Su BOLLETTINO, mensile della Comunità ebraica di Milano, n.3, marzo 2003, riprendiamo l'intervista di Mara Vigevani a Stanley Fischer, ex governatore della Banca d'Israele, dal titolo ''Stanley Fischer: lascio Israele con un'economia forte e stabile''
È come quando un genitore decide che il proprio figlio è abbastanza maturo da potersela cavare da solo. In febbraio “Papà Stanley Fischer”, così come viene chiamato dagli israeliani, si è dimesso dalla sua carica di Governatore della Banca d’Israele. «L’economia funziona; a breve e medio termine non prevedo grossi problemi; è per me arrivato il momento di andarmene», ha annunciato Fischer dopo aver portato la sua lettera di dimissioni, anticipate a fine giugno, dopo 8 anni, al Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Fisher, puntando sui parametri della crescita e dell’occupazione, oltre che sulla stabilità dei prezzi, ha consentito all’economia israeliana di uscire dalla crisi molto prima di altri Paesi (dal 2009 l’economia ha segnato una forte crescita del 14,7%).
Economista di fama mondiale, radicato negli Usa, Stanley Fischer, 69 anni, era stato chiamato in Israele – dove non aveva mai vissuto – in una fase delicata, ed è ritenuto l’artefice della stabilità macroeconomica degli ultimi anni. Ebreo, nato in Zambia e vissuto negli Stati Uniti, il vice presidente del colosso bancario Citigroup spiazzò i vari candidati alla successione di David Klein, annunciando di essere pronto a rinunciare alla cittadinanza americana per prendere quella israeliana. La nomina, decisa dall’allora premier Ariel Sharon e dall’allora ministro delle Finanze Benjamin Netanyahu, fu approvata dal governo. Stanley Fischer – un ricco curriculum che comprende alte cariche nella Banca Mondiale, nel Fondo Monetario Internazionale e la guida del dipartimento economico del Mit di Boston – si era già occupato di economia israeliana come consulente del governo ai tempi dell’iperinflazione. Sarebbe dovuto rimanere in carica fino al 2015. Ha spiegato che il suo ritiro è «per poter stare più vicino alla sua famiglia». Timido, di poche parole ma sicuro delle sue capacità di economista, ha raramente accettato di essere intervistato.
Il Bollettino lo ha incontrato in una delle sue ultime conferenze stampa, prima che le sue dimissioni siano effettive. A suo agio quando parla di economia, arrossisce a qualsiasi domanda di tipo privato. Girano voci che sarà lei il prossimo Ministro delle Finanze israeliano. (Fischer arrossisce, non risponde, tira fuori il suo fazzoletto quasi a volersi coprire il volto imbarazzato). «Non ne so nulla. Lascio la Banca d’Israele tranquillo. Il ministero delle Finanze è composto da ottimi professionisti, l’economia va bene. Spero che il governo decida di vendere più terre per permettere che i prezzi degli appartamenti si abbassino. Anche se devo ammettere che gli israeliani sono un po’ viziati: Rosh Ha Ayn, a 20 chilometri da Tel Aviv è considerata periferia e poco attrattiva… Beh è la periferia più centrale che io conosca.
Lascia un Paese con una economia di gran lunga migliore di tanti altri, ma anche un Paese che si trova davanti a un bivio. Le elezioni hanno dimostrato che l’economia israeliana non vuole più farsi carico di fette di popolazione che non lavorano. Che consigli lascia al Paese prima di andarsene?
In Israele ci sono molti problemi, ma certo non manca consapevolezza. Ogni israeliano ha almeno due ottimi suggerimenti da dare al proprio governo su come risolverli, non sarò certo io a consigliare… Oggi l’economia israeliana è stabile, ma la questione degli ultraortodossi e degli arabi deve essere affrontata. Il livello di povertà si concentra tra gli arabi, dove solo il 20% delle donne lavora e tra gli ultraortodossi dove lavorano solo le donne. Inoltre arabi e ultraortodossi sono in continua crescita, affaticando ancora di più le spalle della società israeliana che produce. Quasi il 50% dei bambini che oggi frequentano la prima elementare sono ultraortodossi, o arabi. Saranno loro la forza lavoro del Paese tra 15-20 anni. È una situazione eccezionale che non esiste in altri luoghi e che l’economia israeliana non può reggere a lungo. Negli ultimi anni la popolazione ultraortodossa sembra aver capito che studiare non è sufficiente. Oggi circa 8000 giovani haredim sono iscritti a college. Dieci anni fa era un fenomeno inesistente.
Qual è la caratteristica di Israele che più l’ha colpita?
La straordinaria capacità di riprendersi da qualsiasi situazione. I missili su Tel Aviv ne sono un esempio: meno di due settimane dopo la fine della Guerra, tutto è tornato alla normalità e l’economia del Paese non ha quasi risentito della tensione politica. È un Paese con un ottimo settore privato, che ha iniziativa ed è capace di adattarsi a differenti situazioni. Il fatto che Israele si trovi da sempre ripetutamente in stato di emergenza, ha contribuito a formare un ethos di sopravvivenza che si basa su un’alta dose di intraprendenza e capacità di adattamento. L’instabilità socio-politica, l’impossibilità di intraprendere relazioni commerciali nella regione e le minacce all’esistenza stessa dello Stato, hanno spinto la popolazione israeliana a individuare soluzioni alternative per tenere il passo coi propri partner occidentali. Ed è così che una volta di fronte alla crisi, non è stato difficile per gli israeliani rispondere prontamente alla minaccia economica e aggirarla con misure innovative e d’avanguardia.
Qual è stato il suo maggiore contributo all’economia israeliana?
Penso che la Legge che preserva l’indipendenza della Banca Centrale dal sistema politico sia stata una mossa giusta. Fin dall’inizio del mio compito mi era chiaro che sarebbe stato molto più sano per il Paese regolare le relazioni tra politica e Banca Centrale.
Che cosa farà ora?
Non andrò in pensione (dice arrossendo). Nel 2011 era stata ventilata la sua candidatura alla guida del Fondo Monetario Internazionale. Allora gli era stata preferita Christine Lagarde. Ora il Financial Times lo candida a «nuovi ruoli internazionali, la perdita per Israele può diventare il guadagno per qualcun altro», scrive. E se ce lo prendessimo noi, per il nostro disastrato Belpaese?
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