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Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.04.2013 Israel J. Singer, La famiglia Karnowski: un romanzo grandioso
Commento di Pietro Citati

Testata: Corriere della Sera
Data: 23 aprile 2013
Pagina: 21
Autore: Pietro Citati
Titolo: «Il destino dei Karnowski in eterna fuga da se stessi»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA del 22/04/2013, a pag. 21, il commento di Pietro Citati dal titolo "Il destino dei Karnowski in eterna fuga da se stessi". Un romanzo grandioso, epico, straordinario.


Israel J. Singer, La famiglia Karnowski, ed. Adelphi


Pietro Citati

Non avevo mai letto fino ad oggi nessun libro di Israel J. Singer, fratello maggiore del famosissimo Isaac B. Singer, premio Nobel per la letteratura. In questi giorni esce, presso Adelphi, un capolavoro, La famiglia Karnowski (traduzione di Anna Linda Callow), al quale auguro un grande successo. La famiglia Karnowski è un grandioso romanzo che racconta la storia di tre generazioni ebraiche, dal 1860 al 1940. Gli eventi trascorrono: i personaggi crescono, maturano, si avvicinano alla morte; tutto è corposo e robusto, mentre dall'alto Israel Singer guarda le cose con uno sguardo sovrano e imperturbabile.
Leggendo La famiglia Karnowski, pensavo che mai nessun popolo è stato così complicato, variegato, contraddittorio, come il popolo ebraico: si ha l'impressione di molti popoli intrecciati, di una realtà tumultuosa e fluttuante, di cui Singer coglie con passione ogni particolare, anche minimo. Il dettaglio si accende e brucia, e rivela la inconfondibile verità. Una cosa lascia perplessi. Il libro è stato pubblicato nel 1943, quando Singer viveva da nove anni negli Stati Uniti, reduce dalla Polonia e dalla Unione Sovietica: ma le notizie sulla Shoah sono singolarmente pallide. Singer conosceva benissimo le marce dei giovani nazisti nel 1932 o nel 1934: ma nel suo libro non si intravede nemmeno una traccia di Auschwitz e di Buchenwald e degli altri lager, dove sei milioni di ebrei di tutti i luoghi e di tutte le generazioni lasciarono la vita. Credo che Singer conoscesse solo una minima parte dei crimini nazisti.
* * *
Il romanzo ha inizio in Polonia, dove gli ebrei parlavano yiddish. È un mondo incantevole, che Singer adora e che continuerà a risuonare due generazioni più tardi, negli Stati Uniti: un mondo dolce, materno, ridente, stupendamente vitale, dominato da una scintilla di estrosa follia. Lea Milner è il fiore tenerissimo di questo mondo. Sebbene parlassero yiddish, i Karnowski non appartenevano a questo clima. Erano noti per il loro carattere testardo e provocatorio, e stimati per la vasta erudizione e l'intelligenza penetrante. «La genialità era iscritta nelle alte fronti da studioso e negli occhi profondi ed inquieti, neri come il carbone. Ostinazione e sfida si leggevano sui nasi forti e sproporzionati che spiccavano beffardi e arroganti nei loro volti scarni». Per via del loro carattere testardo, i Karnowski non erano devoti di nessun rabbino hassidico: coltivavano la matematica e la filosofia; e leggevano libri in tedesco, stampati in aguzzi caratteri gotici.
David Karnowski amava il Pentateuco commentato da Moses Mendelssohn, che fondeva la tradizione ebraica e l'Illuminismo. Litigò con il rabbi hassidico della sinagoga di Melnitz. «I suoi occhi fiammeggiavano. Il naso sembrava il becco di uno sparviero che sta per dilaniare la sua preda». Era pronto ad una guerra senza quartiere. Sfidò il rabbino a trovargli una sola espressione eretica in quel libro, poi sfoderò tutta la sua erudizione per dimostrare che né il rabbino né i notabili conoscevano una parola degli scritti di Mendelssohn e non erano in grado di comprenderli. Infine David fu colto da un tale accesso di collera da proclamare che c'era più dottrina, saggezza e devozione nel dito mignolo del suo maestro Moses Mendelssohn, di benedetta memoria, di quanta ne avessero il rabbino e tutti gli altri maestri hassidici messi assieme.
Già da tempo David era attratto da Berlino, la città dove Moses Mendelssohn aveva abitato e scritto. Quando riceveva lettere dalla Germania, i francobolli colorati con l'effigie dell'imperatore risvegliavano in lui la nostalgia di quel Paese estraneo e famigliare. Berlino rappresentava per lui la cultura, la sapienza, la nobiltà, la bellezza, la luce. David diventò tedesco in tutto: persino nell'amore. Anche nei momenti di massima estasi amorosa, le tenerezze che sussurrava alla moglie Lea erano espresse con parole tedesche. Lea si sentiva ferita. Le parole straniere non le dicevano niente. Non avevano il vero gusto dell'amore. Dopo il litigio coi rabbini hassidici, David decise di lasciare la Polonia, immersa nelle tenebre, trasferendosi nella sua amata, illuminata Berlino. La famiglia della moglie era contraria. Ma David riuscì a convincere il suocero a versargli l'intero ammontare della dote: a mettersi in società con lui e a mandargli legname in Germania, con la zattera e il treno. La tenera suocera preparò una montagna di dolci e biscotti, bottiglie di sciroppo e barattoli di marmellata, come se la figlia partisse per un viaggio nel deserto. David si accorciò la barba nera, indossò una bombetta, una giacca solo fino alle ginocchia, e si comprò un cilindro per lo shabbat e i giorni festivi.
David amava ripetere una frase: «Ebreo tra gli ebrei, e tedesco tra i tedeschi». Si lasciò alle spalle la tenerezza, il riso e la follia yiddish. Amava trattare ed essere trattato con riguardo dai berlinesi di antico lignaggio: ricchi ebrei, completamente assimilati, che avevano assunto la lingua e le forme della civiltà tedesca. Il figlio di cinque anni, Georg, non sopportava le tenerezze in ebraico e yiddish che gli diceva la madre: le storpiava e si torceva dal ridere.
La madre non era felice di vivere a Berlino: il mondo tedesco non le piaceva. Era sola, senza amiche: si struggeva di nostalgia per i genitori, le amiche polacche, ogni angolo del suo shtetl al di là della frontiera, dove era nata e cresciuta. Usciva di rado con il marito: solo il sabato lo accompagnava in sinagoga: ma la sinagoga, con le cerimonie in tedesco, non aveva, per lei, nulla di ebraico; e quel lussuoso santuario le sembrava più simile ad una banca che a una casa di Dio. Tornava a casa, si metteva a scrivere lettere in yiddish ai genitori, alle sorelle, alle amiche di Melnitz, al fratello in America; e vi riversava tutto ciò che le pesava e la feriva nel cuore. Il marito non la sopportava: non sopportava il suo tedesco infarcito di dialetto, il fatto che non frequentasse le signore altolocate, e non si adattasse al radioso e razionale clima tedesco.
Georg, il figlio di David, maturò rapidamente: tale è il dono narrativo di Singer che abbiamo l'impressione di vederlo crescere, giorno per giorno, sotto i nostri occhi, come una giovane pianta robusta. Assomigliava al padre. Malgrado la sua opposizione, studiò medicina. Dopo quattro anni di guerra, nei quali operò al fronte, diventò ginecologo, il più famoso di Berlino. Le vecchie famiglie ebraico-tedesche volevano fargli sposare le loro figlie: erano pronte ad offrirgli doti straordinarie, ad attrezzargli uno studio sul Kurfürstendamm, e dimenticare la sua origine polacca. Di nuovo contro l'opinione del padre, Georg sposò una delle sue infermiere cristiane, Teresa, una donna bionda, pallida, e dagli occhi celesti, che lo adorava. «I capelli, le folte ciglia e sopracciglia, i baffetti e soprattutto gli occhi, grandi e brillanti, avevano introdotto una sfumatura tenebrosa, nell'appartamento abituato da sempre a gente chiara».
Gli anni del trionfo sociale e mondano di Georg furono gli anni dell'inflazione, quando una pagnotta costava tre milioni di marchi. Da tutte le parti, come in tutte le capitali vinte, arrivarono rivoluzionari, gente in cerca di cibo, adepti di nuove fedi, individui che esortavano a distruggere la civiltà per tornare alla vita primitiva. Nelle strade di Berlino, si incontravano giovani scatenati con stivali ai piedi, che lanciavano urla selvagge, incitando a massacrare gli ebrei. Non erano solo gente del popolo. C'erano anche ragazzi di buona famiglia, che brandivano randelli e inneggiavano alla violenza e al massacro. Gli operai, i contadini, la piccola borghesia diventarono nazisti. I giornalisti ebrei vennero picchiati; i medici non potevano operare; i negozianti erano ricattati; i loro negozi erano riempiti di scritte antisemite e di stelle di Davide. I poliziotti nei loro elmetti, sempre così sicuri di sé, giravano storditi, domandandosi se avevano ancora qualche autorità. Gli autisti degli autobus non sapevano se dovevano seguire l'itinerario abituale, oppure no. Gli unici convinti dei propri obiettivi erano gli uomini in stivali che sfilavano per le strade. Si moltiplicarono. Una tensione indefinita, un misto di attesa, esaltazione e paura invase la capitale quando gli uomini in stivali si impadronirono delle strade e delle piazze. Erano dovunque. Sfilavano in parata, sfrecciavano a tutta velocità in automobile o in motocicletta, brandivano torce accese, cantavano in coro e marciavano, marciavano, marciavano.
Gli ebrei assimilati pensavano che le colpe di tutto non fossero dei nazisti, ma degli ebrei polacchi e russi, che avevano invaso il Paese con il loro ebraismo ostentato e le loro chiacchiere, con le loro barzellette e le loro cattive maniere. Infine, il nazismo penetrò anche nella bella casa del grande medico ebreo. Jegor, il figlio fragile, isterico e nevroticissimo di Georg e di Teresa, diventò nazista. Un'agitazione irrefrenabile sollecitava le sue giovani gambe magre. Volevano unirsi al movimento, andare da qualche parte con gli altri, senza scopo, senza fine: volevano solo marciare in cadenza, marciare, marciare. Odiava il padre: lo chiamò «Jude»; e avrebbe voluto ucciderlo.
Sebbene fosse nazista, i suoi amici nazisti lo denudarono e lo svergognarono pubblicamente, mostrandolo come esempio di «brachicefalo negro-semitico», davanti a tutti i professori e gli studenti del suo liceo. Egli non odiò il torturatore. Provava un piacere perverso nel tener continuamente viva nella memoria l'umiliazione subita. Invece di odiare chi l'aveva umiliato, disprezzava se stesso, e detestava a tal punto il proprio lato ebraico da giustificare i suoi aguzzini. Avevano ragione a isolarlo e a torturarlo. Si rinchiuse in casa: diventò terreo e indolente: non aveva fame: non aveva voglia di dormire: fino a notte inoltrata restava immerso nei giornali e nelle riviste naziste, o a ricopiare i disegni sessuali antisemiti; e si alzava a mezzogiorno, emanando un odore rancido di lenzuola e di pigrizia. Adorava incestuosamente la madre. Poi tutto crollò. Non vedeva più alcuna speranza per sé in questo mondo. Nessuno lo capiva. Fin dalla nascita, era condannato a soffrire perché generato da una disgraziata mescolanza di due razze nemiche. Era meglio ammazzarsi. Così si sarebbe vendicato del padre. Per tutti gli anni a venire, il padre si sarebbe torturato al pensiero di essere stato lui a provocare la morte del figlio.
* * *
Prima che si spalancassero le porte dei lager, David, Lea, Georg, Teresa e Jegor Karnowski partirono per gli Stati Uniti, insieme a molti dei loro conoscenti polacchi e tedeschi. Dimenticarono le vecchie inimicizie, che avevano diviso gli ebrei; e quelli tedeschi tornarono a recitare le preghiere salmodiando, alla maniera polacca. Ora erano soltanto ebrei, e conoscevano una sola arte — la infinita, tremenda sopportazione. Prima di partire, David Karnowski aveva incontrato reb Efraim Walder, un saggio libraio centenario, che viveva nel cuore della Berlino popolare. Gli parlò delle persecuzioni. «Niente di nuovo, rabbi Karnowski», commentò con la sua voce limpida, «sempre la vecchia storia. Da quando gli ebrei sono ebrei, la plebaglia brucia i loro libri sacri, marchia i loro abiti, ne disperde le comunità, ne perseguita gli eruditi. E nonostante tutto siamo ancora qui. Ma a perdurare non è la plebaglia, sono Socrate e rabbi Akiva e Galilei, perché non si può annientare lo spirito, come non si può annientare il divino, rabbi Karnowski...».
New York era l'ilare e scatenato trionfo dell'ebraismo. Le strade inondate di sole erano piene di macellerie che recavano la scritta «carne kasher» stampata a grossi caratteri sulle vetrine, su cui campeggiavano immagini di galli tutti allegri prima di essere sgozzati. Sinagoghe, ristoranti kasher, cinema, eleganti onoranze funebri dalle porte adorne di ghirlande, negozi di frutta con le merci esposte all'esterno, scuole religiose sovrastate da vistose inserzioni in yiddish, panetterie artigianali, botteghe di barbieri, laboratori di marmi funerari, grandi magazzini, negozietti, minuscoli chioschi erano addossati gli uni agli altri alla rinfusa. Accanto alle porte erano visibili targhe di avvocati, sensali di matrimoni, rabbini, dentisti, medici, circoncisori. Le radio strepitavano dalle finestre aperte.
Il frastuono, l'afa, le grida, il bucato sui fili, le auto, la frutta variopinta, le insegne, i clacson, le cartacce, tutto si mescolava in un turbine di movimento e di vitalità. David Karnowski era raggiante. Quella vita ebraica intensa, gioiosa, mostrata dovunque liberamente sotto il sole radioso, gli riempiva il cuore di nuove speranze. Sotto il sole di New York il grande romanzo, che ha raccontato le sofferenze ebraiche, muove lentamente verso il lieto fine. La sinagoga Shaare-Tsedek era di nuovo piena di fedeli. Un tempo l'avevano frequentata ebrei sefarditi, bruni, eleganti e profumati come i tappeti orientali, il tabacco e le spezie che commerciavano. Ora la popolavano gli ebrei che avevano lasciato la Germania, e si sentivano di nuovo a casa propria, «come nella cara, vecchia Berlino». Tutto tornava. Come gli avi che, arrivati in Germania, erano divenuti venditori ambulanti, i loro bisnipoti dovevano guadagnarsi da vivere andando di casa in casa carichi di mercanzie.
Anche il nodo più doloroso si sciolse, nelle ultime, meravigliose pagine del romanzo. A notte inoltrata Georg Karnowski percepì lo schiocco sordo di un colpo d'arma da fuoco, che proveniva da dietro la porta dell'appartamento. Il figlio, il nevroticissimo e infelicissimo Jegor, si era sparato al petto; e ora stava lì, semisdraiato con la schiena alla parete, un sorriso colpevole sulle labbra, e fissava il padre con i grandi occhi azzurri. Georg aprì con la forza la mano contratta del ragazzo per toglierne la rivoltella. «Apri la mano, figlio mio», disse a bassa voce. «Così». Jegor non abbandonò il suo sorriso colpevole. «Sono io, papà», disse con l'aria contrita del figlio indegno che torna dopo essere fuggito da casa. Benché le parole rauche gli uscissero di bocca a fatica, erano tenere e calorose, piene d'amore, come da anni il padre non udiva da lui. Dal respiro Georg comprese che la pallottola era nascosta nella zona del cuore. La madre si svegliò: spogliò il figlio: ritornò l'infermiera che era stata: il padre distese Jegor sopra due tavoli uniti; e con la rapidità e la destrezza con cui aveva operato sui campi di battaglia, cominciò il suo lavoro nel cuore della notte. Addormentò il figlio con l'etere: lo operò con il bisturi che aveva usato in tutta la sua lunga carriera. La sua mano era ferma e sicura.

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