazione degli ebrei romani, né chiamarono la Resistenza a danneggiare la rete tranviaria. Nel caso di una denuncia pubblica, difficilmente il Vaticano avrebbe potuto tacere come poi accadde nonostante la gente da deportare fosse stata concentrata a forza a poche centinaia di metri da San Pietro.
Per non “turbare” la pace interna dei popoli entrati a far parte della grande “famiglia sovietica”, bisognava tacere sul fatto che le stragi sul fronte orientale erano state attuate con la compiacenza e la collaborazione di vasta parte delle popolazioni locali. Quando non furono direttamente attuate e per conto proprio.
Quanto all’Italia, dopo l’arresto di Mussolini, Badoglio e il re non abolirono le leggi razziste. Non si preoccuparono di dare indicazioni alle prefetture di distruggere gli elenchi degli ebrei, né di informare le comunità ebraiche dei pericoli cui sta- vano per andare incontro. Dopo l’8 settembre pensarono solo a fuggire lasciando il paese allo sbando. Eppure in quei due mesi le direzioni dell’ebraismo avevano disperatamente fatto pervenire messaggi e richieste al governo e alla Chiesa perché gli ebrei italiani fossero messi in salvo prima che fosse tardi. Bastava che il governo desse il compito di distruggere gli elenchi degli ebrei, che facesse pervenire anche in modo informale il consiglio di darsi alla macchia quanto prima, di fuggire verso sud, perché molte più persone si salvassero.
La presa di coscienza pubblica nella Chiesa, con il conseguente abbandono della teologia del disprezzo, ha avuto inizio dopo la tragedia dello sterminio. È spaventoso a dirsi. Sono morti prima un milione e mezzo di bambini.
Per quanto manchino ancora studi approfonditi in materia (il che può esse- re considerato una spia del problema), la Resistenza non si pose il problema della deportazione degli ebrei, né fu chiamata dagli Alleati a farsene direttamente carico (Maida, 2010). Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) non emanò specifici decreti o minacce contro chi si fosse macchiato di colpe contro gli ebrei. Dopo la guerra fu necessario in molti casi associare il reato di collaborazione al fascismo per condannare chi si era macchiato di delitti contro la popolazione ebraica (Forti, 1998, p. 177). Nella rappresentazione collettiva della cultura progressista europea e italiana degli anni 1950 e inizio an- ni 1960, gli ebrei sopravvissuti erano considerati in primo luogo dei “salvati”. A parte i soldati della “Brigata ebraica” autorizzata dal governo britannico solo sul finire della guerra, gli ebrei in quanto combattenti non esistevano.
Dovettero passare decenni prima che l’immagine stereotipata dell’ebreo che si consegna come “carne da macello” fosse sostituita con altre più fondate. Ma il pregiudizio è tardo a morire. Dopo essere stati accusati di non essersi difesi, gli ebrei possono ritrovarsi di nuovo sul banco di accusa. Salvati dalla “bontà altrui”, diventano “colpevoli” di avere volontariamente rovesciato su altri le sofferenze che hanno in precedenza patito. In questa falsa e perversa logica, le “vittime” di ieri diventano i “carnefici” di oggi. Nel delirio l’antisemitismo può falsamente declinarsi come “antirazzismo”.