La disperazione dei ricchissimi paesi del Golfo
Analisi di Zvi Mazel
(Traduzione di Angelo Pezzana)
Zvi Mazel
I sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo – Arabia Saudita, Barhein, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuweit – hanno tenuto un summit “per consultazioni” lo scorso 14 maggio. Si trattava infatti di discutere di una “ Unione dei Paesi del Golfo” che dovrebbe rafforzare la loro posizione di fronte alla minaccia iraniana, ma anche delle rivolte che minacciano la regione dopo la “primavera araba”. Una riunione che era all’ordine del giorno già da diversi mesi, dopo che il re dell’Arabia Saudita l’aveva proposta lo scorso dicembre durante il summit precedente. E’ giunto il tempo, ha dichiarato, di passare da una cooperazione ad una vera unione, capace di trasformare il paesi del Golfo in una potenza effettiva. Venne creato allora un comitato organizzativo con l’incarico di redigere un programma da sottoporre ai differenti capi di governo. Al termine delle discussioni la settimana scorsa, si è preferito non assumere nessuna decisione, rinviando al Consiglio dei vari Ministri degli Esteri la revisione del programma, perché possa essere discusso nuovamente nel prossimo summit del Consiglio di Cooperazione, la cui data però non è stata ancora annunciata.
Una ricerca dell’Istituto Saudita per gli Studi Diplomatici pubblicata la scorsa settimana analizza le gravi minacce che gravano sui paesi del Golfo, in cima a tutte quella iraniana. Già lo Scià aveva cercato di aumentare la propria influenza nella regione per controllare i giacimenti di petrolio e il controllo dei luoghi santi dell’islam. La “Repubblica islamica” fondata da Khomeini per esportare la “rivoluzione islamica” – cioè imporre l’islam sciita ai paesi del Golfo e a tutto il mondo arabo – si sta comportando nello stesso modo. Gli iraniani sono 75 milioni, con un esercito regolare di 500.000 soldati che si sta trasformando in macchina da guerra, con la costruzione di missili a lunga gittata e rafforzando la flotta navale. Senza citare l’arma atomica in costruzione, disponibile in un futuro imminente. L’Iran non si è lasciato intimidire dalle pur pesanti sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale. Di fronte a questo scenario, non si può non riconoscere la debolezza degli emirati del Golfo, con una popolazione di 17 milioni di persone, fra le quali solo il 15% appena sono cittadini, essendo il rimanente formato da immigrati per la maggior parte di provenienza asiatica. L’Arabia Saudita ha 27 milioni di abitanti, un quarto dei quali immigrati stranieri. Gli eserciti dei sei paesi insieme arrivano a 360.000 soldati, manca però un coordinamento comune e la loro efficienza è di basso livello.
Il ritiro delle truppe americane dall’Iraq ha lasciato un vuoto immenso, tutto a vantaggio dell’Iran, mentre il paese è lungi dall’aver ritrovato la potenza che aveva al tempo di Saddam Hussein. La maggioranza sciita, favorevole all’Iran, dirige il paese e perseguita la minoranza sunnita, che era al potere sotto Saddam. I paesi del Golfo imputano all’America la responsabilità di questa situazione catastrofica. Rimproverano anche a Obama l’abbandono brutale di Mubarak, da sempre alleato fedele degli Stati Uniti. La caduta del rais, che era alla testa del fronte arabo pragmatico contro l’Iran, ha originato la presente, drammatica situazione. Ne è sorta una vera e propria sfiducia verso Washington.
L’Arabia Saudita è ugualmente preoccupata per quanto accade in Yemen, dove il conflitto fra le forze politiche locali minaccia di degenerare in una guerra civile che mette a rischio l’unità del paese. Infatti al nord la ribellione delle tribù Hutiste continua, mentre al Qaeda rinforza la sua presenza in diverse parti della regione, senza nascondere la propria ostilità al regime di Ryad.
In più, i paesi del Golfo si sentono minacciati dalla “primavera araba”, i cui effetti si stanno facendo sentire. Hanno visto cadere in molti paesi arabi i regimi dittatoriali che erano sorti il secolo scorso e si rendono conto che se vogliono conservare parte dei loro privilegi devono unirsi per creare una nuova entità capace di dissuadere i nemici oltre confine e risolvere nello stesso tempo i problemi interni.
Queste sono le conclusioni dell’Istituto Saudita.
Il Barhein si trova di fronte a una rivolta scoppiata all’inizio dello scorso anno. La famiglia reale sunnita al potere non ce la fa ad uscirne, e lancia appelli al vicino saudita. Il quale, temendo le conseguenze drammatiche causate dalla caduta del regime per tutte le monarchie del Golfo, ha inviato 1.500 soldati e carri armati della divisione “ Difesa del Golfo”. Si tratta di una contingente militare creato negli anni ’80, nel quadro di un accordo difensivo tra i sei paesi del Golfo, la cui missione era la protezione di ciascun paese contro un possibile attacco esterno. Questa divisione consta di 30.000 soldati, la cui base si trova nel nord dell’Arabia Saudita, nei pressi della frontiera con Iraq e Kuweit. Non era in previsione nessun attacco contro il Barhein, ma i sauditi ritenevano che la situazione rappresentava un pericolo reale per tutti i paesi della regione, il che giustificava la presenza dei militari. L’Iran condannò con un linguaggio virulento “ l’invasione saudita”, accusandola di ingerenza negli affari interni del Barhein. Le potenze occidentali emisero una fiacca condanna, anche se gli Usa stabilirono un embargo alla vendita di armi al Barhein… ma non all’Arabia Saudita. Vi sono ancora alcune manifestazioni sporadiche e la forza d’intervento è sempre all’erta. La forte maggioranza sciita del paese protesta contro la discriminazione e l’oppressione di cui è oggetto da parte della minoranza sunnita al potere. Secondo il Barhein è l’Iran che fomenta la rivolta per rovesciare il potere sunnita e “recuperare” il Barhein, che considera come la propria quattordicesima provincia.
Anche l’Arabia Saudita è coinvolta. L’anno scorso sono scoppiate delle rivolte nell’est del paese, dove la minoranza sciita protesta contro la discriminazione, finita solo dopo l’intervento militare del regime e la distribuzione di migliaia di dollari ad ogni famiglia. La calma è ritornata, ma il fuoco cova sotto la cenere. Malgrado il silenzio dei media, si sa che battaglie sporadiche si verificano un po’ ovunque e che vengono violentemente represse.
I paesi del Golfo sono perfettamente coscienti del pericolo esistenziale che grava su di loro, ma non riescono a mettersi d’accordo su come reagire. Hanno un bel da non avere più fiducia nell’America, sanno bene che è comunque il loro principale difensore e gli interessi sono comuni. La base navale americana più grande fuori dal territorio nazionale si trova in Barhein. Le tre basi americane in Qatar sono state di grande utilità durante la guerra contro l’Iraq. Il Kuweit è stato il punto di transito principale delle truppe americane verso l’Iraq e ancora oggi è una zona strategica per gli Usa per quanto avviene in Iraq. Infine, e soprattutto, gli Stati Uniti hanno dispiegato una forza navale rilevante nel Golfo nelle vicinanze degli Stretti di Hormuz. Le porta-aerei che pattugliano tutta la zona costituiscono una forza importante di dissuasione per la minaccia iraniana di bloccare gli Stretti. Va ricordato che gli americani non sono riusciti a installare una base di missili anti-aerei nella regione a causa del fatto che i sei paesi del Golfo non sono riusciti ad accordarsi fra loro su questo progetto.
L’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo devono per forza creare un sistema di difesa comune, per quanto insufficiente possa essere: è questa la convinzione di Ryad. D’altronde è già da molti anni che la monarchia saudita aveva dichiarato che se l’Iran si fosse dotato dell’arma nucleare, non avrebbe esitato a fare altrettanto. Un dichiarazione che aveva suscitato una reazione sprezzante da parte dell’Iran. Alla fine dello scorso anno, i sauditi hanno invitato Marocco e Giordania ha far parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo, con l’obiettivo di formare un blocco conservatore per difendersi da nemici interni e esterni. Non si capisce bene come questo blocco avrebbe potuto modificare il rapporto di forza con l’Iran. Qualunque fosse stata l’iniziativa, il progetto è stato abbandonato, l’Arabia Saudita aveva valutato che sarebbe stato troppo elevato il suo contributo finanziario per sostenere le economie troppo povere di questi paesi. Inoltre la Giordania si era rifiutata di allinearsi sulle posizioni saudite che sostengono attivamente i rivoluzionari siriani e forniscono armi all’armata siriana ribelle. Eppure la collaborazione della Giordania sarebbe stata preziosa, visto che ha una lunga frontiera con la Siria. I sauditi non nascondono la loro volontà di far cadere il regime di Assad, che potrebbe avere come conseguenza l’indebolimento dell’Iran, principale alleato del regime siriano.
Fondare una unione dei paesi del Golfo come lo propone il sovrano saudita, appare dunque un tentativo disperato per riunire questi paesi sotto la sua autorità, creare un comando militare unico, coordinare gli acquisti di armi dagli Stati Uniti, e addestrare le truppe in modo da avere una forza militare sufficientemente forte. L’obiettivo è lontano, la maggior parte degli analisti non gli danno alcuna possibilità di riuscita. Si sa solo ciò che filtra dai summit, e cioè che il programma procede gradualmente. In un primo tempo il Barhein, dove la situazione è più critica, si alleerebbe all’Arabia, gli altri paesi in un momento successivo. Hanno però il timore legittimo di essere assorbiti dal potente vicino e perdere così l’indipendenza. Si chiedono anche in quale misura questa unione li rafforzerebbe nei confronti dell’Iran, così come per quanto riguarda i problemi interni. Il grande sogno saudita, una vera unione di tutta la penisola araba – escluso lo Yemen – che coprirebbe 2.8 milioni di km quadrati, appare in realtà irrealizzabile. Qatar e Oman, che hanno buone relazioni con l’Iran, non intendono irritarlo. Sono pronti per una unione economica limitata, niente di più. Gli Emirati Arabi non hanno mai definito le loro dispute territoriali con l’Arabia Saudita e hanno anche contrasti di carattere economico. Il Kuweit non si è mai pronunciato, la sua forte minoranza sciita si oppone a qualsiasi unione con l’Arabia Saudita “difensore dei sunniti”, per cui si muove con molta prudenza. A sostenere il progetto c’è quindi il solo Barhein, anche se dovrà tenere in conto la propria minoranza sciita che si è già espressa contro l’unione.
Il progetto unione è quindi rinviato ad un prossimo summit, ma con poche aspettative di successo. In ogni caso non si tratterà di una vera unione, senza più frontiere tra paesi che non sarebbero più rappresentati all’Onu, quanto piuttosto di qualcosa che assomiglierebbe all’Unione Europea.
E’ il caso di sottolineare ancora che, malgrado tutti gli sforzi, i paesi del Golfo non sono mai riusciti a trovare un nome comune o una moneta unica. L’Arabia Saudita potrà spingere per arrivare ad un progetto economico, anche se il suo interesse prioritario è l’unità nella difesa e la politica estera sotto la sua direzione. Ciò che non cambierà è la situazione davanti alla minaccia iraniana, anche se Teheran ha dimostrato quanto questo progetto l’abbia irritato. Il suo parlamento ha accusato i sauditi di voler “annettere il Barhein”, aggiungendo una sfida appena velata: una simile decisione affonderebbe la regione nel caos e i sauditi si ritroverebbero con i problemi del Barhein. Larijani, presidente del parlamento, ha detto che il Barhein sarà un boccone difficile da digerire per l’Arabia Saudita. Un altro deputato ha chiesto l’immediata annessione del Barhein. “L’Iran non si immischi negli affari dei nostri due paesi” è stata la risposta del Ministro degli Affari Esteri saudita.
I paesi del Golfo – e l’Arabia Saudita in primo luogo – sono profondamente inquieti ma non riescono ad elaborare una soluzione politica, militare o economica suscettibile di cambiare la realtà dei problemi. Sono incapaci di creare una forza comune di difesa, incapaci anche di fermare il progredire delle idee rivoluzionarie sorte con la primavera araba, che chiede la fine delle dittature e profonde riforme. Persino in Arabia Saudita vi è chi reclama l’instaurazione di una monarchia costituzionale come in Europa, dove governa il parlamento eletto, e il monarca è solo più il simbolo dell’unità del paese. Non vi è alcun segno che indichi come la monarchia sia pronta per un simile cambiamento così radicale.
Gli americani continueranno ad essere l’unico baluardo a difesa contro le minacce iraniane. Anche se Washington non si cura di rafforzare più di tanto i propri alleati, acquista il loro petrolio e li rifornisce di tecnologie, vende enormi quantità di armi sofisticate all’Arabia Saudita e agli Emirati. Sono riprese anche le vendite di armi al Barhein. Il problema è l’America,che, con gli alleati europei, è incapace di fermare la corsa dell’Iran verso l’arma atomica. Se l’Iran ci riuscirà, la situazione nella regione cambierà radicalmente. Più di uno, fra i paesi del Golfo, si augura, senza dirlo apertamente, che Israele attacchi i siti nucleari iraniani. Ma. da un altro lato, non si riesce a capire come i paesi del Golfo e, soprattutto, l’Arabia Saudita, potrebbero salvarsi da una rivolta popolare in nome della democrazia…
Zvi Mazel è stato ambasciatore in Egitto, Romania e Svezia. Fa parte del Jerusalem Center fo Public Affairs. Collabora con Informazione Corretta