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Corriere della Sera - La Stampa - Ansa Rassegna Stampa
18.01.2012 Memoria: fine di uno scandalo, chiuso il padiglione italiano ad Auschwitz (era ora)
Preso il ladro dei sampietrini della Memoria a Roma, quando l'Iran era ancora Persia, cronache di Frediano Sessi, Maurizio Molinari, Walter Barberis, Redazione di Ansa

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Ansa
Autore: Frediano Sessi - Maurizio Molinari - Walter Barberis - Redazione di Ansa
Titolo: «Museo di Auschwitz senza l'Italia, padiglione chiuso - Ebrei ma ariani: duemila si salvarono con il trucco di uno Schindler iraniano - Due bicchieri di cognac per brindare alla soluzione finale - 'No a cimitero davanti a casa'. Preso ladro 'pietre inciamp»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/01/2012, a pag. 35, l'articolo di Frediano Sessi dal titolo " Museo di Auschwitz senza l'Italia, padiglione chiuso ", preceduto dal nostro commento. Dalla STAMPA, a pag.36, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Ebrei ma ariani: duemila si salvarono con il trucco di uno Schindler iraniano ", a pag. 37, l'articolo di Walter Barberis dl titolo " Due bicchieri di cognac per brindare alla soluzione finale ". Pubblichiamo il lancio ANSA dal titolo " 'No a cimitero davanti a casa'. Preso ladro 'pietre inciampo'. Erano installazioni artista a ghetto Roma per ricordare la Shoah  ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Frediano Sessi : " Museo di Auschwitz senza l'Italia, padiglione chiuso "

Un plauso per la decisione di chiudere il padiglione italiano ad Auschwitz, un monumento di cui l'Italia dovrebbe vergognarsi, dedicato a esaltare l'Unione Sovietica secondo la narrativa imposta dal PCI in quegli anni, e che non ha nulla a che vedere con lo sterminio degli ebrei italiani.  Chissà che la sua chiusura non ne implichi lo smantellamento e la costruzione di un monumento che rappresenti la Memoria degli ebrei italiani sterminati dal nazifascismo. Ovvia la difesa dell'Aned, la cui memoria è sempre stata a senso unico, visto che i suoi dirigenti sono sempre stati di stretta osservanza comunista.Sono state molte le proteste dei visitatori italiani, questa chiusura servirà a fare un padiglione diverso ? Ce lo auguriamo.

Ecco il pezzo:


Il padiglione italiano

G li italiani che quest'anno, in occasione della Giornata della Memoria, si recheranno a Oswiecim per una visita a quello che fu il complesso concentrazionario di Auschwitz, troveranno una spiacevole sorpresa: dal luglio scorso il padiglione italiano (Blocco 21) che ricorda il dramma della deportazione dall'Italia, per decisione unilaterale della direzione del museo è stato chiuso al pubblico.
Il memoriale, pensato alla fine degli anni 60 come sintesi di arte e storia, già entro l'ottobre dello scorso anno avrebbe dovuto essere smontato e sostituito. In caso contrario, in mancanza di un nuovo progetto che prestasse più attenzione alla storia e alla didattica della memoria, lo spazio destinato all'Italia sarebbe stato concesso ad altri Paesi che da tempo, esclusi dalle mostre nazionali dei singoli memoriali, attendono uno spazio libero.
La storia del Blocco 21 è nota: nel 1971, l'Aned (associazione nazionale ex deportati) ottiene il consenso dalle autorità polacche per predisporre un memoriale sulla deportazione degli italiani. Nel 1975 lo studio Bbpr di Milano (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers) presenta il primo progetto. La difficoltà nella raccolta dei fondi porterà alla realizzazione dell'opera solo nel 1980, e il 13 aprile il memoriale sarà inaugurato. Belgiojoso spiegava così l'istallazione: «Ci siamo sforzati di ricreare allusivamente un'atmosfera di incubo, l'incubo del deportato straziato tra la quasi certezza della morte e la tenue speranza della sopravvivenza, mediante un percorso che passa all'interno di una serie infinita di spire di una grande fascia elicoidale illustrata, che accompagna il visitatore dall'inizio alla fine. È l'idea di uno spazio unitario ossessivo». Primo Levi, chiamato a redigere il testo, faceva parte del comitato esecutivo che decise la natura del memoriale, più artistico che informativo. La grande spirale immaginata da Belgiojoso fu poi illustrata da Mario Samonà, mentre il compositore Luigi Nono concesse l'uso del brano musicale «Ricorda che cosa ti hanno fatto ad Auschwitz»; il tutto con l'obiettivo, dichiarato alla direzione del Museo, che il padiglione italiano «fosse un luogo dove la fantasia ed i sentimenti di ognuno, più delle immagini e dei testi, rendessero l'atmosfera di una grande e indimenticabile tragedia» (dichiarazione di Primo Levi e Gianfranco Maris).
Dopo il 1989 molti dei padiglioni memoriali presenti ad Auschwitz sono stati rinnovati, in concomitanza con la revisione complessiva del sito. Francia, Olanda, Belgio, Ungheria hanno riscritto la storia della loro deportazione, più in linea con le nuove acquisizioni della ricerca e delle forme della memoria nazionali. Anche in Italia, dopo che il governo italiano ha approvato un finanziamento di 900 mila euro per il restauro del «Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio», a partire dai primi mesi del 2008 alcuni storici (tra i quali Giovanni De Luna e Michele Sarfatti) si sono chiesti se al posto dell'allestimento originario, artistico, non ne fosse necessario uno nuovo. La spirale di Belgiojoso racconta infatti l'occupazione delle fabbriche, l'Ordine Nuovo, Gramsci, l'antifascismo, in un discorso considerato difficile e arduo da capire anche sul piano storico. L'Aned per parte sua ha difeso il memoriale, sostenendo che un'opera d'arte parla un linguaggio universale e sempre comprensibile, come era nell'intento di chi progettò l'istallazione del Blocco 21.
Intanto le autorità polacche avevano preso contatto con il governo Berlusconi (Gianni Letta fungeva da mediatore), ma ora la realtà e davanti agli occhi di tutti. Il padiglione è chiuso, il memoriale degli italiani «censurato» e si spera che, anche a partire dal dibattito che si è aperto di recente sulle forme della memoria e sui modi di trasmetterla, il governo possa intervenire a fianco dell'Aned per consentire la riapertura al pubblico del Blocco 21, in attesa che un nuovo progetto (di restauro o di revisione dell'attuale) sia realizzato.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ebrei ma ariani: duemila si salvarono con il trucco di uno Schindler iraniano "

Un titolo non corretto, non iraniano, ma persiano.


Abdol-Hossein Sardari, Maurizio Molinari

Nella Francia sotto il giogo nazista circa duemila ebrei di origine persiana vennero salvati da Abdol-Hossein Sardari, un giovane diplomatico iraniano che sfidò la Gestapo con espedienti che ricordano da vicino quanto fece l’industriale tedesco Oskar Schindler in Polonia e Cecoslovacchia.

A raccontare la storia di Sardari è Fariboz Mokhtari, autore del libro The Lion’s Shadow (L’ombra del leone), ricostruendo come sfruttò le simpatie tra la Germania di Adolf Hitler e la Persia di Reza Shah - padre dello Shah deposto dalla rivoluzione del 1979 - per convincere i comandi nazisti nella Parigi occupata che gli ebrei iraniani non avevano «legami di sangue» con gli ebrei europei e dunque gli doveva essere garantito il diritto di tornare al più presto in patria, evitando la deportazione.

La fantasiosa tesi che Sardari espose per iscritto alle autorità tedesche, poco dopo l’occupazione di Parigi nel giugno del 1940, fu che il persiano Ciro il Grande, nell’anno 538 prima dell’era volgare, liberò gli ebrei esuli in Babilonia consentendo loro di tornare a casa, e che in seguito un piccolo numero di iraniani provò attrazione per Mosè come profeta dando vita ai «Djuguten» che nulla avevano a che fare con la «razza ebraica». Poiché gli iraniani erano considerati ariani da Hitler, e Reza Shah aveva proprio per questo cambiato il nome della nazione nel 1935 da Persia a Iran, i nazisti furono a tal punto incuriositi dalla tesi di Sardari sui «Djuguten» da trasmetterla a Berlino all’attenzione di Adolf Eichmann impegnato a portare a termine la «Soluzione finale del problema ebraico», ovvero lo sterminio degli ebrei.

Eichmann liquidò gli scritti di Sardari come «uno dei soliti trucchi e inganni ebraici», ma nel frattempo il giovane diplomatico aveva già distribuito agli ebrei iraniani residenti in Francia almeno mille nuovi passaporti, che permisero loro di sfuggire alle persecuzioni. Fra questi c’era anche una bambina di sette anni, Eliane Senahi Cohanim, che oggi vive in California da dove ha raccontato alla Bbc che «quando lasciammo la Francia mio padre tremava alla frontiera mostrando i passaporti e in seguito ci disse sempre che eravamo potuti uscire grazie a Sardari».

Forse venuto a conoscenza di quanto avveniva a Parigi, il governo iraniano nel 1941 chiese a Sardari di tornare ma lui non lo fece. La rivoluzione islamica del 1979 lo privò di pensione e proprietà, portandolo a emigrare a Londra dove è morto nel 1981, e ora le sua gesta, divenute pubbliche, sono destinate a confermare la solidità dello storico legame degli ebrei con l’Iran. «Speriamo che in futuro, dopo il collasso della Repubblica islamica, i diplomatici iraniani possano tornare a seguire l’esempio di Sardari», ha scritto Michael Rubin sul magazine Commentary , «piuttosto che promuovere il genocidio».

La STAMPA - Walter Barberis : " Due bicchieri di cognac per brindare alla soluzione finale "


Adolf Eichmann, Reinhard Heydrich, Heinrich Müller

I volti scarni e i corpi macilenti delle poche migliaia di superstiti che si presentarono allo sguardo sbalordito dei soldati dell’Armata rossa il 27 gennaio 1945, ai cancelli del campo di Auschwitz finalmente liberato, erano ciò che restava dei milioni di vittime passate dalle camere a gas e incenerite nei forni crematori. L’incredibile piano di sterminio di tutti gli ebrei d’Europa aveva avuto inizio esattamente tre anni prima, il 20 gennaio 1942, a Wannsee, un ameno sobborgo di Berlino. Lì, in una casa patrizia requisita a una ricca famiglia ebrea, il principale collaboratore di Himmler, Reinhard Heydrich, aveva convocato i responsabili di tutti i dicasteri e gli uffici ritenuti utili per deliberare la cosiddetta «soluzione finale».

Era risultato chiaro fin dall’autunno del 1941 che l’eliminazione fisica degli ebrei non avrebbe potuto essere portata a termine con mezzi convenzionali. Gli Einsatzgruppen, le unità speciali affiancate all’armata tedesca che avanzava sul fronte orientale, avevano operato con solerzia, ma i massacri di intere comunità ebraiche parevano dire che ben difficilmente i nazisti avrebbero potuto raggiungere il loro fanatico obiettivo di eliminare dalla faccia della terra l’intera popolazione ebraica nei tempi ragionevoli di una guerra.

Fucilati e gettati in fosse comuni, gli ebrei sterminati si contavano a decine di migliaia; ciò voleva dire che per quanto si adoperassero con zelo feroce, le mani di quegli uomini non riuscivano a realizzare risultati numericamente soddisfacenti. E non solo: per quanto risucchiate in una dimensione di pura follia e addestrate a uccidere senza ombra di pietà donne, vecchi e bambini, quelle SS imbrattate di sangue da capo a piedi, giorno dopo giorno, non avrebbero potuto reggere i ritmi che imponevano la ricerca, il rastrellamento e l’eliminazione fisica degli ebrei insediati nelle campagne e nei centri urbani di gran parte dell’Europa. E anche se storditi dall’alcol e non di rado dalle droghe, la loro tenuta nervosa aveva pur sempre dei limiti. Era già stato accertato che dopo un paio di mesi di quella vita gli uomini perdevano il controllo, davano segni di squilibrio mentale, diventavano inefficienti, inservibili. Dunque si imponeva un’altra soluzione.

Nell’autunno del 1941, in alcune zone del governatorato polacco e nelle terre di confine dell’Unione Sovietica attaccata dai nazisti, si fecero le prime prove. Erano tentativi rudimentali, con i camion, che tendevano a capire se si potevano accelerare i tempi e ottimizzare le procedure di eliminazione con i gas. Prima con i semplici gas di scarico ricondotti nei cassoni degli automezzi stipati di ebrei, poi con l’ausilio dell’acido cianidrico, da subito valutato efficace. Quegli esperimenti suggerirono l’idea di trasformare i campi di concentramento e di lavoro allestiti per gli ebrei negli anni precedenti in campi di sterminio. Usando il gas in ambienti chiusi, capaci di contenere svariate centinaia di persone, con turni adeguatamente veloci, si sarebbero potute eliminare migliaia di persone in un solo giorno in ciascuno dei campi.

I vertici del Reich presero segretamente la decisione. Alle SS il compito di coordinare il grande sterminio con procedure industriali. Occorreva la complicità e il concorso di molte organizzazioni e di centinaia di migliaia di persone: una immensa burocrazia doveva individuare gli ebrei, catturarli, trasportarli nei campi; le industrie chimiche dovevano produrre le quantità richieste di acido cianidrico, quelle metallurgiche costruire gli inceneritori, le banche provvedere a incamerare i beni degli ebrei, le ferrovie riorganizzare i loro orari. E molto altro ancora.

Scelti accuratamente, i rappresentanti dei vari dipartimenti dello Stato tedesco vennero convocati a Wannsee. La ferrea regia di Heydrich li avrebbe dovuti informare delle decisioni e convincere della loro necessità. Ignari e sorpresi dall’annuncio, anche i più incalliti antisemiti, uomini come il generale delle SS Hofmann, o il dottor Kritzinger, rappresentante della cancelleria del Reich, e ancora il dottor Stuckart, il giurista che aveva di fatto redatto le leggi razziali del 1935, rimasero perplessi di fronte all’enormità della decisione. Abbozzarono obiezioni e soluzioni alternative. Ma la decisione era già stata presa: loro erano lì solo per ratificarla.

Heydrich, coadiuvato dal capo della Gestapo Müller e dal segretario della riunione, Adolf Eichmann, nel volgere di un’ora o poco più ridusse tutti alla più cieca obbedienza. Ora era soltanto questione di dettagli organizzativi. Sciolta la riunione fra abbondanti libagioni, Heydrich e Müller invitarono il tenente colonnello Eichmann a unirsi a loro in un brindisi: quel paio di bicchieri di cognac con i più alti gradi del potere criminale nazista rappresentarono il culmine della sua carriera. Lo avrebbe candidamente dichiarato di fronte ai giudici di Gerusalemme quindici anni dopo, al processo che lo condannò all’impiccagione per crimini contro il popolo ebraico.

Quella riunione a Wannsee aveva trasformato Eichmann in uno specialista di trasporti verso l’inferno. Il suo unico commento, rimasto solo nella villa in cui aveva organizzato l’incontro, ascoltando il finale di un quintetto di Schubert con il quale si erano deliziati i suoi superiori, fu: «Non capirò mai come si possa apprezzare questa spazzatura sentimentale viennese». Ottuso e zelante, ingranaggio fondamentale della macchina di morte, Adolf Eichmann si apprestava a diventare l’icona di quella che Hannah Arendt avrebbe definito «la banalità del male».

ANSA - " 'No a cimitero davanti a casa'. Preso ladro 'pietre inciampo'. Erano installazioni d'artista al ghetto Roma per ricordare la Shoah "

Siamo di fronte ad una 'giustificazione' palesemente falsa, ma siamo pronti a scommettere che verrà presa sul serio.
Ecco il lancio:

ROMA, 17 GEN - Non un gesto antisemita. Semplicemente «non volevo il cimitero proprio davanti al portone di casa mia». Così un uomo di 41 anni, romano, ha ammesso di essere stato il ladro delle 'Pietre di inciampo', installazione di un artista per ricordare nel ghetto di Roma la Shoah e la memoria delle tre sorelle Spizzichino. L'uomo è stato individuato e denunciato dai carabinieri per furto. «Motivi estetici mi hanno spinto al gesto -ha detto- perché le targhe davanti al portone» in via Santa Maria in Monticelli «avrebbero fatto paragonare quel luogo ad un cimitero». L'uomo ha anche riferito che scriverà una lettera di scuse alla comunità ebraica e al Comune. La denuncia di furto era stata presentata ai carabinieri di piazza Farnese.

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