Corriere della Sera: Cecilia Zecchinelli " Con il velo alla Tv di Stato l'Egitto ha rotto il tabù"
Giacca nera elegante, make-up perfetto, hijáb crema drappeggiato sul capo e sul collo, in vista nemmeno un capello. Sabato scorso al tg di mezzogiorno, sul canale più importante della tv di Stato, Fatma Nabil è diventata la prima giornalista ad apparire velata nella storia dei media pubblici egiziani. E se lei dichiara che «il velo non conta, finalmente anche qui il criterio non è quello che indossi, ma le capacità intellettuali e professionali», è indubbio che lo scalpore suscitato dalla sua apparizione è dovuto a quel pezzo di stoffa.
Nel 1960, debutto della telefisiún in Egitto, la questione non si poneva: ai tempi di Nasser poche donne indossavano l'hijáb, soprattutto in città e tra chi aveva studiato. Ma il «risveglio islamico» dalla fine degli anni 70 aveva portato a una crescente divisione tra il Paese reale e quello rappresentato dai media di Stato. Le velate, sempre più numerose fino ad essere oggi la maggioranza, potevano sì lavorare per la tv pubblica ma mai apparire in video. La stessa Nabil, per non scoprirsi il capo, aveva lavorato in canali privati via satellite tra cui quello dei Fratelli Musulmani Misr 25, aspettando che i tempi cambiassero. E i tempi sono cambiati: nel nuovo Egitto guidato dal raìs islamico Mohammed Morsi lo sdoganamento dell'hijáb era prevedibile. Non per questo la cosa è passata sotto silenzio.
«Non vogliamo l'islamizzazione dei media», ha tuonato sul quotidiano indipendente Al Masry Al Youm il commentatore Loai Al Ashry. In rete un certo «Musulmano oppresso» sostiene che «i Fratelli Musulmani vogliono che l'intero Egitto si conformi a loro e io dico no», altri gli danno ragione. Ma per la maggioranza la comparsa di Fatma Nabil in tv sabato scorso è stato un passo avanti. Suonerà strano per chi vede nel velo un simbolo di arretratezza e oppressione, ignorando ad esempio che molte femministe arabe lo portano per scelta, ma già sotto Mubarak non erano solo gli islamici a indignarsi per il modello di donna imposta dai media di Stato, in stile «moderno» o «alla Suzanne Mubarak», l'ex First Lady di madre inglese sempre assolutamente svelata. Molti difensori dei diritti umani e attivisti laici si erano schierati apertamente contro quel divieto. E adesso approvano il nuovo corso.
Tra loro Shahira Amin, una delle giornaliste liberal e femministe (senza velo) più famose dell'Egitto, che si licenziò in tronco dalla tv di Stato per le censure all'inizio delle proteste nel 2011 e che oggi dichiara: «La lunga e ingiusta discriminazione contro le donne velate è finalmente caduta con la rivoluzione, erano loro le più discriminate, non noi a testa scoperta». Lo stesso sostiene un'altra giornalista, Rawya Rageh, aggiungendo però in un commento su Twitter che la «riforma dei media non dovrebbe fermarsi alle apparenze, al velo. Dovrebbe invece cambiare la tradizione di fare dei media di Stato il megafono del potere».
Ed è infatti questa l'accusa più grave che ora si sta levando dagli ambienti intellettuali e «rivoluzionari» d'Egitto. A inizio agosto, oltre 50 direttori di testate tv, radio e stampa controllate dal governo sono stati rimossi. In genere rimasti fedeli al vecchio regime e ostili al nuovo ordine, sono stati sostituiti da uomini in gran parte vicini alla Fratellanza e al presidente. Vero è che lo spoil system è diffuso nel mondo ma molti hanno visto in questa mossa un riproporsi dei metodi di Mubarak. A questo cambio della guardia si sono poi aggiunti i processi in corso contro due giornalisti. Il populista e arcinemico dei gruppi islamici Tawfiq Okasha, che dal suo canale Al Faraeen (i faraoni) ha minacciato di uccidere Morsi, «leader illegittimo e bugiardo». E Islam Afifi, direttore del settimanale Al Dustur, anche lui accusato di «insulti al presidente» e «disseminazione dell'odio».
I processi (con chiusura delle due testate) hanno suscitato allarme in Egitto, dove anche chi non ama Okasha sospetta che il suo avvocato abbia qualche ragione: «Il regime non è cambiato — ha dichiarato il legale — solo che ora i suoi uomini hanno la barba». E pure all'estero la cosa non è piaciuta: per il Dipartimento di Stato Usa, ad esempio, «i processi vanno contro lo spirito della rivoluzione». Ma il Nuovo Egitto non va abbandonato, comunque. Proprio ieri il New York Times rivelava che l'amministrazione Obama è «vicina» a concedere al Cairo la cancellazione di debiti per un miliardo di dollari, come «parte di un pacchetto internazionale di sostegno al Paese per aiutarne la transizione verso la democrazia» a cui si dovrebbe finalmente aggiungere un prestito di 4,8 miliardi di dollari da parte del Fmi, appoggiato dalla Casa Bianca. Il nuovo attivismo di Washington sarebbe stato motivato dalla recente visita di Morsi in Cina e dal conseguente timore degli Usa di perdere un alleato privilegiato in Medio Oriente. Questioni ben più pressanti, per la diplomazia americana e non solo, di veli o processi a giornalisti.
La Stampa-Maria Corbi: " Chiara, prigioniera in Arabia dell'ex marito musulmano"
L’ amore che vince tutto, abbatte frontiere, differenze, culture. Forse. Ma non nella storia di Chiara. Non in tante storie ambientate in Paesi ostili al diritto, all’eguaglianza tra i sessi, alla libertà. Chiara ci ha provato per amore di un uomo di Gedda, in Arabia Saudita, e ha perso.
L’inizio è stato facile con un principe azzurro in caftano bianco, rampollo di una delle potenti e ricche famiglie dell’Arabia Saudita. Lei, Chiara, oggi 40 anni, si innamora, forse del sogno, e gli dice sì. Tre anni fa le nozze e l’ingresso nel palazzo di famiglia dove le donne sono solo ospiti anche se mogli. Chiara non può arredare la casa come piace a lei, deve cancellare tutti gli amici maschi di Facebook, anche quelli che non vede dall’asilo, deve adeguarsi al rigido codice di comportamento imposto alle donne.
Presto iniziano i litigi, la consapevolezza e la paura di vivere in un lusso privo di libertà, quindi una miseria nera se sei educata in Occidente. E alla fine lui la ripudia secondo la tradizione islamica. Ma non c’è nessun nuovo inizio, le ali di Chiara non possono ancora volare verso casa, ad Alessandria, in Italia. Il marito non le riconsegna il passaporto e senza il suo assenso la donna non può lasciare il Paese. Sequestrata.
La diplomazia è entrata in gioco, e sta lavorando cercando di ricucire una situazione delicatissima. Chiara è in Arabia, ancora libera di circolare con il padre anziano che le fa da autista, mentre soltanto la madre è riuscita a tornare in Italia. L’ex marito vuole indietro dei soldi, una somma cospicua che le avrebbe versato su un conto quando ancora c’era l’amore.
Dalla sua «prigione» Chiara scrive un memoriale per urlare al suo Paese e al mondo la disperazione. Racconta di quando ha conosciuto il suo uomo in Europa ed era una persona amabile, «un’altra persona». Ma a Gedda i modi dell’uomo - vicepresidente della società di famiglia che distribuisce tra le altre cose, beni di lusso occidentali - modi e maniere cambiano. Quando voleva insultarla il marito le urlava con disprezzo «cristiana».
Da marzo Chiara è «prigioniera» assieme al padre e continua a portare il velo e la tunica nera imposte dalla legge. Ad aprile cerca di fare ragionare l’ex marito e accetta un invito a cena. Ma le cose precipitano. Lui ha un attacco di gelosia e di ira e la prende a schiaffi e pugni, la trascina usando come cappio il velo, le sale sul petto con le ginocchia, la minaccia.
Il marito non cede, rivuole indietro il denaro che aveva dato alla moglie. Altrimenti, aggiunge come ricatto, non metterà la sua firma sul lasciapassare. E non è una formalità. Ogni straniero, non solo le donne, in Arabia Saudita, dipende da uno «sponsor», che può essere solo saudita e ha il diritto di impedirti di lasciare il Paese.
Per questo motivo neanche l’intervento del console italiano a Gedda, che ha rilasciato nuovi passaporti a Chiara e al padre, riesce a sbloccare la situazione. Chiara va alla polizia e attraverso l’ambasciata si fa assistere da un avvocato, Ahmad Faisal Yamani, nipote dell’ex potente ministro del petrolio saudita. E la situazione in Tribunale, dove si applica la sharia, non fa certo sperare in un giudizio equo. Chiara deve assistere al procedimento da uno stanzino buio, separata dagli uomini. In quell’area del Tribunale, in quel recinto rosa, scorge una donna interrogata da due giudici e le viene in mente la Santa Inquisizione.
Il marito dopo la denuncia sembra disposto ad un accordo, a concedere la libertà in cambio di un assegno, di quanto ritiene di dovere avere. Si attende anche l’intervento dell’ambasciatore saudita in Italia. Poi salta tutto. L’uomo ci ripensa e alza la posta minacciando Chiara di denunciarla per appropriazione indebita e adulterio, che in Arabia Saudita è punito conla pena di morte.
La strada è in salita e Chiara, scrive nel memoriale, adesso si affida al re: «Ho fiducia nel re che è uomo illuminato e giusto. Spero che la pubblicazione della mia storia serva a smuovere i livelli alti della diplomazia, perché dopo cinque mesi di trattative e false speranze, inizio a vacillare». L’amore non ha vinto.
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