Continuano le polemiche sulla sepoltura di Erich Priebke. La posizione di IC l'abbiamo espressa ieri e la riconfermiamo oggi: cremazione e le ceneri nella fogna più vicina.
Unico giornale a difendere Priebke addirittura negando la sua posizione sulla Shoah è LIBERO, con un articolo di Pierangelo Maurizio dal titolo " Il video-testamento: «Alle Ardeatine fu terribile» " che non merita nemmeno di essere riportato, visto il livello.
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 15/10/2013, a pag. 32, l'articolo di Umberto Gentiloni dal titolo " Avete 20 minuti: prendete un po’ di viveri e i bicchieri ", l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Moretto, il boxeur che uccideva le SS a mani nude ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 23, l'articolo di Paolo Brogi dal titolo " Io in fuga dal lager. Uccisero il mio papà prendendolo a calci ". Da FOCUS ON ISRAEL l'intervista di Raffaella Troili a Piero Terracina dal titolo " Piero Terracina: «Se Pio XII avesse fatto un gesto, molti romani si sarebbero salvati» ", l'articolo di Gian Antonio Stella dal titolo " Settimio Calò: una storia che in pochi conoscono ".
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Umberto Gentiloni : " Avete 20 minuti: prendete un po’ di viveri e i bicchieri "
Ebrei romani deportati
«La sera prima ci sono stati dei mitragliamenti, delle bombe a mano con esplosioni, in modo che noi ebrei impauriti rimanessimo a casa senza uscire. Poi la mattina presto. Non abbiamo sentito nulla, neppure le camionette. Non abbiamo visto niente. Mi sono solo sentito bussare alla porta e quando siamo andati ad aprire c’erano le SS con i mitra in mano. Non mi ricordo se erano due o tre persone in divisa. Uno di loro aveva un foglietto in mano».
Lello Di Segni è un sopravvissuto alla retata, lui e Enzo Camerino sono ancora in vita, settant’anni dopo quell’alba; gli attimi di allora sono scolpiti nella sua memoria. Come lui oltre mille i compagni di strada destinatari di una sorte inimmaginabile. L’irruzione in casa senza preavviso, per molti le porte sfondate, terrore e lunghi attimi di attesa alla vista della divisa della polizia.
Poche parole incomprensibili ai più e un biglietto con istruzioni precise: : «1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti. 2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno otto giorni; b) tessere annonarie; c) carta d’identità; d) bicchieri. 3. Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personale, coperte; b) denaro e gioielli. 4. Chiudere a chiave l’appartamento e prendere con sé le chiavi. 5. Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo. 6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto la famiglia deve essere pronta per la partenza».
Venti minuti primi della tragedia, il tempo di chiudere con la vita precedente per piombare increduli e impreparati nel cono d’ombra della deportazione. E’ questo il peso di una giornata cha appare 70 anni dopo in tutta la sua drammaticità. Poche settimane dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 il nostro paese è un teatro di guerra del secondo conflitto mondiale, diviso politicamente e geograficamente attraversato da una cruenta guerra civile. Gli effetti delle leggi discriminatorie del 1938 arrivano fino al tessuto della società romana. A fine settembre la richiesta dell’oro che la comunità ebraica avrebbe dovuto consegnare nel giro di trentasei ore alle autorità tedesche di occupazione (Goldaktion); poi la grande retata in una manovra decisa a tavolino, pianificata in quella zona oscura dove le politiche di sterminio incontrano le forme più diffuse di delazione o tradimento. Tanti vengono venduti per poche lire, altri trovano rifugio presso conventi, abitazioni o luoghi di ritrovo. Alcuni romani collaborano con le direttive naziste altri rischiano la vita per mettere in salvo amici o concittadini.
E’ la guerra nei suoi tornanti e nelle sue scelte irrinunciabili. Tutto ha inizio all’alba del 16 ottobre 1943 con la consegna di quei sinistri bigliettini per concludersi alle due del pomeriggio dello stesso giorno; meno di dieci ore con un’azione fulminea. Il territorio urbano viene diviso in ventisei zone con particolare attenzione all’area del vecchio ghetto che viene isolato e circondato; ma è tutta la città ad essere coinvolta nelle dinamiche della retata. Alle dipendenze di Herbert Kappler e Theodor Dannecker (già responsabile delle deportazioni anti ebraiche in Francia e inviato a Roma direttamente dall’ufficio di Adolf Eichmann) si muovono trecentosessantacinque uomini appartenenti alle truppe di occupazione, coadiuvati dalla questura di Roma e dalla polizia fascista.
Gli esiti sono impressionanti, i numeri impietosi. Secondo il rapporto Kappler durante la retata vengono arrestate 1.259 persone, inviate al collegio militare di via della Lungara nei pressi del carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo dopo una selezione che individua i non ebrei, gli stranieri protetti, i misti, i coniugi di matrimonio misto vengono rilasciate 252 persone. All’alba del 17 ottobre 1943 all’interno del collegio militare nasce un bambino, figlio di Marcella Perugia, rimasto senza nome.
Il numero complessivo dei deportati dovrebbe essere di una decina superiore a quello indicato da Kappler; sono interi nuclei famigliari ad essere raccolti e isolati dal resto della popolazione. Non si poteva certo dividere le famiglie, lacerare i rapporti tra genitori e figli, fratelli e sorelle nel cuore della capitale; meglio scegliere un’altra strada che avrebbe ritardato di qualche giorno il momento della separazione per favorire l’obiettivo di eliminare la presenza ebraica dal tessuto della società romana. Un obiettivo strategico che accomuna almeno dalla fine del 1941 il destino dei territori passati sotto il dominio del terzo Reich.
La mattina del 18 ottobre un convoglio si mette in moto dalla stazione Tiburtina; un tassello della città di Roma viene strappato dal resto della comunità. Ha inizio il viaggio senza ritorno, destinazione Auschwitz-Birkenau, arrivo 22 ottobre 1943. La selezione sulla rampa della morte porta all’arruolamento nel campo di 149 uomini e 47 donne: gli uomini vengono immatricolati con i numeri da 158491 a 158639, le donne con quelli da 66172 a 66218. Tutti gli altri, oltre l’80% di quelli che erano partiti da Roma, vengono uccisi immediatamente con il gas negli impianti di messa a morte di Birkenau. Degli abili al lavoro si salveranno soltanto in sedici: quindici uomini e una donna (Settimia Spizzichino). Degli oltre duecento bambini deportati il 16 ottobre nessuno è tornato indietro; spesso non è rimasto neppure un segno, un’immagine, un oggetto cui far riferimento. Solo di recente l’apertura dell’Archivio della Croce Rossa Internazionale (Bad Arolsen, Germania) ha permesso di portare alla luce tracce di vite spezzate dalla violenza delle politiche di sterminio.
Cosa rimane di quel giorno, della sua memoria? Contributi di vario genere hanno consentito di squarciare il velo che copriva una pagina drammatica della nostra storia indagando sui silenzi, le complicità o le collusioni di chi ha permesso che il disegno omicida si potesse realizzare. Il tempo che ci separa da quel giorno rischia di favorire la retorica di celebrazioni rituali; per dirla con Primo Levi solo una conoscenza consapevole del passato può essere un antidoto alle rimozioni e agli approdi rassicuranti.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Moretto, il boxeur che uccideva le SS a mani nude "
Maurizio Molinari
Quando il 16 ottobre 1943 i tedeschi imprigionarono gli ebrei di Roma ne sfuggì loro uno, che continuerà a braccarli fino all’arrivo degli alleati. Questa è la storia di Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, l’ebreo romano che di fronte alle persecuzioni scelse di battersi. Nasce nel 1921 in una famiglia povera, cresce senza il padre e quando a 17 anni viene discriminato dalle Leggi razziali reagisce iscrivendosi ad una palestra di pugilato, assieme all’amico Angelo Di Porto. Battersi sul ring lo aiuta a sfogare la rabbia e anche ad allenarsi perché davanti ai fascisti non abbassa gli occhi.
A via Arenula lo conoscono tutti. Nel luglio del 1943 sfilano i gagliardetti, impongono il saluto e lui lo rifiuta. Una camicia nera lo affronta, tenta di colpirlo ma lui è più veloce. La seconda volta finisce nella stessa maniera. Lo inseguono e lui si dilegua a Trastevere, che è casa sua. Quando il Gran Consiglio rovescia Mussolini, va a cercare i fascisti nella sede di piazza Mastai.
All’arrivo dei tedeschi l’8 settembre parte verso le Marche, assieme a cinque amici, e quando vengono a sapere della razzia del 16 ottobre torna indietro. Arriva a Roma a piedi, si finge sfollato andando ad abitare in una vecchia casa in via Sant’Angelo in Pescheria. Gira per Portico d’Ottavia trasformato in deserto, guarda le case vuote dove prima vivevano parenti, amici, compagni di scuola. E decide di restare.
Sfida la sorte andando ad abitare nella sua vera casa. Vive sotto il naso di tedeschi e bande fasciste che mangiano al ristorante «Il fantino». Ne studia i movimenti e quando può, anche da solo, li aggredisce. Usa le armi da fuoco, che sa usare e smontare.
La polizia fascista gli dà la caccia e l’1 aprile lo cattura, grazie ad una spiata. Lo portano al comando di piazza Farnese assieme ad altri quattro ebrei. Sa cosa lo aspetta. Finge un malore, si fa portare in una stanza con la finestra e salta dal secondo piano. Lo seguono Salvatore Pavoncello, Angelo Di Porto e Angelo Terracina. Non lo fanno Angelo Sed ed un altro, entrambi moriranno ad Auschwitz. La caduta è pesante, si rompe un polso, arriva a Monteverde con un amico sulle spalle e si nasconde in un garage. Cammina per la città a piacimento, pur sapendo di essere braccato.
I tedeschi lo prendono a corso Vittorio e lo portano alla Magliana. Sa che vogliono ucciderlo ma sul retro dell’auto militare c’è un tubo di ferro. Quando aprono le porte per farlo scendere, è lui che li sorprende, colpendoli a sangue, per fuggire ancora.
I tedeschi gli attribuiscono l’uccisione, con armi e a mani nude, di più militari ed SS. Davanti al bar Grandicelli lo bloccano e finisce a via Tasso. L’interrogatorio è brutale. Vogliono sapere dove si trovano altri ebrei, ma lui non parla. «Finì che avevo le ossa rotte, ero coperto di sangue» ricorderà.
Trasferito a Regina Coeli il 4 maggio 1944, vi resta fino al 20, quando lo fanno salire con altri ebrei su camion diretti al Nord. E’ l’inizio della deportazione. Appena in aperta campagna, Moretto non ci pensa due volte. Si getta sfruttando una curva ampia. Lo segue il cugino Leone, 20 anni, che viene falciato dalle mitragliate.
Moretto non va a Sud, dove ci sono gli alleati, ma torna a Roma. E’ un amico non ebreo di Testaccio che gli dà rifugio. Si unisce ai partigiani e su ordine del Comitato di liberazione presidia Ponte Sublicio per evitare che i tedeschi possano minarlo. Fino all’arrivo degli alleati. Moretto va loro incontro il 3 giugno, aiutandoli a eliminare i cecchini tedeschi. Da quando Roma diventa libera ha bisogno di un anno per venire a sapere dei lager, della fine di famigliari e amici. Sceglie di trasmettere alle nuove generazioni la determinazione a battersi a viso aperto. «Per dimostrare che la nostra comunità è fatta non solo di lacrime e sangue ma di coraggio e orgoglio» come riassume la moglie Ada, detta «Anita» in omaggio al carattere garibaldino di Moretto, scomparso nel 2006.
CORRIERE della SERA - Paolo Brogi : " Io in fuga dal lager. Uccisero il mio papà prendendolo a calci "
Enzo Camerino
Si è salvato perché nella notte buia di quel gelato marzo tedesco del ‘45 tentò il tutto per tutto e durante la marcia della morte partita dal lager di Buchenwald scappò in mezzo a un bosco. Lo sguardo di Enzo Camerino che aveva allora sedici anni è asciutto e fiero. «Dissi a mio fratello Luciano, maggiore di me di due anni, e a Lazzaro Articoli: io scappo, voi che fate? — racconta Enzo, oggi 85 anni, da mezzo secolo ormai in Canada a Montreal, col cuore a Roma però dove la vita della sua famiglia è stata brutalmente spezzata —. Luciano mi rispose: ma quelli ci ammazzano... E io: ma che abbiamo da perdere». Poi presi la rincorsa. E loro? Loro mi vennero dietro...».
Enzo Camerino è uno degli ultimi che possono raccontare il 16 ottobre del ‘43, la razzia del Ghetto e la deportazione degli ebrei romani nei campi di sterminio. Dei sedici superstiti che poi tornarono — su oltre 1.020 (1.022 o 1.024, il numero è rimasto impreciso) ebrei rastrellati e deportati nei campi di sterminio — restano oggi in vita solo in due: Lello Di Segni e lui.
Il Museo della Shoah di Roma ha provveduto a filmare la sua testimonianza solo in questi giorni. Il suo racconto prosegue così: «Attraversammo quei boschi al buio e al freddo, non sapevamo dove stavamo andando, procedevamo a tentoni quando all’improvviso ci fermò un giovane tedesco, un civile, che impugnava una pistola. Sotto la minaccia dell’arma ci trascinò fino all’ufficio di polizia del suo paese. Ma tutt’intorno il cerchio si stava stringendo, americani e russi erano vicinissimi. Ci infilarono allora in un hangar, ma noi riuscivamo ad uscirne per chiedere qualcosa da mangiare alle case intorno. C’era chi dava e chi non dava. Con le coperte trovate nel magazzino ci confezionammo delle specie di vestiti. E poi? Poi approfittando della confusione riuscimmo ad evadere e a piedi, camminando per giorni e notti, ci ritrovammo alla fine a Karlsbad in Cecoslovacchia».
Sedici ottobre, erano le cinque del mattino, i tedeschi avevano bussato alla porta di Italo Camerino, piccolo industriale che fino alle leggi razziali aveva prodotto a Monza casette prefabbricate che finivano poi in Abissinia e che poi per sopravvivere era dovuto venire a Roma. Enzo, quattordicenne, e suo fratello Luciano erano in fondo alle scale insieme alla sorella Wanda. «Potevamo scappare, io e mio fratello — ricorda Enzo —. Ma chi ci pensava in quel momento. Ci portarono al Collegio Militare di via della Lungara, quarantotto ore dopo ci fecero salire sui carri piombati e dopo sei giorni di viaggio entrammo nel lager di Birkenau. Lì separarono subito gli uomini dalle donne, quella è l’ultima volta che ho visto mia madre e mia sorella». Birkenau, poi Auschwitz, poi la miniera di Jawischowitz, infine Buchenwald. «A Jawischowitz fu ucciso mio padre, era caduto, lo presero a calci, morì così. Aveva poco più di quaranta anni», ricorda ancora Enzo Camerino. Lui stesso ha rischiato il giorno in cui colse una mela da un albero, un atto proibito e che comportava fucilazione sul posto. «Mi salvai per un pelo. Mi avevano preso sul fatto. Una mela. Per fortuna si limitarono a mandarmi a lavorare a 800 metri di profondità, a scavare carbone».
Di Buchenwald, Enzo Camerino ricorda qualche altro internato, come Leone Sabatello, un ragazzo anche lui, morto poco tempo fa a Roma. La fame, la paura, ma anche la voglia di vivere ad ogni costo. C’è anche un amaro Dopoguerra, da registrare, con un ragazzo che al ritorno non ha più famiglia (anche uno zio è stato ucciso nei lager) e che se ne va in giro a raccogliere lattine di alluminio usate in cambio di stracci. Meglio allora inventarsi un nuovo futuro, quello di venditore di ferramenta nel Canada francese. E anche questo Camerino lo dice con occhi asciutti e fieri.
FOCUS ON ISRAEL - Raffaella Troili : " Piero Terracina: «Se Pio XII avesse fatto un gesto, molti romani si sarebbero salvati» "
Piero Terracina Pio XII
ROMA – Al silenzio della Chiesa e di Pio XII, Piero Terracina contrappone la voce del cuore, non potrebbe fare altrimenti. Il suo è il commento dell’ebreo romano, ragazzo deportato ad Auschwitz il 7 aprile del ’44, che ancora conta i nomi dei morti dentro la famiglia. E ora che Papa Pacelli – figura controversa per il suo atteggiamento verso la Shoah – si avvia a diventare beato (Benedetto XVI ha firmato il decreto per le virtù eroiche, nonostante la Comunità ebraica l’abbia sempre osteggiato), Terracina prende le distanze: «E’ una cosa tutta interna alla Chiesa», però…
«Però credo sia opportuna una riflessione sulla visita del Papa in Sinagoga in programma il 17 gennaio. Le decisioni le prenderanno quanti devono farlo, ma un momento di riflessione serve».
Aveva 15 anni quando venne arrestato dalle Ss e deportato ad Auschwitz insieme ad altri sette membri della famiglia. Tornò a Roma da solo, unico superstite, due anni dopo. «Del silenzio della Chiesa e in particolare di Pio XII ne abbiamo sempre parlato. Di una cosa resto convinto: che se quel 16 ottobre del ’43, quando avvenne la razzia degli ebrei romani dal Ghetto, quando per due giorni restarono chiusi nel Collegio militare di via della Lungara, a 300 metri dal Vaticano, il Papa fosse uscito, avesse fatto un cenno, un gesto…». E in testa ha un’immagine che poteva essere e non è stata.
«Se solo avesse aperto le braccia, e mi riferisco a quelle bellissime immagini che testimoniano la sua visita a San Lorenzo bombardata nello stesso anno, gli ebrei romani non sarebbero stati deportati». Così non è stato. «Anzi, silenzio più totale. Eppure Himmler ha atteso due giorni prima di partire, si dice che aspettasse le reazioni del Vaticano».
Alla fine il treno è partito. A bordo 1023 ebrei romani, uno aveva un giorno. Appena arrivati, dalle selezioni, ne uscirono vivi meno di 300. A casa ritornarono in 16, una donna sola. «E’ naturale che io pensi che non sarebbero stati assassinati se ci fosse stato un intervento reale della Chiesa. Non voglio arrivare a dire che il silenzio è una complicità ma quello che è successo a Roma, dove risiedeva il Papa, si poteva evitare. Ma la storia non è fatta di se e ma». Sospira Terracina e prende di nuovo le distanze, però s’interroga: «Noi non veneriamo i santi, non crediamo alla santità delle persone. Abbiamo solo un santo, ed è il Signore. Ma non credo che un Santo sarebbe stato in silenzio, a guardare. Un santo non può avere paura, ha sempre la protezione del Signore. E poi, quanti santi si sono sacrificati per salvare altre vite? Ecco, sulla santità di Pio XII esprimo qualche dubbio, quantomeno in quel momento storico non l’ha dimostrata, se la Chiesa pensa che sia opportuno…».
(Fonte: Il Messaggero, 20 dicembre 2009)
FOCUS ON ISRAEL - Gian Antonio Stella : " Settimio Calò: una storia che in pochi conoscono "
La targa in memoria di Settimio Calò
C’ è un buco, nello stradario di Roma. Tra piazza Elio Callistio e via Calopezzati, seguendo l’ordine alfabetico, manca uno slargo, una piazzetta, un vicolo che porti il nome di Settimio Calò. Vi chiederete: Calò! Chi era costui? Era un piccolo uomo qualunque che non desiderava altro che vivere una vita qualunque. Aveva una moglie e dieci figli. Passarono tutti per il camino di Auschwitz. Tutti. A lui andò peggio, diceva. Molto peggio: era sopravvissuto.
La mattina del 16 ottobre 1943, il «sabato nero» degli ebrei italiani, Settimio aveva 45 anni, una piccola attività, una casa al numero 49 del Portico d’ Ottavia, nel cuore del ghetto ebraico di Roma, tra l’ Altare della Patria e l’ Isola Tiberina. Fumatore accanito messo in crisi dalla guerra e dalle difficoltà dei rifornimenti, aveva avuto una dritta: una certa tabaccheria a Monte Savello, quella mattina, sarebbe stata rifornita di un po’ di stecche. Deciso a conquistare qualche pacchetto di «bionde», uscì di casa all’ alba per mettersi in coda. Nei letti, addormentati, lasciò la moglie Clelia Frascati, che aveva sposato giovanissimo, e dieci figli. La più grande, ricorda Il libro della memoria – Gli ebrei deportati dall’ Italia di Liliana Picciotto – , si chiamava Bellina e aveva 22 anni. La seconda, Ester, ne aveva 20. La terza, Rosa, 18. E giù giù c’ erano Ines di 16 anni, David di 13, Elena di 11, Angelo di 8 e infine i più piccolini: Nella aveva sei anni, Raimondo quattro, Samuele solo 6 mesi da compiere. Quella notte aveva dormito lì anche un nipotino, Settimio Caviglia, di dodici anni, figlio di una sorella.
Avrebbe scritto Silvio Bertoldi nel libro I tedeschi in Italia che Settimio «stava ancora in fila a Monte Savello quando i tedeschi salirono le scale del numero 49 di Portico d’ Ottavia, entrarono, portarono via tutta quella gente, sua moglie, i suoi figli, il nipote. Quando Calò fece ritorno, non c’ erano che le stanze vuote». «Me parevo ‘ mpazzito, me parevo» avrebbe raccontato anni dopo l’ uomo allo storico veronese, in un’ osteria del ghetto dove cercava di annegare nel vino certi ricordi che gli davano ancora fitte insopportabili, «Non c’ era più nessuno, mi dissero che l’ avevano portati via. Mi misi a correre, non sapevo dove andavo. «Mi ritrovai alla Lungara, stavano tutti là quelli che avevano preso. Mi buttai avanti per andare a consegnarmi pure io. Mi ferma una sentinella italiana, mi prende per un braccio e dice: “Vattene, a matto! Che non lo sai che ti pigliano anche te, se ti vedono?”. Io non capisco niente, me butto a spigne, quello me ributta. Mi siedo un poco più in là e piango».
Fulvia Ripa di Meana, quel giorno, vide dei camion tedeschi carichi di bambini fermi in via Fontanella Borghese. Tre anni dopo ne avrebbe scritto in Roma clandestina con parole da fermare il respiro: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili. Solo in fondo al camion, buttati su un’ asse di legno, alcuni neonati, affamati e intirizziti gemevano pietosamente».
La mattina del 19 ottobre, accorsa alla stazione Tiburtina, a rischio della vita, Liliana Calò (in realtà sembra si chiamasse Letizia), la sorella di Settimio, riuscì a vedere il figlioletto ammucchiato in una calca da spavento su un treno in partenza per la Polonia. Rileggiamo il racconto dello zio: «Il bambino si affacciò al finestrino del treno, scorse sua madre e gridò freddo: “A signo’ , e vada a casa, no? Vada a casa, che ci ha l’altri bambini da cresce”. Era la sua mamma, capisce, e lui je disse così, e lei se lo ricorda sempre adesso, da quel finestrino del treno, co’ quelle parole, co’ quelle parole… E io, nemmeno quelle, io».
Come possa essere stato quel viaggio lo prendiamo dal ricordo di Raimondo Di Neris: «Il viaggio durò sei giorni: sul mio vagone morirono alcune persone, viaggiammo insieme a quei cadaveri fino alla fine». «Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’ anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo» scrive Primo Levi in Se questo è un uomo. La moglie di Settimio, Clelia, e i figli Bellina, Ester, Rosa, Ines, David, Elena, Angelo, Nella, Raimondo e Samuele furono uccisi, spiegano Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida ne Il futuro spezzato: i nazisti contro i bambini, lo stesso giorno del loro arrivo ad Auschwitz, il 23 ottobre. Tutti.
Certo, Settimio Calò non fu il solo a essere schiacciato dal tallone di quella storia infame. Nel solo ghetto di Roma, per dire, furono portati via tutti e sei i figli di Leone e Virginia Bondì: Anna aveva 14 anni, Benedetto 12, Fiorella 11, Umberto 9, Giuseppe 6, Elena due e mezzo. Tutti decimati. E certo non ha senso fare una graduatoria di chi ha avuto il maggior numero di morti dentro una strage che ha visto annientare la comunità ebraica romana. In questi tempi di oblio, in cui i ragazzi vedono l’ Olocausto come una cosa lontana quanto la calata di Annibale e in cui i siti Internet traboccano come mai prima di nuova immondizia negazionista e antisemita, sarebbe però importante che Roma, la Roma che ancora oggi si interroga tormentata sulle virtù e i silenzi di Pio XII e sulle responsabilità dei fascisti e degli italiani nella retata e negli anni di odio e disprezzo che prepararono il terreno, lanciasse un segnale. Dedicando nel 2010, in occasione della Giornata della Memoria, una via, una piazzetta, un vicolo a quel Settimio Calò che morì quarant’ anni fa, piegato dal dolore, dopo essere sopravvissuto alla cancellazione di tutto il suo mondo. Un piccolo grande gesto per ricordare, ricordare, ricordare.
(Fonte: Corriere della Sera, 31 Dicembre 2009, pag. 21)
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