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Corriere della Sera - Il Foglio - la Stampa Rassegna Stampa
02.03.2012 L'Iran è un pericolo per l'Occidente
analisi di Angelo Panebianco, Giulio Meotti, Mattia Ferraresi. Cronaca di Giordano Stabile

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - la Stampa
Autore: Angelo Panebianco - Giulio Meotti - Mattia Ferraresi - Giordano Stabile
Titolo: «La polveriera dell'Iran - Israele non si fida dell’occidente e affila la spada. Parla Shavit - Le divergenze parallele di America e Israele sullo strike in Iran - Iran al voto, la sfida dei falchi»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/03/2012, a pag. 1-52, l'editoriale di Angelo Panebianco dal titolo " La polveriera dell'Iran ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Israele non si fida dell’occidente e affila la spada. Parla Shavit ", l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Le divergenze parallele di America e Israele sullo strike in Iran ". Dalla STAMPA, a pag. 21, la cronaca di Giordano Stabile dal titolo " Iran al voto, la sfida dei falchi ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Angelo Panebianco : " La polveriera dell'Iran "


Angelo Panebianco

Fare i conti senza l'oste. L'Europa appare ormai da tempo ripiegata su se stessa. La crisi dell'euro, il fallimento di fatto della Grecia, i rischi corsi dall'Italia, le imminenti elezioni francesi, i gravi problemi della maggioranza di governo in Germania favoriscono l'introversione europea. L'Europa sembra cieca e sorda rispetto a ciò che si muove intorno a lei, ai pericoli incombenti e alle conseguenze che possono derivare da eventi esterni al perimetro dell'Unione. Organismo debilitato e in crisi l'Unione, e anche i suoi Stati più importanti, Germania in testa, sembrano rassegnati a un ruolo passivo e secondario nelle crisi esterne all'Europa. Come se parole quali «interdipendenza» o «globalizzazione», a forza di ripeterle, avessero perso il loro significato originario, come se fosse possibile isolare l'Europa dalle onde d'urto che provengono dall'esterno. Le divisioni che attraversano oggi il Vecchio continente hanno di mira solo i suoi equilibri interni: ad esempio, la lettera con cui dodici leader europei hanno chiesto vigorose misure per la crescita segnala il debutto di una coalizione contraria alle rigidità tedesche, alla politica di rigore senza sviluppo che la Germania sta imponendo all'Unione. Ciò è spiegabile alla luce della crisi che ha investito l'Europa.
Meno spiegabile è invece la latitanza europea dagli scacchieri esterni nei quali si giocano partite che possono avere un grandissimo impatto sulla evoluzione della crisi europea. Meno spiegabile è il fatto che i capi di governo europei non abbiano ancora trovato tempo e modo per una presa di posizione collettiva su ciò che sta accadendo in Medio Oriente. Come se l'Europa potesse disinteressarsene.
In Medio Oriente i venti di guerra stanno soffiando con sempre maggior forza. È probabile che Israele, sul quale pesa una minaccia esistenziale, una minaccia alla sua sopravvivenza, decida entro pochi mesi di attaccare l'Iran, di colpirlo prima che esso si doti di armamenti nucleari. La guerra è resa ancor più probabile per il fatto che in Iran è in corso una lotta senza esclusione di colpi fra due fazioni, entrambe nemiche di Israele ed entrambe sostenitrici del programma nucleare, quella che fa capo alla Guida suprema Khamenei e quella che fa capo al presidente Ahmadinejad. Come spesso accade in queste circostanze, la fazione più in difficoltà potrebbe scegliere di aggravare ulteriormente la crisi con Israele, innescando così il conflitto armato, nel tentativo di prevalere sulla fazione rivale. Si aggiunga il fatto che l'Iran corre il rischio, nei prossimi mesi, di vedere indebolita la propria posizione internazionale a causa della crisi, quasi certamente irreversibile, del suo principale alleato mediorientale, il regime siriano. E ciò può accrescere nei suoi governanti la tentazione dell'avventurismo.
L'ondata che la guerra solleverebbe sarebbe gigantesca. Il prezzo del petrolio volerebbe alle stelle con un fortissimo impatto recessivo sull'economia internazionale. Negli scenari più cupi, però, il costo stimato del petrolio in caso di conflitto sarebbe addirittura il problema minore. Perché si aprirebbero, soprattutto per l'Europa, anche gravissimi problemi di sicurezza. L'estremismo islamico sciita-iraniano potrebbe avere interesse a colpire l'Europa per costringerla a esercitare pressioni su Israele. E troverebbe alleati, probabilmente, fra gli estremisti sunniti, anch'essi nemici di Israele.
Si noti che l'evoluzione in Medio Oriente sarebbe negativa per noi europei sia nel caso che la guerra scoppiasse a breve termine sia nel caso che venisse rinviata nel tempo. Nella prima eventualità, ci sarebbe una immediata onda d'urto. E, inoltre, le conseguenze di medio-lungo termine sarebbero altrettanto gravi. Se la guerra scoppiasse ora e Israele vincesse allontanando da sé la minaccia nucleare, ciò sarebbe ottenuto al prezzo di un drastico indebolimento della potenza iraniana in Medio Oriente. Tolto di mezzo il loro storico nemico politico-religioso, i fondamentalisti sunniti, veri vincitori, fino ad oggi, delle cosiddette rivoluzioni arabe, diventerebbero molto più aggressivi. E con la loro accresciuta aggressività non solo Israele ma anche l'Europa dovrebbero fare i conti.
Se invece la guerra non scoppiasse subito e l'Iran diventasse una potenza nucleare, la conseguenza non sarebbe solo un rischio permanente per la sopravvivenza di Israele: i regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, dovrebbero a loro volta rapidamente dotarsi di armi nucleari per riequilibrare l'Iran. Un Medio Oriente interamente nuclearizzato sarebbe un incubo per il mondo e per l'Europa in primo luogo.
Ciò che davvero servirebbe a tutti, ma non c'è speranza di ottenerlo a breve termine, è un cambiamento di regime in Iran. Rassicurando così sia Israele che gli arabi sunniti. Obama e gli europei persero un'occasione d'oro quando, per miopia politica, non appoggiarono attivamente la rivolta antiregime in Iran del 2009. Fu l'unica buona occasione per rovesciare il regime teocratico nato dalla rivoluzione del 1979. E venne sprecata. Sarebbe stato più utile per tutti se gli occidentali avessero fatto per l'Iran in quella occasione ciò che hanno fatto (forse con eccessivo entusiasmo) per la Libia nel 2011, o almeno, senza arrivare all'intervento diretto, ciò che sta facendo oggi la Turchia a sostegno dei rivoltosi in Siria.
Che i medici si diano da fare intorno al capezzale dell'euro va benissimo. Ma senza dimenticare che i pericoli che corriamo sono di varia natura. Dal Medio Oriente, come sempre, arrivano i più insidiosi.

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Israele non si fida dell’occidente e affila la spada. Parla Shavit"


Giulio Meotti        Ari Shavit

Roma. Editorialista di punta del quotidiano di sinistra Haaretz, Ari Shavit è un giornalista e scrittore israeliano tutt’altro che tenero col primo ministro di destra, Benjamin Netanyahu. Nelle sue quattordici colonne di piombo non manca mai di tirargli delle autentiche stoccate. Eppure nella sua ultima column ha scritto: “Sull’Iran l’America sta commettendo lo stesso errore di Francia e Inghilterra con la Cecoslovacchia negli anni Trenta”. Shavit è ora a colloquio con il Foglio. “Israele con Netanyahu e il ministro della Difesa, Ehud Barak, vede in termini storici la questione del nucleare iraniano. Netanyahu negli ultimi tre anni ha avuto a che fare con tre fattori: Iran, Iran, Iran. Dieci anni fa parlavamo di pace. Cinque anni fa parlavamo di come dividere la terra. Oggi l’unica questione di sicurezza nazionale è l’Iran. Così l’unica preoccupazione del primo ministro è stata affilare la spada d’Israele”. Secondo Shavit, il paese è letteralmente in apprensione per l’atomica iraniana. “Al pubblico estero arriva un decimo dell’allarme che si avverte in Israele. Israele non è orgoglioso del possibile strike come fu del raid di Entebbe, qui non c’è eroismo e lo si vorrebbe evitare. Israele però sa che, se non ci sarà un cambiamento drammatico nei prossimi mesi sul nucleare iraniano da parte della comunità internazionale, potrebbe lanciare l’attacco militare. Israele entrerà nella sindrome cecoslovacca, il tradimento dell’occidente durante la Seconda guerra mondiale. Netanyahu vede questo scontro come i nuovi anni Trenta, perché l’occidente per dieci anni non ha fatto nulla per fermare gli iraniani. Netanyahu non ha dimenticato che i due leader che ammirava, Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill, non mossero un dito per salvare gli ebrei europei durante l’Olocausto. E’ convinto che Barack Obama non muoverà un dito per salvare gli ebrei israeliani. Crede soltanto nella spada israeliana, che è il simbolo più profondo della rivoluzione sionista. Se la minaccia militare su Teheran fosse stata altrettanto forte sei anni fa, forse ci troveremmo in una situazione completamente diversa. Come oggi, negli anni Trenta c’era un trauma post guerra e come allora c’era una crisi economica e una recessione. Chi sarà la Cecoslovacchia di oggi?”. Secondo Shavit, sulla marcia iraniana verso l’atomica è come calato un tappeto protettivo, quello delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. “L’elezione di novembre è decisiva per due ragioni. Per l’Iran, perché sa di avere una finestra di tempo ristretta per rendere irreversibile il suo programma atomico. E’ decisiva per Israele, perché ha paura che, se rieletto, Obama potrebbe essere ancora più appeaser di quanto non lo sia stato oggi e perché un presidente repubblicano impiegherebbe molto tempo per entrare nella crisi iraniana. La visione da Gerusalemme è questa: ‘Gli americani ci dicono che siamo ossessionati da Masada e che non ci siamo ripresi da Auschwitz; ci dicono che sono leali e che ci possiamo fidare, ma i fatti dimostrano il contrario. Hanno tradito ogni alleato in medio oriente. E ci getteranno anche a noi nella discarica della storia’”. Secondo Shavit, è l’America che deve decidere cosa fare, non Israele. “Obama deve scegliere se essere ricordato come Kennedy o come Carter. Il rischio è lasciare alle generazioni successive un mondo nucleare multipolare nella regione più instabile della Terra. Anche se Teheran non lanciasse mai ordigni nucleari su Tel Aviv, il mondo andrebbe incontro a conseguenze catastrofiche. Obama deve dare a Netanyahu garanzie che fermerà gli iraniani a qualsiasi prezzo dopo le sue elezioni, altrimenti obbligherà Netanyahu ad agire prima di novembre. Se gli americani non dimostrano di aver aperto gli occhi, Israele agirà prima di novembre. Il rischio è alto, ma l’alternativa lo è di più”.

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Le divergenze parallele di America e Israele sullo strike in Iran"


Mattia Ferraresi, Bibi Netanyahu, Barack Obama

New York. Mettere a confronto le dichiarazioni degli alti ufficiali di Washington sulla possibilità di uno strike di Israele alle strutture nucleari iraniane è un metodo sicuro per smarrirsi. Affiancarle a quelle delle autorità israeliane per trovare le intersezioni è un esercizio enigmistico prima che strategico; se si mettono in conto poi i messaggi anonimi che per dissenso o abile calcolo vengono messi in circolo dai coté militari e diplomatici di ambo le parti non se ne ricava l’impressione che Stati Uniti e Israele sulla questione iraniana siano, come si dice in America, sulla stessa pagina. Fra il segretario della Difesa certo che sia tutto pronto per l’attacco, il capo delle Forze armate che parla di conseguenze “devastanti”, il consigliere per la sicurezza nazionale convinto della via diplomatica, il capo dell’intelligence e il segretario di stato con gli estintori, il capo dell’aviazione pronto a far librare in volo i caccia americani – se soltanto qualcuno desse l’ordine – e il presidente, Barack Obama, che ha ripetuto così tante volte “tutte le opzioni sono sul tavolo” che ormai sembra più che altro un segnale di disimpegno, l’unica cosa che appare certa è che la “green light” per procedere all’attacco Washington non è disposta ad accenderla. Allora si muovono le pedine: il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, vola in fretta a Washington accompagnato da fonti anonime che al quotidiano Haaretz spiegano che Israele non aspetterà il permesso americano per agire e poi l’incontro fra Netanyahu e Obama di lunedì prossimo, anticipato di qualche ora dall’intervento che il presidente americano farà al congresso dell’Aipac, la lobby israeliana con la quale non può permettersi frizioni. Non in un anno elettorale. E non con il Congresso più filoisraeliano della storia recente. Quello che Bibi chiederà a Obama è di dare qualche garanzia sostanziale sull’appoggio americano a un’azione di Israele – Bloomberg citava alcuni ufficiali del Pentagono secondo i quali l’aviazione americana ha un piano pronto per affiancare l’Idf nell’operazione: questo Netanyahu vorrebbe sentire – magari accompagnandola con un po’ di chiarezza pubblica sulle oscure “red lines” che l’Iran dovrebbe superare per scatenare una reazione americana. A Washington ciascuno ha le sue linee rosse (uranio arricchito al 90 per cento, generica “capacità” di produrre la bomba ecc.) e non c’è una versione univoca circa quali sarebbero le conseguenze nel caso Teheran sgarrasse (ammesso che non abbia già passato il segno), un’indeterminatezza che indebolisce il sistema di deterrenza impiantato dagli Stati Uniti e fa innervosire il governo israeliano in cerca di benedizione politica. Michael Eisenstadt, direttore del programma sulla sicurezza del Washington Institute for Near East Policy, legge in modo alternativo l’apparente divario fra Washington e Gerusalemme: le posizioni dei due paesi, dice al Foglio, “non sono sovrapponibili nella strategia ma sono unite nello scopo: impedire all’Iran di avere la bomba nucleare”. Significa che le divergenze nelle dichiarazioni pubbliche sono un gioco delle parti e in realtà tutti sono d’accordo? “Io credo di no – continua – perché esiste un conflitto fra le due visioni. Dico però che non è un male nell’ottica generale di fermare l’Iran, anzi credo sia l’unico modo realistico per affrontare il problema. L’America non può permettersi di appoggiare lo strike e questo concetto non sfugge a Teheran. Se dunque si facesse trapelare che un accordo per l’attacco esiste, gli ayatollah capirebbero che è un bluff. Al contrario, Israele è pronto ad attaccare, perché considera l’Iran una minaccia diretta, vicinissima e potenzialmente fatale. Vedere che Gerusalemme e Washington non concordano, discutono sulla strategia e non vedono le cose allo stesso modo è quello che preoccupa l’Iran, perché rivela che l’ipotesi dell’attacco non è soltanto virtuale”. Nel decifrare il senso dell’incontro fra Obama e Netanyahu, Eisenstadt dice che “l’obiettivo di Israele non è chiedere il permesso di colpire, ma valutare quanto costerà chiedere scusa. L’America dissente nel metodo, preferirebbe la solita politica a due velocità, con le sanzioni da una parte, i cui effetti devono peraltro ancora esprimersi del tutto, e dall’altra una trama di negoziati paralleli, ma l’obiettivo è fermare l’Iran nucleare, quindi credo che sarà molto più facile per Israele chiedere scusa il giorno dopo che chiedere il permesso il giorno prima”. Ma il giorno dopo lo strike la situazione nell’area sarebbe sostenibile? “Il problema della previsione delle conseguenze ha a che fare con un’altra questione: se l’Iran è o no un regime razionale. Molti analisti dicono, non senza ragioni, che Teheran calcola con cura le sue mosse, orchestra le provocazioni, mischia la propaganda alla strategia sapendo ciò che fa e gli scopi che vuole raggiungere. Ma se è così, non si può sostenere che il giorno dopo l’attacco l’Iran si trasformi improvvisamente in uno stato apocalittico che smette di fare calcoli e si lascia trascinare da una cieca sete di vendetta. In più, le forze regionali legate all’Iran non credo muoverebbero un dito. Bisogna ricordarsi sempre della risposta che nel 2006 Khaled Meshaal, il leader politico di Hamas, ha dato a uno studente di Teheran che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto Hamas in caso di un attacco israeliano: ‘Pregheremo per voi’, aveva detto. Anche Hezbollah è in una posizione simile. Quello che ci si può aspettare è una serie di episodi di terrorismo. Israele ha dimostrato di avere le capacità di contenere e neutralizzare questa minaccia in modo efficace”. All’Aipac si aspettano da Obama una prova più convincente di quella dell’anno scorso, quando ha lasciato amareggiati gli astanti per quel riferimento sgradito ai confini del 1967 e quest’anno il compito degli speechwriter del presidente è ancora più delicato. Fino a che punto potrà spingersi pubblicamente sull’Iran? “Sarei molto, molto sorpreso se andasse oltre il livello di ‘ogni opzione è sul tavolo’, che ormai è il gradino più alto al quale l’Amministrazione accetta di salire in termini retorici. Qualche specifica dovrà fornirla, ma bisogna tenere presente che quando parla all’Aipac il presidente parla al Congresso, e cerca di compiacere i suoi umori”. Eisenstadt crede che le sanzioni non abbiano ancora mostrato la loro vera forza, crede nella deterrenza e nell’isolamento del regime iraniano, ma da tempo non crede più nella via diplomatica per risolvere il conflitto. “Siamo vicini al momento della verità e il rischio che vedo è che non sia davvero un momento della verità, perché magari l’azione arriverà troppo tardi, quando le installazioni degli iraniani non saranno più attaccabili in modo efficace, oppure quando sarà chiaro che il regime ha il potenziale per armare una bomba. Non mi metto nel gioco delle date, dei mesi o anni che mancano agli ayatollah per avere l’atomica. Semplicemente dico che hanno fatto troppa strada per tornare indietro adesso”.

La STAMPA - Giordano Stabile : " Iran al voto, la sfida dei falchi "


Ali Khamenei con Mahmoud Ahmadinejad

Gli iraniani hanno potuto ieri saggiare l’importanza della posta in gioco dal tenore degli sms spediti dal governo a tutti i 48 milioni di aventi diritto al voto muniti di telefonini: «Gli Stati Uniti potrebbero decidere di attaccare l’Iran se l’affluenza alle urne sarà inferiore al 50 per cento». Un invito, o forse qualcosa di più, ad andare in massa alle urne, ribadito a martello da tutti i media. I sei canali televisivi pubblici non hanno fatto altro per due giorni, fino al piatto principale, un lungo e accorato intervento della guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei, che ha chiamato i cittadini a «dare uno schiaffo alle potenze arroganti»: la massiccia partecipazione al voto «dimostrerà la ferma volontà della nazione iraniana a combattere i nemici».

Votare o non votare. Questo è il dilemma degli iraniani a tre anni dall’Onda verde seguita ai brogli delle presidenziali del 2009, che confermarono Mahmoud Ahmadinejad alla più alta carica dello Stato, dopo la guida suprema. Questa volta si vota per il Majlis, il Parlamento. Con gli unici oppositori di rilievo, il leader dell’Onda verde Mir Hussein Moussavi e Mahdi Karoubi agli arresti domiciliari da oltre un anno, non ci sono molte alternative politiche. I 3500 candidati sono stati attentamente selezionati dal Consiglio dei Guardiani, l’organo religioso che veglia sulla moralità dei politici e la loro «presentabilità». Difficilmente ci potranno essere sorprese, se non da quel «partito del bazaar», la classe media commerciante che potrebbe spingere qualche candidato pragmatico, preoccupato più dall’inflazione al 22% e dalla disoccupazione al 15, che dalla sfida nucleare all’Occidente. Per l’orientalista Bernard Hourcade, del Cnrs di Parigi, è dalle province che potrebbe arrivare «una nuova generazione di tecnocrati spoliticizzati» in grado di mutare gli equilibri.

Ma la lotta vera, alla fine, sarà ridotta fra gli oltranzisti di Ahmadinejad e gli ultra-oltranzisti di Khamenei, con questi ultimi decisi a dare una bella lezione al presidente, accusato fra l’altro di non saper gestire l’economia, che nel programma elettorare del 2009 era invece al primo posto. Le sanzioni non l’hanno aiutato, è vero, ma la Guida vuole evidentemente spingere ancor più sull’acceleratore del nucleare e della sfida mortale con Israele. E deve, domani, dimostrare che le massicce manifestazioni di tre anni fa non hanno incrinato il consenso verso il regime nella pancia profonda del Paese. Per questo la soglia fissata per l’affluenza, all’interno dei circoli ultra-conservatori, è del 60-65 per cento. Sotto, sarebbe un brutto segnale.

La propaganda underground dell’Onda verde cerca allora di convincere il più possibile degli elettori di Moussavi e Karoubi a non andare ai seggi. Sono milioni di possibili astenuti, potenzialmente la metà, che potrebbero rovesciare lo «schiaffo» auspicato in faccia a Khamenei. Più che sugli incubi della repressione dell’estate del 2009 puntano sulla caduta del potere d’acquisto, sulla svalutazione del 40 per cento della moneta locale, il rial, rispetto al dollaro, che ha atterrato anche il mercato nero. Quanto è profondo il malcontento lo dirà questa sera, o al massimo domani, il dato sull’affluenza.

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