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La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
24.01.2012 UE: sanzioni molto dure contro l'Iran
analisi di Maurizio Molinari, Livio Caputo, una domanda di IC al Foglio

Testata:La Stampa - Il Giornale
Autore: Maurizio Molinari - Livio Caputo
Titolo: «La bomba a orologeria del Golfo - Iran a un bivio: trattare o alzare lo scontro?»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 24/01/2012, a pag. 15, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La bomba a orologeria del Golfo ". Dal GIORNALE, a pag. 13, l'articolo di Livio Caputo dal titolo " Iran a un bivio: trattare o alzare lo scontro? ".

L'Europa ha deciso di adottare sanzioni molto dure contro l'Iran. Stupisce che sul Foglio, nella titolazione al pezzo di Raineri, la redazione abbia deciso di usare l'aggettivo 'spietate'. Se le sanzioni saranno adottate c'è un motivo, il nucleare iraniano va fermato. Il termine 'spietato' suggerisce che l'Iran sia vittima, non è così. D'altro canto pochi giorni fa lo stesso Raineri aveva definito le sanzioni 'brutali'. E il nucleare iraniano come può essere definito? Oltre a illegale e pericoloso...sarà 'brutale' quando e se attaccherà Israele e l'Occidente? Sarà 'spietato'? Oppure ci si chiederà se, magari, avrebbe potuto essere evitato?
Ecco i due articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " La bomba a orologeria del Golfo "


Maurizio Molinari

Varcando lo Stretto di Hormuz con la portaerei Uss Lincoln accompagnata da una flottiglia di unità britanniche e francesi, la Us Navy ha voluto riaffermare la libertà di navigazione, sfidando Teheran che continua a minacciare di negarla in segno di ritorsione contro le sanzioni internazionali.

Dietro il braccio di ferro fra Leon Panetta, capo del Pentagono, e il generale Ataollah Salehi, comandante di Stato Maggiore delle forze iraniane, c’è una disputa strategica che investe la maggiore arteria petrolifera del pianeta e vede entrambe le parti vantare la legittimità giuridica delle rispettive posizioni.

La disputa strategica è descritta dalla geografia. Il passaggio di Hormuz fra il Golfo Persico e l’Oceano Indiano nella parte più stretta misura 54 chilometri fra le coste dell’Iran, settentrionale, e degli Emirati Arabi Uniti, meridionale, dove si trova appollaiata l’enclave di Musandam dell’Oman. Emirati e Oman sono sostenuti dall’Arabia Saudita, rivale strategico di Teheran per l’egemonia sul Golfo e maggiore alleato di Washington nella regione, trasformando lo Stretto nel punto più vicino dove gli interessi e le ambizioni degli sceicchi arabi-sunniti e iraniani-sciiti si fronteggiano.

L’oggetto del contendere, da quando in Iran si affermò la rivoluzione khomeinista nel 1979, è il controllo del traffico petrolifero attraverso gli Stretti stimato fra il 36 e il 40 per cento del commercio quotidiano globale. La totalità del petrolio esportato da Arabia Saudita, Iran, Kuwait, Iraq, Qatar, Emirati Arabi e Bahrein passa ogni giorno Hormuz a bordo di petroliere dirette verso Asia ed Europa che transitano lungo due corsie, una in entrata e un’altra in uscita, larghe circa 3 miglia ciascuna all’interno di una canale di navigazione internazionale di 10 miglia fra le acque dell’Iran e quelle dell’Oman. Ciò significa che il fabbisogno energetico di gran parte del mondo industrializzato dipende dalla libertà di accesso a queste due corsie parallele. La contrapposizione fra il blocco dei Paesi arabi e Teheran portò durante il conflitto Iran-Iraq (1980-1988) alla «guerra delle petroliere», che iniziò nel 1984 con l’attacco iracheno contro il terminale petrolifero iraniano di Kharg e portò Teheran a bombardare le petroliere irachene e del Kuwait innescando una serie di blitz e rappresaglie che il 18 aprile del 1988 degenerarono in uno scontro diretto fra la Us Navy e le forze iraniane. L’operazione «Praying Mantis» iniziò quando la fregata americana Uss Roberts urtò una mina iraniana a Hormuz, innescando il maggior conflitto aeronavale avvenuto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale con l’affondamento di cinque navi iraniane e l’abbattimento di un elicottero dei Marines.

A 24 anni di distanza, quello scontro militare sembra ora rischiare di ripetersi anche se in dimensioni ben maggiori. Dalla metà di dicembre le forze iraniane e americane hanno effettuato esercitazioni opposte e speculari simulando cosa potrebbe avvenire. I Guardiani della rivoluzione iraniana hanno mine a sufficienza per bloccare la navigazione. Se la Us Navy dovesse mandare i cacciamine, gli iraniani dispongono di barchini veloci e missili antinave capace di bersagliarle. Il comando americano di base a Doha, in Qatar, risponde con un potenziale aeronavale di schiacciante superiorità tattica, soprattutto grazie alle unità della Quinta Flotta di stanza in Bahrein, che possono contare sul sostegno di vicini porti militari francesi e britannici.

Se i venti di guerra tornano a spazzare gli Stretti di Hormuz è perché si fronteggiano opposte versioni sulla legittimità della chiusura della navigazione. Teheran ritiene che il varo di sanzioni internazionali contro la sua industria petrolifera equivale ad un atto di guerra, consentendole dunque sulla base della Convenzione di Ginevra del 1958 di difendersi chiudendo Hormuz al traffico navale dei Paesi che le applicano, a cominciare da Stati Uniti, Paesi europei e arabi. «Chiudendo lo Stretto di Hormuz sarà seriamente interrotto il flusso di greggio verso gli Stati industriali - ha scritto il giornale conservatore iraniano Kayhan - causando loro condizioni intollerabili» al pari di quanto avverrà in Iran a seguito delle sanzioni petrolifere. Il riferimento è non solo all’approvvigionamento ma anche alle implicazioni di un prezzo del greggio che potrebbe schizzare, secondo alcuni analisti, a 200 dollari, il doppio di quello attuale. Per gli Stati Uniti invece ad essere equiparata ad una «dichiarazione di guerra» sarebbe proprio la chiusura degli Stretti, trattandosi di una palese violazione della libertà di navigazione sancita dai Trattati internazionali.

A rendere ancora più complessa la disputa è il fatto che tanto Teheran che Washington invocano il Trattato Onu sul Diritto del Mare del 1982, sebbene entrambe non l’abbiano ratificato. Per Teheran il Trattato obbliga al rispetto della libertà di navigazione solo nei confronti delle imbarcazioni dei Paesi aderenti, e gli Usa non sono fra questi, mentre Washington ribatte che il diritto di «Passaggio Inoffensivo» è una consuetudine inviolabile del diritto internazionale e vale per tutti. E ancora: la III Conferenza dell’Onu sul Diritto del Mare scelse di non affrontare l’estensione dei diritti di «Passaggio Inoffensivo» alle navi da guerra e ciò consente a Teheran di affermare che il blocco contro le navi militari sarebbe legittimo. Non a caso nelle ultime settimane la Us Navy ha effettuato più operazioni di soccorso marittimo a pescherecci iraniani al fine di attestare che la sua presenza non ha fini solo militari.

Il GIORNALE - Livio Caputo : " Iran a un bivio: trattare o alzare lo scontro? "


Livio Caputo, Mahmoud Ahmadinejad

L’Unione Europea ha varcato il Rubico­ne. Dopo settimane di negoziati, i 27 hanno deciso di sfidare la minaccia iraniana di chiu­dere lo stretto di Hormuz e varato le prime sanzioni petrolifere contro la Repubblica islamica: nessun nuovo contratto per l’ac­quisto di greggio e di prodotti petroliferi e pe­trolchimici e rescissione di quelli vecchi en­tro il primo luglio. Per l’Europa, significa ri­nunciare al 6% del proprio fabbisogno, cui si pensa di rimediare aumentando le importa­zioni da Arabia Saudita ed Emirati. Per l’Iran, comporta un taglio del 20% delle proprie esportazioni, che difficilmente gli ayatollah potranno compensare au­mentando le forniture ai Pae­si asiatici- fin d’ora i loro prin­cipali clienti- viste le pressio­ni che gli Stati Uniti stanno esercitando sugli alleati Giap­pone e Corea del Sud e perfi­no su Cina e India. Per piazza­re­il greggio che l’Ue non com­prerà più, dovranno offrirlo a prezzi stracciati. Un altro col­po gravissimo per Teheran è il congelamento delle risorse della Banca nazionale irania­na, attraverso la quale si svol­ge buona parte del suo commercio estero, nel­l’Unione Europea. L’obbiettivo di Bruxelles,che agisce in stret­to concerto con Washington, è sempre lo stes­so: convincere la Repubblica islamica a riapri­re, su basi serie e non solo per guadagnare tempo, le trattative per fermare la sua corsa verso l’arma atomica. Nessuno nega agli ira­niani il diritto di dotarsi di un’industria nucle­are a uso pacifico, ma se vogliono evitare di es­sere messi con le spalle al muro, o addirittura di vedere distrutte le proprie installazioni per l’arricchimento dell’uranio da un attacco pre­ventivo, devono smettere di ingannare la co­munità internazionale truccando i dati e co­struendo impianti segreti nel cuore delle mon­tagne.
La prima reazione di un portavoce di Tehe­ran è stata di reiterare la minaccia di chiudere Hormuz, attraverso il quale passa il 20 per cen­to del petrolio mondiale. L’Occidente ha ri­sposto facendo varcare lo stretto alla portae­rei «Lincoln»,scortata da unità americane,in­glesi e francesi. Visto che Hormuz è largo in tutto 60 chilometri,e che per evitare i bassifon­di tutte le navi tra­nsitano attraverso due cana­li paralleli dell’ampiezza di due miglia ciascu­no, l’Iran è tecnicamente in grado di chiuder­lo: può minarlo, ricorrere alle motosiluranti dei pasdaran o aprire il fuoco con le batterie missilistichecostiere.Larisposta,tuttavia,sa­rebbe immediata e devastante, anche perché Obama, in piena campagna elettorale e incal­z­ato da candidati repubblicani molto più belli­cosi di lui, non può permettersi ritirate. Se gli ayatollah si illudono che un’America indebo­lita dalla cri­si e ammaestrata dalla lezione ira­chena faccia buon viso a cattivo gioco, si sba­gliano di grosso.
È perciò difficile prevedere come Teheran reagirà in pratica alle nuove sanzioni. La situa­zione è resa più complessa dal duro confron­to in corso tra la Guida suprema Khamenei e il presidente Ahmadinejad in vista delle elezio­ni legislative di marzo. Al momento sembra che il primo, spalleggiato dall’establishment religioso, propenda per lo scontro, mentre il secondo avrebbe adottato una linea più possi­bilista. Entrambi gli schieramenti devono pe­raltro tenere conto delle condizioni disastra­te dell’economia, che una chiusura di Hor­muz metterebbe definitivamente in ginoc­chio: inflazione alle stelle, rial svalutato del 60% in un anno, carenza di molti beni di con­sumo. Tutto sommato, ricominciare a tratta­re seriamente prima che le nuove sanzioni co­mincino a mordere, sarebbe nel loro interes­se, ma finora ostinazione ed orgoglio naziona­listico lo hanno sempre impedito. Una cosa è certa: il braccio di ferro è entrato nella sua fa­se conclusiva, ed entro l’anno la questione dell'atomica iraniana dovrà essere risolta.

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