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Il Foglio Rassegna Stampa
22.03.2011 Processo ad Hannah Arendt
Giorgio Israel non condivide le accuse di Deborah Lipstadt

Testata: Il Foglio
Data: 22 marzo 2011
Pagina: 4
Autore: Giorgio Israel
Titolo: «La banalità del libro»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/03/2011, a pag. 4, l'articolo di Giorgio Israel dal titolo "La banalità del libro".


Giorgio Israel      Deborah Lipstadt

Sul libro di Deborah Lipstadt abbiamo pubblicato sabato un articolo con un commento molto favorevole (per leggerlo, cliccare sul link http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=38947). Interviene con un parere opposto Giorgio Israel. Ecco il suo articolo:

Ho sempre condiviso le critiche alla teoria della “banalità del male” di Hannah Arendt. Nella sua corrispondenza con Gershom Scholem, ho sempre trovato più convincente la posizione di quest’ultimo. Aggiungerei che la tesi della “banalità del male” potrebbe essere rovesciata. Uno dei più grandi enigmi del mondo è l’esistenza del male, ed è, casomai, il bene a essere ovvio e naturale, mentre il male è un’aberrazione inspiegabile. Non a caso, la teologia ebraica, in particolare quella kabbalistica, ha esplorato con la massima intensità il tema dell’esistenza del male ponendosi di fronte, con audacia estrema, alla domanda se l’origine del male non vada cercata entro lo stesso atto creativo del mondo da parte di Dio, e quindi Egli stesso non ne sia la causa. Anche per l’incomprensione di questa problematica da parte di Arendt, aveva ragione Scholem a definire la tesi della “banalità del male” come uno “slogan”, frutto di un’analisi poco profonda e persino – aggiungeva – contraddittoria con quella centrale del celebre libro di Arendt sulle origini del totalitarismo. Ciò detto, non trovo nulla nella critica di Scholem a Arendt che assomigli neppure lontanamente alle dure accuse mosse da Deborah Lipstadt nel suo libro “The Eichmann Trial” (di cui ha parlato il Foglio), fino al punto di imputarle di aver assolto la cultura europea dalla colpa di antisemitismo. Il rimprovero di Scholem a Arendt di mancare dell’Ahavat Israel, dell’amore per il popolo ebraico, non ha niente a che fare con l’accusa della Lipstadt secondo cui la Arendt considerava i sionisti colpevoli di parlare lo stesso linguaggio di Eichmann. Non soltanto Arendt si difende esplicitamente da questa accusa in una risposta a Scholem (24 luglio 1963), ma spiega il senso della sua critica a un certo sionismo, la quale ha un fondamento tutt’altro che inconsistente. Arendt riferisce di un suo dialogo con un alto esponente israeliano cui esprimeva la sua preoccupazione per l’assenza di separazione tra stato e religione in Israele. Questi rispose: “In quanto socialista evidentemente non credo in Dio, credo nel popolo ebraico”. “Trovai questa dichiarazione scandalosa”, osservò Arendt, aggiungendo: “Avrei potuto rispondere: la grandezza di questo popolo è venuta un giorno dal fatto che ha creduto in Dio e ha creduto in Lui in tal modo che la sua fiducia e il suo amore per Lui erano più grandi della sua paura. Ed ecco che ora questo popolo non crede altro che in se stesso! Cosa di buono può venire da questo?”. Questi non sono accenti di un’antisemita, bensì di un’ebrea che pone un problema perfettamente sensato, anche se accanto a una tesi poco convincente, forse dannosa, ma legittima. Lo scambio, pur duro, tra Arendt e Scholem, è un confronto intellettuale ad alto livello tra due grandi intellettuali mitteleuropei e non un processo da rotocalco. Di recente, per aver paragonato gli orrori del Gulag comunista a quelli del Lager nazista, alcuni primi della classe del filosemitismo mi hanno accusato di essere un “traditore del mio popolo”, adducendo come colpa anche il mio interesse per Husserl, che si sarebbe macchiato della colpa di aver avuto come allievo Heidegger. Le tesi della Lipstadt e l’imputazione alla Arendt di aver commerciato con Heidegger, rievocano queste strida da tricoteuses giacobine. Nella citata lettera Arendt lamentava che la sua tesi fosse stata demolita prima ancora di leggerla dalla campagna promossa da un certo establishment ebraico israeliano e statunitense. E’ da augurarsi che, dopo mezzo secolo, non si ripeta lo scenario, con un certo ebraismo liberal newyorchese pronto a gettare con l’acqua sporca delle colpe europee una grande ricchezza culturale per lasciarci in mano solo la parodia puritana della ghigliottina di Robespierre.

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